ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
21 Settembre 2021


Referendum sulla giustizia: guida alla lettura dei sei quesiti


Dal 2 luglio 2021 è in corso la raccolta delle firme necessarie, ai sensi dell’art. 75 Cost., per indire un referendum popolare abrogativo volto a incidere su alcuni degli aspetti più significativi e al tempo stesso controversi del sistema giustizia del nostro Paese.

L’iniziativa è stata assunta dal Partito Radicale dalla Lega, i cui rispettivi segretari – Maurizio Turco e Matteo Salvini – sono anche co-presidenti del comitato promotore “Giustizia giusta. Dalla stampa risulta però come nelle scorse settimane il referendum abbia riscosso adesioni trasversali agli schieramenti politici, incontrando anche l’appoggio di un gruppo eterogeneo di personaggi pubblici ed esponenti della società civile.

Le sottoscrizioni finora sono avvenute soltanto con modalità tradizionali, ma i promotori si sono detti intenzionati ad avvalersi prossimamente della possibilità di firma elettronica per i referendum di cui agli artt. 75, 132 e 138 Cost. – introdotta in sede di conversione del c.d. decreto semplificazioni (art. 38-bis del d.l. 77/2021, come modificato dalla l. 108/2021) – di cui stanno beneficiando le concomitanti campagne su eutanasia e cannabis (sul tema dell'uso della firma digitale per referendum e leggi di iniziativa popolare si rinvia alle recenti riflessioni di Nello Rossi in Questione Giustizia).

Il referendum si compone di sei quesiti: la maggior parte di questi coinvolge questioni di ordinamento giudiziario, di grande rilevanza sistematica, tradizionalmente discusse nell’opinione pubblica e nel dibattito politico, oltre che scientifico; due riguardano profili di disciplina più specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione.

Di seguito illustriamo il contenuto dei quesiti e i tratti salienti della possibile normativa di risulta.

 

1. Il primo quesito viene presentato come «riforma del CSM».

«Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?»

La disposizione interessata dal quesito – art. 25 c. 3 l. 195/1958 – fa parte della disciplina del procedimento per l’elezione dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura e regola in particolare le modalità di presentazione delle candidature. La norma vigente richiede che l’aspirante candidato raccolga le adesioni di almeno 25 magistrati “presentatori”.

L’abrogazione della norma consentirebbe al singolo di presentare la propria candidatura senza ricercare preliminarmente il supporto di alcuno.

La finalità dichiarata del referendum è ridurre il peso delle correnti nella individuazione dei candidati e, in prospettiva, nell’operare del Consiglio dopo le elezioni.

 

2. Il secondo quesito concerne la «responsabilità diretta dei magistrati».

«Volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”?»

Le disposizioni in questione connotano la disciplina del risarcimento dei danni connessi all’esercizio dell’attività giudiziaria (l. 117/1988), configurando il divieto per il danneggiato di citare in giudizio il magistrato autore dell’atto che si assume lesivo. Le norme vigenti consentono al danneggiato di agire solo contro lo Stato, che, se soccombente, ha l’obbligo di esercitare un’azione di rivalsa contro il singolo magistrato, peraltro solo in presenza di determinati presupposti sostanziali (dolo o negligenza inescusabile) ed entro un limite quantitativo (metà di un’annualità di stipendio, salvi i casi di dolo dove la rivalsa è totale). La ratio di tale disciplina, da ultima modificata con l. 18/2015, è riconosciuta dalla Corte costituzionale (sent. 164/2017) nell’esigenza di un ragionevole bilanciamento tra diritto del danneggiato al ristoro del pregiudizio patito e tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura.

Per comodità di lettura, riportiamo le disposizioni interessate dal quesito referendario segnalando tra parentesi quadre le parole di cui è chiesta l’abrogazione.

Art. 2, comma 1. «Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire [contro lo Stato] per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali».

Art. 4, comma 2. «L’azione di risarcimento del danno [contro lo Stato] può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro tre anni che decorrono dal momento in cui l'azione è esperibile».

Art. 6, comma 1. «Il magistrato il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio [non può essere chiamato in causa ma] può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 105 del codice di procedura civile. Al fine di consentire l'eventuale intervento del magistrato, il presidente del tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza».

Art. 16, comma 4. «Nei casi previsti dall'articolo 3, il magistrato componente l'organo giudiziario collegiale risponde, altresì, [in sede di rivalsa] quando il danno ingiusto, che ha dato luogo al risarcimento, è derivato dall'inosservanza di obblighi di sua specifica competenza».

Art. 16, comma 5. «Il tribunale innanzi al quale è proposta l’azione [di rivalsa ai sensi dell'articolo 8] chiede la trasmissione del plico sigillato contenente la verbalizzazione della decisione alla quale si riferisce la dedotta responsabilità e ne ordina l'acquisizione agli atti del giudizio».

Il quesito mira ad abrogare le norme che in modo esplicito o implicito esprimono un divieto di responsabilità diretta del magistrato, così da delineare un sistema in cui all’azione contro lo Stato si affianca, quale strumento aggiuntivo, l’azione contro il singolo. Resterebbe invece intatto il presupposto soggettivo del dolo o della colpa grave quale limite per la domanda di risarcimento.

 

3. Il terzo quesito intende favorire una «equa valutazione dei magistrati».

«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?»

Il corpo normativo di riferimento (d.lgs. 25/2006) regola la composizione e le funzioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari. Tra i principali compiti di questi ultimi, operanti a livello distrettuale, vi è la formulazione di pareri finalizzati alla valutazione di professionalità dei magistrati da parte del CSM; analogo compito è svolto dal Consiglio direttivo in relazione ai magistrati in servizio presso la Suprema Corte o la Procura Generale. Entrambi gli organi hanno composizione mista: accanto ai magistrati ne fanno parte esponenti dell’avvocatura e professori universitari (oltre che, a livello locale, un rappresentante dei giudici di pace).

In forza delle norme oggetto del quesito referendario, la partecipazione dei membri non togati alle discussioni e alle deliberazioni dei due organi è espressamente limitata ad alcune funzioni: nel caso del Consiglio direttivo, la formulazione di pareri sulle tabelle di organizzazione della Corte di cassazione (art. 7, comma 1, lettera a), nel caso dei Consigli giudiziari (art. 15, comma 1), la formulazione di pareri sulle tabelle degli uffici giudicanti e sui criteri per l’assegnazione degli affari (lett. a), la vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari (lett. d) e la formulazione di pareri circa il funzionamento degli uffici del giudice di pace (lett. e). In entrambi i casi le norme rilevanti non menzionano, tra le competenze tassativamente indicate, quella consistente nella formulazione dei «pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 160/2006».

Il referendum mira a espungere dagli artt. 8 (per il Consiglio direttivo) e 16 (per i Consigli giudiziari) le limitazioni appena viste alla competenza dei membri non togati.

Il quesito è ispirato dall’idea che aprire alla partecipazione di soggetti estranei all’ordine giudiziario possa incrementare il grado di oggettività dei giudizi sull’operato dei magistrati sulla base dei quali il CSM dovrà poi procedere alla valutazione di professionalità.

 

4. Il quarto quesito si propone la «separazione delle carriere dei magistrati».

«Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché’ sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?»

Le numerose disposizioni contro cui è diretto il referendum sono quelle che fondano o implicano la possibilità per i magistrati di passare dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa. Tale possibilità trova il principale riconoscimento nell’art. 13 d.lgs. 160/2006, che oltre ad attribuire al CSM la competenza per i provvedimenti in materia detta ai commi da 3 a 6 una analitica disciplina del procedimento e dei limiti per il mutamento di funzioni.

Di tutte le disposizioni rilevanti dell’art. 13, insieme alla rubrica del medesimo articolo, viene ora chiesta l’abrogazione.

L’eventualità che il passaggio di funzioni avvenga o sia avvenuto è il presupposto delle regole dettate da altre disposizioni, relative al mutamento di sede con contestuale mutamento di funzioni (art. 192 c. 6 r.d. 12/1941); alla valutazione di idoneità allo svolgimento di funzioni direttive, giudicanti o requirenti (art. 18 c. 3 l. 1/1963); alla predisposizione, da parte della Scuola Superiore della Magistratura, di corsi di formazione per il passaggio di funzioni (art. 23 d.lgs. 26/2006); al periodo oggetto di esame ai fini della valutazione di professionalità (art. 11 c. 2 d.lgs. 160/2006); al trasferimento d’ufficio per la copertura di sedi disagiate, anche in deroga ai limiti cui è subordinato il mutamento di funzioni (art. 3 c. 1 d.lgs. 193/2009). Anche queste norme rientrano nel perimetro del quesito referendario.

L’abrogazione delle disposizioni menzionate eliminerebbe del tutto la possibilità per i magistrati di passare una o più volte dalla funzione giudicante a quella requirente (o viceversa) durante la propria vita professionale. Le ragioni a sostegno del referendum vengono ravvisate negli effetti deleteri in termini di equità e indipendenza che, secondo i promotori, deriverebbero dalla contiguità tra giudici e pubblici ministeri, finora consentita, tra l’altro, dalla perdurante possibilità di mutamento delle funzioni.

 

5. Il quinto quesito mira a porre «limiti agli abusi della custodia cautelare».

«Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché’ per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?»

Esauriti i quesiti in materia di ordinamento giudiziario, il referendum coinvolge uno degli istituti della giustizia penale di maggiore impatto concreto, sia sul piano delle conseguenze per la libertà personale che per i suoi riflessi mediatici: le misure cautelari, in particolare quelle personali.

Il quesito mira a restringere l’ambito delle esigenze cautelari che consentono l’applicazione di una misura, proponendosi di intervenire sul c.d. pericolo di reiterazione del reato di cui alla lett. c) dell’art. 274 c.p.p.

Il testo della disposizione all’esito dell’abrogazione sarebbe il seguente: «Le misure cautelari sono disposte: […] c) quando, per specifiche modalità e circostanze quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell'imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».

Sarebbe dunque eliminata la possibilità di motivare una misura con il solo pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, ipotesi in cui peraltro l’art. 274 lett. c) c.p.p., nella parte oggetto del referendum, già limita l’applicabilità della custodia cautelare, con condizioni ancor più stringenti per la custodia cautelare in carcere.

La norma vigente, nell’ottica dei promotori, finirebbe per costituire, nella prassi, una base giuridica idonea a giustificare quasi in automatico forme anche intense di restrizione della libertà personale, in assenza di un accertamento definitivo della responsabilità penale, non corrispondenti a una effettiva pericolosità del reo.

 

6. Il sesto quesito è intitolato «abolizione del decreto Severino».

«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?»

Il referendum chiama in causa il c.d. decreto Severino, ossia uno dei decreti legislativi (il n. 235/2012) emanati in attuazione della omonima legge (n. 190/2012) – recante il nome della Ministra della Giustizia dell’allora Governo Monti – che rappresenta uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione dell’ultimo decennio.

La legge Severino e i decreti attuativi disegnano un sistema composto tanto da strumenti di repressione penale che di prevenzione amministrativa. Il decreto in questione prevede una serie di misure per limitare la presenza nelle cariche pubbliche elettive di soggetti autori di reato, stabilendo il divieto di ricoprire incarichi di Governo, l’incandidabilità/ineleggibilità alle elezioni politiche o alle elezioni amministrative, ovvero la decadenza da tali cariche, in caso di condanna definitiva per determinati delitti, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto stesso (profilo temporale per cui la Corte EDU ha di recente escluso il contrasto con l’art. 7 della Convenzione); in caso di condanna non definitiva è prevista la sospensione dalla carica in via automatica (opzione legislativa di recente giudicata legittima dalla Corte costituzionale con sent. 35/2021).

I meccanismi del decreto Severino e in particolare l’automaticità della sospensione in caso di condanna non definitiva sono ritenuti dai promotori del referendum strumenti inefficaci quando non dannosi per i soggetti coinvolti, laddove l’accusa si rivelasse infondata, ritenendosi preferibile la valutazione discrezionale del giudice in ordine all’interdizione dai pubblici uffici. Del decreto viene chiesta l’abrogazione integrale.