ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
24 Novembre 2021


I costi dell’amministrazione dell’“ingiustizia”: la relazione della Corte dei conti in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari


1. Che costo hanno gli errori giudiziari? Si tratta di un interrogativo che reca con sé molteplici risposte. Anzitutto, emerge un evidente costo umano, rappresentato dalla sofferenza e dagli effetti pregiudizievoli patiti dal singolo, ingiustamente condannato o detenuto in via cautelare. Si profila, poi, un inevitabile costo sociale, giacché la condanna e la restrizione in vinculis dell’innocente disvelano i punti vulnerabili del sistema penale[1], alimentando la sfiducia dei consociati nell’amministrazione della giustizia. Ma v’è un ulteriore aspetto da non sottovalutare, ovverosia le eventuali ricadute economiche di un simile “inciampo” della giurisdizione.

A quest’ultimo proposito, la Corte dei conti, nell’esercizio della propria funzione istituzionale di controllo sulla gestione delle risorse pubbliche, si è recentemente soffermata sulle inefficienze che discendono dagli errori giudiziari in termini di aggravio degli oneri finanziari a carico dello Stato. A tal fine, la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, istituita presso la suddetta Corte, ha avviato un’indagine ricognitiva in ordine agli oneri sostenuti negli ultimi anni dalla finanza pubblica a titolo sia di riparazione, sia di risarcimento per la responsabilità civile dei magistrati. È stata, altresì, analizzata l’incidenza dell’accoglimento delle domande di equa riparazione sulla responsabilità disciplinare dei magistrati e sull’avvio di procedimenti per danno erariale.

I dati così raccolti sono confluiti nella relazione in tema di «equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari», approvata con delibera del 16 settembre 2021, della quale si espongono gli aspetti salienti.

 

2. Prima di approfondire nel merito la relazione in parola, si ritiene utile tracciare un quadro sintetico delle fonti normative da cui scaturiscono le conseguenze economiche degli errori giudiziari.

Come noto, l’onere per lo Stato di ristorare colui che sia stato ingiustamente dichiarato colpevole o privato della libertà personale discende da obblighi di carattere costituzionale e sovranazionale.

In particolare, l’art. 24, comma 4, Cost. prevede che la legge determini «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», ammettendo in via implicita l’ineliminabile fallibilità dello Stato ed imponendo, contestualmente, l’obbligo di rifondere il pregiudizio provocato contra ius.

Quanto al profilo sovranazionale, l’art. 5, §5, CEDU e l’art. 9, §5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici riconoscono il diritto ad una riparazione (enforceable right to compensation) a chiunque sia stato illegittimamente arrestato o detenuto.

Il concetto di “riparazione” - prescelto dal legislatore costituzionale - è poi confluito negli artt. 314 e 643 c.p.p. relativi alla riparazione, rispettivamente, per l’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario. La suddetta opzione semantica evidenzia la finalità solidaristica[2] perseguita con tale forma di ristoro, delineandone una netta demarcazione tanto dal risarcimento del danno, quanto dall’indennizzo in senso tecnico. Invero, rispetto al primo, l’obbligazione riparatoria si caratterizza per l’intrinseca liceità della fonte da cui scaturisce, in quanto promana da atti giurisdizionali che, seppur rivelatisi errati, sono sempre conformi all’ordinamento, fatta eccezione per i casi di dolo o colpa grave del magistrato.

Contrariamente al secondo, la riparazione non è legittimata dal sacrificio di un interesse individuale imposto a vantaggio di un interesse collettivo, bensì presuppone una lesione sia individuale sia collettiva, rappresentata dal pregiudizio ingiustamente arrecato al singolo e dalla correlata risonanza sociale. Pertanto, la vittima di una simile ingiustizia vanta un vero e proprio diritto soggettivo pubblico, cui corrisponde l’obbligo per lo Stato di riparare le conseguenze negative generate dall’inevitabile alea, insita nell’esercizio della funzione giurisdizionale.

Come già accennato, il codice di rito riconosce tale diritto in due diverse ipotesi: l’una, sancita dagli artt. 314 e 315 c.p.p., opera qualora la restrizione della libertà personale, subìta per ragioni cautelari, si sia rivelata ex post infondata nel merito ovvero risulti applicata in assenza delle condizioni di legge; l’altra, disciplinata dagli artt. 643 e ss. c.p.p., mira a ristorare il soggetto che, condannato con sentenza irrevocabile, sia stato successivamente prosciolto in sede di revisione.

Più nel dettaglio, in relazione alla riparazione per ingiusta detenzione, il primo comma dell’art. 314 c.p.p.[3] legittima a proporne l’istanza colui il quale sia stato ristretto a fini cautelari, senza avervi dato causa o concorso a dare causa per dolo o colpa grave, e successivamente sia stato prosciolto nel merito, in via definitiva, con una delle formule tassativamente previste dalla stessa norma[4]. Il secondo comma del medesimo articolo, invece, estende il ristoro in favore del soggetto prosciolto per qualsiasi causa nonché a beneficio del condannato, qualora risulti, con decisione irrevocabile, che la misura cautelare custodiale è stata applicata o mantenuta in assenza delle condizioni imposte dagli artt. 273 e 280 c.p.p.

Com’è intuibile, la platea dei potenziali beneficiari del rimedio in esame risulta particolarmente estesa.

Per espressa previsione normativa, infatti, le due «patologie»[5] contemplate dal richiamato art. 314 c.p.p. operano anche in favore di soggetti destinatari di un provvedimento di archiviazione ovvero di una sentenza di non luogo a procedere.

Il riferimento alla custodia cautelare consente, inoltre, di includere nelle restrizioni della libertà personale, legittimanti la riparazione, non solo la detenzione in carcere, ma anche la custodia in ICAM o in luoghi di cura, gli arresti domiciliari, nonché le misure di sicurezza applicate provvisoriamente, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 313, comma 3, c.p.p. A ciò si aggiunga che, a seguito di un intervento additivo della Corte costituzionale[6], ha acquisito specifico rilievo in tal senso anche la riduzione in vinculis subìta per arresto in flagranza o fermo di indiziato di delitto.

La riparazione dell’errore giudiziario è, invece, disciplinata dagli artt. 643 e ss. c.p.p. ed è destinata a chi abbia esperito con esito positivo la revisione, ottenendo così una sentenza di proscioglimento in luogo della previa condanna irrevocabile[7].

 

3. Ricostruito il perimetro normativo di riferimento, è ora possibile approfondire i risvolti economici che discendono dall’esercizio del diritto alla riparazione, alla luce dell’analisi svolta dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, operante in seno alla Corte dei conti.

Lo studio delle informazioni raccolte ha, anzitutto, permesso alla Corte di rilevare che negli ultimi anni le spese sostenute a tal fine dalla finanza pubblica hanno progressivamente superato i 40 milioni annui. In particolare, secondo quanto precisato nella relazione[8], tra il 2017 ed il 2019 le somme, erogate a titolo di equa riparazione per detenzioni ingiuste ed errori giudiziari, sono notevolmente aumentate (da 38.287.339,83 euro a 48.799.858,00 euro) per poi decrescere leggermente nel 2020 (43.920.318,91 euro).

La Corte dei conti ha, inoltre, evidenziato che, in base ai dati forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze, le spese sostenute per compensare le ingiuste detenzioni risultano di gran lunga superiori a quelle correlate agli errori giudiziari, tanto da avere rappresentato, nel 2019, l’89% dei pagamenti complessivamente eseguiti a titolo di equa riparazione[9].

Verosimilmente, proprio tale prevalenza numerica ha spinto la Corte dei conti a soffermarsi in via principale sul fenomeno delle detenzioni ingiuste.

All’esito dell’esame delle suindicate informazioni, elaborate dal Ministero dell’economia e delle finanze, è emersa una profonda difformità nel quantum dei ristori complessivamente corrisposti dalle singole Corti d’appello[10], nel corso del triennio 2017 - 2019.

Ciò considerato, la Corte dei conti ha ritenuto opportuno chiedere all’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia l’invio a campione delle ordinanze, emesse in merito nel 2018 da sei diverse Corti d’appello, ed ha così ottenuto in risposta ben 121 provvedimenti[11]. Il confronto tra gli stessi, condotto al fine di individuare i criteri di volta in volta adottati in sede di liquidazione della riparazione, ha palesato l’assenza di parametri univoci di calcolo, in alcuni casi divergenti persino tra ordinanze rese dalla medesima Corte d’appello[12].

Più precisamente, quasi tutti i provvedimenti esaminati[13] hanno determinato l’importo, dovuto per ciascun giorno di ingiusta detenzione, utilizzando un metodo composito, costituito dalla commistione di calcoli aritmetici e valutazioni equitative. Infatti, tutte le ordinanze hanno concordemente recepito i principi espressi dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite[14], secondo cui il quantum, oggetto dell’obbligazione solidaristica, discende dal rapporto tra il tetto massimo liquidabile[15] a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione – pari ad euro 516.456,90, in forza dell’art. 315, comma 2, c.p.p.  – ed il termine massimo di durata della custodia cautelare, espresso in giorni, a norma dell’art. 303, comma 4, lett. c), c.p.p. [16], moltiplicato per la durata di ingiusta detenzione subìta, anch’essa espressa in giorni.

Tuttavia, secondo l’orientamento ancora oggi prevalente nella giurisprudenza di legittimità[17], l’ammontare così ottenuto rappresenta solo un valore di riferimento, come tale non definitivo. A ciò il giudice, ancorché vincolato dal limite massimo stabilito dall’art. 315, comma 2, c.p.p., può accompagnare la valutazione di specifici profili pregiudizievoli nel singolo caso concreto – incluse le voci di danno previste dall’art. 643, comma 1, c.p.p. per la riparazione dell’errore giudiziario – e modificare, conseguentemente, l’importo giornaliero liquidabile in aumento o in diminuzione. Tale discostamento, in ogni caso, impone all’organo giudicante l’onere di motivare l’iter logico-argomentativo seguìto così da evitare che l’esercizio del potere discrezionale sconfini in un puro arbitrio[18].

Sempre alla luce delle ordinanze esaminate, la Corte dei conti ha accertato che le Corti d’appello, nell’effettuare le suddette valutazioni equitative, ricorrono prevalentemente ai parametri fissati dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano per liquidare il danno biologico, quale componente del danno non patrimoniale[19].

Su tali presupposti, la Corte dei conti ha auspicato un intervento legislativo, volto a superare la disomogeneità dei criteri utilizzati in tema di equa riparazione, introducendo parametri ad hoc cui conformarsi in tutto il territorio nazionale.

Ad avviso dei giudici erariali, sarebbe comunque preferibile ancorare il calcolo dell’importo da liquidare al solo criterio aritmetico, determinato secondo il citato dictum delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. In diversificata prospettiva, si consentirebbe un superamento della soglia massima prevista dal secondo comma dell’art. 315 c.p.p., ogniqualvolta, nel caso concreto, gli aspetti valorizzati in via equitativa si protraggano per l’intera durata massima della custodia cautelare.

 

4. L’istituto dell’equa riparazione – lo si è già accennato – è funzionale a soddisfare un’esigenza meramente solidaristica. Il che non pregiudica, pertanto, il diritto del singolo ad ottenere il risarcimento del danno ingiusto, qualora sussistano profili di dolo o colpa grave rilevanti, secondo la disciplina stabilita dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (cd. Legge Vassalli), in ordine alla responsabilità civile del magistrato[20].

Anche rispetto al cumulo tra pretese riparatorie e risarcitorie, la relazione in parola ha rilevato alcune criticità applicative[21] in ragione della totale assenza, sia nel codice di rito sia nella normativa speciale, di specifiche norme di coordinamento tra i due istituti sopra richiamati, nonché della preferenza accordata alla liquidazione del ristoro a norma dell’art. 314 c.p.p. sulla base di criteri sia aritmetici che equitativi.

La Corte dei conti ha, infatti, segnalato che il diffuso trend giurisprudenziale incline a valorizzare in via equitativa taluni profili di danno come elementi ulteriori, suscettibili di riparazione ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comporta il rischio che i medesimi aspetti pregiudizievoli vengano compensati due volte, a titolo sia riparatorio sia risarcitorio, con conseguente duplicazione dell’esborso a carico dello Stato.

A quest’ultimo riguardo, del resto, merita considerare la limitata operatività, in capo allo Stato medesimo, dell’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato, di cui sia stata accertata la responsabilità civile. Infatti, da un lato, a seguito della novella del 2015, la disciplina vigente circoscrive l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa alle sole ipotesi previste dall’art. 7 della legge n. 117 del 1988, ossia nel caso di diniego di giustizia, ovvero qualora per dolo o negligenza inescusabile il magistrato sia incorso in una violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione europea, o nel travisamento del fatto o delle prove; dall’altro lato, l’art. 8 della legge predetta stabilisce che l’ammontare della rivalsa non può mai superare la metà di una annualità dello stipendio percepito dal magistrato, al netto delle trattenute fiscali.

Proprio al fine di scongiurare il concreto rischio di un notevole aggravio a carico della finanza pubblica, discendente appunto dal cumulo tra azione riparatoria e risarcitoria, la Corte dei conti ha reputato essenziale un intervento legislativo, idoneo a realizzare un maggiore coordinamento tra i due istituti. In particolare, secondo la Corte, la promozione dell’azione risarcitoria dovrebbe sospendere gli effetti dell’istanza riparatoria già proposta, affinché quest’ultima possa operare solo nei limiti della differenza spettante qualora la pretesa azionata non sia stata del tutto soddisfatta[22].

A ciò la relazione aggiunge l’ulteriore auspicio di attribuire al Ministero della Giustizia funzioni di monitoraggio e governo in ordine a tutte le questioni in tema di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, ivi compresa quella di ordinatore primario di spesa per il pagamento delle riparazioni - di cui è attualmente titolare il Ministero dell’economia e delle finanze - con conseguente trasferimento a bilancio del pertinente capitolo di spesa. Tale accentramento risulta tanto più opportuno in quanto il Ministero della Giustizia è già competente ad erogare le somme, dovute a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Legge Pinto).

 

5. Altra questione affrontata dalla Corte dei conti concerne la verifica del numero di casi nei quali l’accertata ingiustizia della detenzione abbia dato causa alla responsabilità disciplinare del magistrato.

La cognizione dei giudici erariali muove dalla circostanza che - secondo quanto riferito nel 2020 dal Ministro di Giustizia al Parlamento - nel 2019 sono state promosse 24 azioni disciplinari, cifra in aumento rispetto all’anno precedente[23]. In particolare, tutti i procedimenti hanno avuto ad oggetto l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, ossia «la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», contestata con riferimento a liberazioni di soggetti in vinculis, disposte tardivamente, oltre i termini di legge[24].

La Corte dei conti non ha, invece, ricevuto alcuna notizia in merito all’eventuale esercizio del potere disciplinare rispetto all’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. gg) del medesimo decreto legislativo. Ipotesi, quest’ultima, senza dubbio più pertinente ai profili rilevanti per la relazione in discorso, giacché concernente «l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge, determinata da negligenza grave ed inescusabile».

Proprio la richiamata lacuna informativa ha comprovato l’urgenza di un accentramento di attribuzioni in capo ad un unico organo, operante in seno al Ministero della Giustizia, affinché le attività di vigilanza sul fenomeno degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni divengano sempre più penetranti ed esaustive.

Secondo quanto riferito dalla Corte dei conti, un primo passo in tale direzione è stato compiuto nel 2019 quando il Ministro della Giustizia, per garantire maggiore efficacia al potere disciplinare esercitabile ai sensi dell’art. 107, comma 2, Cost., ha deferito al proprio Ispettorato generale l’attività di monitoraggio sulle domande di riparazione per ingiusta detenzione.

A questo proposito, gli ispettori ministeriali hanno acquisito, per il periodo compreso tra il 2016 ed il 2018, i dati di flusso concernenti i procedimenti ex artt. 314 e ss. c.p.p. iscritti a ruolo, nonché le copie delle relative ordinanze irrevocabili di accoglimento. Il materiale così raccolto è stato analizzato con l’obiettivo di accertare la sussistenza di eventuali profili meritevoli di un approfondimento istruttorio ed ha comportato l’apertura di 3 fascicoli, poi definiti con proposta di archiviazione approvata dal Gabinetto del Ministro[25]

Ad avviso della Corte dei conti è, altresì, necessario che l’Organismo indipendente di valutazione della performance (OIV), istituito in seno al Ministero della Giustizia e già competente a vigilare sul funzionamento del sistema di controlli interni, svolga un ruolo propulsivo di proposte e raccomandazioni agli organi di direzione amministrativa, al fine di elaborare soluzioni pratiche, volte a ridurre l’incidenza degli errori di giustizia sulla finanza pubblica.

Con l’intento di pervenire ad una valutazione onnicomprensiva dei profili rilevanti della materia, la Sezione centrale della Corte dei conti ha, inoltre, interrogato le proprie Sezioni giurisdizionali regionali in merito ad eventuali procedimenti per danno erariale, instaurati nel triennio di interesse a seguito della riconosciuta riparazione. Le articolazioni territoriali hanno dato riscontro di un solo procedimento, promosso dalla Procura erariale avverso un magistrato del Tribunale di Salerno, che nel 2010 aveva, con colpa grave, disposto gli arresti domiciliari in difetto dei presupposti di legge ed era stato, perciò, chiamato a rispondere del danno ingiusto, sopportato dal Ministero della Giustizia.

 

6. In armonia con le proprie funzioni di vigilanza sulla corretta allocazione delle risorse pubbliche, la Corte dei conti ha auspicato per il futuro un’indagine ancora più completa sugli oneri sostenuti dallo Stato a causa delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari, tenendo altresì conto dei costi indiretti.

In proposito, i giudici erariali hanno rilevato l’opportunità di includere nei dati di interesse non solo le domande di riparazione accolte, ma anche quelle rigettate, cui sia seguito il ricorso individuale alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con conseguente possibilità di condanna dello Stato in sede sovranazionale.

Parimenti utile è stata considerata la ricognizione del numero di soggetti che siano deceduti nel corso dell’ingiusta detenzione o abbiano contratto patologie ad essa eziologicamente connesse, con i correlativi aggravi per il Servizio Sanitario Nazionale. Anche rispetto al monitoraggio dei profili evidenziati, la Corte dei conti ha individuato nell’Ispettorato generale presso il Ministero della Giustizia l’organo più idoneo ad espletare le descritte competenze, in ragione del tipo di attività istituzionale già svolta.

 

7. È interessante notare, peraltro, che i giudici erariali hanno ritenuto utile estendere la propria disamina alle forme di tutela, garantite da altri ordinamenti europei alle vittime di un’errata amministrazione della giustizia.

Tale indagine, riferita ad otto ordinamenti europei, scelti a campione, ha posto in luce il notevole divario sussistente tra le misure riparatorie offerte dai diversi Stati, sia per le condizioni cui il relativo diritto è subordinato, sia per le modalità di calcolo dell’importo liquidabile.

Quanto al primo profilo è, ad esempio, emerso che in Finlandia sono suscettibili di ristoro solo le restrizioni che siano durate almeno 24 ore, mentre in Belgio la durata minima di una custodia cautelare, rilevante ai fini riparatori, è fissata in 8 giorni. Nei Paesi Bassi è, invece, necessario che il soggetto, vittima della detenzione ingiusta, sia stato assolto per tutti i capi di imputazione e che sussistano ragioni di equità.

Per quel che concerne, poi, le modalità di liquidazione del ristoro, a paesi che, come l’Austria, la Finlandia, la Germania e i Paesi Bassi, predeterminano in via legislativa l’ammontare dell’importo giornaliero, se ne contrappongono altri, quali la Francia ed il Belgio, ove la determinazione della cifra è rimessa, invece, esclusivamente alla valutazione equitativa del giudice.

Alla luce di tale variegato panorama, la Corte dei conti ha concluso per la necessità di promuovere un’armonizzazione delle tutele all’interno dell’Unione europea, al fine di garantire che gli Stati seguano criteri uniformi per la liquidazione dei pregiudizi patiti a causa di una detenzione ingiusta.

Ciò è tanto più essenziale – ha aggiunto la Corte – in presenza di istituti come il mandato d’arresto e l’Ufficio del Procuratore europei (European Public Prosecutor’s Office - EPPO)[26], che rendono sempre più concreta la possibilità che l’ingiusta detenzione, subìta in uno Stato, trovi fondamento in un titolo emesso da un’autorità giudiziaria straniera. Proprio con riferimento a tale ultima ipotesi, la Corte ha segnalato l’esigenza di incrementare il reciproco scambio di informazioni fra gli Stati, al fine di individuare le riparazioni che, seppur gravanti sul bilancio nazionale, traggano origine da decisioni errate assunte dagli organi giurisdizionali di un altro ordinamento.

 

8. La ricognizione sin qui operata consente di affermare che la relazione in esame ha il pregio di svelare retroscena dell’errata amministrazione della giustizia di solito relegati nell’ombra, in quanto oscurati dall’onda emotiva inevitabilmente generata dalla consapevolezza di avere condannato un innocente o determinato un’ingiustificata privazione della libertà personale.

In primo luogo, attraverso i dati raccolti dalla Corte dei conti nella propria analisi, è possibile rilevare la drammatica consistenza numerica del problema, soprattutto con riguardo all’ingiusta applicazione di misure cautelari custodiali. A tal proposito, non può che destare preoccupazione l’ammontare delle ordinanze di accoglimento dell’istanza di riparazione, fondate sull’assenza delle condizioni di applicabilità previste dalla legge, pari a 123 nel 2018 e a 115 nel 2019.

In secondo luogo, l’accentramento di funzioni in capo al Ministero della Giustizia, auspicato dai giudici erariali, è idoneo a favorire una migliore osservazione sull’andamento complessivo del fenomeno, scongiurando il rischio che le istituzioni si disinteressino delle ingiuste lesioni dei diritti fondamentali, inflitte con l’esercizio del potere giurisdizionale.

A ciò si aggiunga, infine, che l’inclusione delle istanze di riparazione tra i profili esaminati dagli ispettori ministeriali appare in grado di incentivare l’autorità giudiziaria ad una maggiore ponderazione del ricorso allo strumento cautelare, in conformità alla natura residuale attribuita allo stesso dall’ordinamento.

Più in generale, le risultanze cui la Corte dei conti approda sollecitano un’urgente presa di coscienza collettiva sulla più vasta portata del fenomeno dell’errore giudiziario, che non investe soltanto il singolo individuo ingiustamente coinvolto ma si ripercuote prepotentemente, anche in termini di costi, sull’intera comunità sociale.

 

 

[1] L. Lupária, Cultura della prova ed errore giudiziario: il processo penale in discussione, in L. Lupária, L. Marafioti, G. Paolozzi (a cura di), Errori giudiziari e background processuale, Giappichelli, Torino, 2017, XI, definisce l’errore giudiziario «il rovescio oscuro del fenomeno processuale, la bancarotta dell’accertamento, la radicale eterogenesi delle finalità assegnate alle nostre aule di giustizia» e, allo stesso tempo, «un cruciale pungolo per il progressivo miglioramento degli istituti processuali e del diritto probatorio».

[2] Il fondamento solidaristico e non risarcitorio del diritto alla riparazione è stato affermato, ex multis, da Corte cost., sent. 30 dicembre 1997, n. 446; Cass. Sez. Un., sent. 26 novembre 1997 (dep. 1998), n. 14, Min. Tesoro c. Gallaro, in CED Cass., n.m. sul punto; Cass., Sez. Un., ord. 27 giugno 2001, n. 34535, Petrantoni, in Cass. pen., 2002, 75 e ss.; Cass., Sez. IV, sent. 25 novembre 2003 (dep. 2004), n. 2050, Barillà, in Arch. nuova proc. pen., 2004, n. 3, 314 e ss.; più di recente cfr. Cass., Sez. IV, sent. 1° aprile 2014, n. 21077, in CED Cass., rv. 259237-01.

[3] In merito L. Pressacco, Per un’integrazione “convenzionalmente orientata” della riparazione per l’ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, n. 1, 319 e ss. nel commentare una recente sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo (Corte eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 settembre 2020, Bilal Akyildiz c. Turchia) ha segnalato l’opportunità di un’integrazione legislativa che imponga al giudice, anche nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 314 c.p.p., l’accertamento della legittimità ex ante del provvedimento cautelare e della protrazione dei suoi effetti. Ad avviso dell’Autore, infatti, l’attuale formulazione legislativa non può considerarsi pienamente conforme all’art. 5, §5, CEDU, in quanto, mentre quest’ultimo attribuisce il diritto alla riparazione ad «ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni» dello stesso art. 5 della Convenzione, la norma nazionale subordina il ristoro al solo proscioglimento nel merito, senza alcuna verifica circa la legittimità della detenzione subìta. Per tali ragioni, il soggetto, che abbia ottenuto un’equa riparazione a livello nazionale, non può considerarsi beneficiario di un ristoro convenzionalmente adeguato e mantiene, quindi, il diritto di adire la Corte di Strasburgo, in qualità di vittima ex art. 34 CEDU, al fine di ottenere il riconoscimento dell’illegittimità della detenzione subìta.

[4] Ossia perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.

[5] Così le definisce A. Macrillò, La riparazione per l’ingiusta detenzione cautelare, in L. Lupária (a cura di), L’errore giudiziario, Giuffrè, Milano, 2021, 756, il quale rammenta che l’art. 314 c.p.p. delinea, nel primo comma, casi di «ingiustizia sostanziale», mentre, nel secondo, casi di «ingiustizia formale».

[6] Ci si riferisce a Corte cost., sent. 2 aprile 1999, n. 109, nella quale la Consulta ha chiarito che sia la Costituzione sia la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali impongono che tutte le offese arrecate alla libertà personale, in conseguenza di una detenzione ingiusta, siano suscettibili di ristoro, a prescindere dalla durata e dall’autorità che abbia adottato il provvedimento restrittivo.

[7] Sull’argomento cfr. A. Gentile, La riparazione dell’errore giudiziario, in L. Lupária, L. Marafioti, G. Paolozzi (a cura di), Errori giudiziari e background processuale, cit., 153 e ss.

[8] Cfr. tabella n. 2 della relazione in commento.

[9] Si vedano, in particolare, le tabelle nn. 3, 4, 5 e 6.

[10] Il codice di rito attribuisce, infatti, alla Corte d’appello la competenza a ricevere le domande di riparazione. In particolare, ai sensi dell’art. 102 disp. att. c.p.p., la relativa istanza per l’ingiusta detenzione deve essere presentata presso la Corte d’appello nel cui distretto sia stata pronunciata la sentenza o emesso il provvedimento di archiviazione.  Per quanto concerne la riparazione dell’errore giudiziario, invece, l’art. 645 c.p.p. attribuisce la competenza alla Corte d’appello che ha pronunciato la sentenza di revisione.

[11] Cfr. tabelle nn. 8 e 9 della relazione in commento.

[12] Cfr. le ordinanze della Corte d’appello di Catania riportate per estratto alle pp. 50 e ss. della relazione. La Corte dei conti rileva in merito che, proprio in ragione di tale difformità nei metodi di liquidazione, alcune Corti d’appello, pur avendo emesso un numero ridotto di ordinanze, hanno determinato un esborso complessivo a titolo di riparazione superiore a quello generato da altre Corti d’appello con un maggior numero di ordinanze (si veda, ad esempio, il caso delle Corti d’appello di Perugia e Catanzaro per l’anno 2018: la Corte d’appello di Perugia, con sole 18 ordinanze, ha liquidato a titolo di riparazione ben 14.455.227,11 euro, somma superiore a quella di 10.382.352,88 euro, scaturente dalle 183 ordinanze adottate nello stesso anno dalla Corte d’appello di Catanzaro).

[13] Cfr. C. d’app. Catania, ordd. nn. 29/2018, 30/2018, 34/2018; C. d’app. Salerno, ord. n. 1/2018; C. d’app. Perugia, ordd. nn. 7/2018, 48/2018, 50/2018; C. d’app. L’Aquila, ord. n. 12/2018; C. d’app. Catanzaro, ord. n. 19/2018; C. d’app. Brescia, ord. n. 21/2017. Contra cfr. C. d’app. Catania, ord. n. 25/2018.

[14] Cfr. Cass., Sez. Un., 9 maggio 2001, n. 24287, Min. Tesoro e Caridi, in CED Cass., rv. 218975-01.

[15] In merito M.G. Coppetta, La riparazione per l’ingiusta detenzione: punti fermi e disorientamenti giurisprudenziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 4, 1315 e ss. osserva che il legislatore, fissando l’importo massimo liquidabile a titolo di riparazione da ingiusta detenzione, ha, di fatto, intralciato la finalità solidaristica dell’istituto, in quanto la predeterminazione legislativa non consente di garantire che il ristoro sia sempre commisurato alla specificità del caso concreto e, dunque, equo.

[16] Secondo la Corte di cassazione, l’importo giornaliero così ottenuto, pari a 235,82 euro, deve essere dimezzato a 117,91 euro per gli arresti domiciliari, in ragione della minore afflittività della misura. In tema, cfr. ex multis, Cass., Sez. IV, sent. 10 giugno 2010, n. 34664, in CED Cass., rv. 248078-01; Cass., Sez. IV, sent. 1° aprile 2014, n. 21077, ivi, rv. 259237-01.

[17] Cass., Sez. IV, sent. 25 febbraio 2010, n. 10690, in CED Cass., rv. 246425 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 17 giugno 2011, n. 34857, ivi, rv. 251429 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 17 novembre 2011 (dep. 2012), n. 10123, ivi, rv. 252026 – 01; Cass., Sez. III, sent. 5 dicembre 2013 (dep. 2014), n. 3912, ivi, rv. 258833 – 01; Cass., Sez. III, sent. 1° aprile 2014, n. 29965, ivi, rv. 259940 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 11 gennaio 2019, n. 18361, ivi, rv. 276259 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 19 aprile 2019, n. 19809, ivi, rv. 276334 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 10 novembre 2020, n. 32891, ivi, rv. 280072 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 2 luglio 2021, n. 27474, ivi, rv. 281513 – 01.

[18] Cfr., in merito, Cass., Sez. IV, sent. 1° aprile 2014, n. 21077, già citata; Cass., Sez. IV, sent. 6 dicembre 2016 (dep. 2017), n. 6394, in CED Cass., rv. 269077 – 01; Cass., Sez. IV, sent. 2 luglio 2021, n. 27474, ivi, rv. 281513 - 03.

[19] La stessa Corte dei conti ha segnalato che recentemente la Corte di cassazione ha censurato la validità delle predette tabelle dell’Osservatorio di Milano del 2018, sul presupposto che le stesse includono il cd. danno morale nel valore monetario del danno biologico ed utilizzano tale parametro unitario come base di calcolo dell’eventuale aumento personalizzato, giustificato dalla sussistenza di particolari condizioni soggettive. Cfr. Cass., Sez. III civ., sent. 28 settembre 2020, n. 25164, in Dir. fam. e pers., 2021, 1, 47 e ss. con nota di P. Virgadamo, La Suprema Corte ci ripensa ancora: il danno non patrimoniale è “ontologicamente” pluripartito, le Tabelle milanesi (del 2018) non sono del tutto eque e l’art. 138 c.a.p. si applica anche se inattuato. Sull’argomento della risarcibilità del danno morale, cfr. altresì D. Amram, Pecunia doloris: (ap)prezzare il dolore. Il Ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella responsabilità civile, in Riv. it. med. leg., 2021, 2, 491 e ss.

[20] La cumulabilità tra l’azione riparatoria e quella risarcitoria è espressamente riconosciuta dall’art. 14 della stessa legge Vassalli, secondo il quale «le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione».

[21] La Corte dei conti ha, tuttavia, specificato che, secondo quanto riferito dal Dipartimento per gli affari di giustizia, con nota dell’11 agosto 2021, allo stato non risultano agli atti casi di concorso tra azione riparatoria e risarcitoria.

[22] In tema G. Dalia, La responsabilità dei magistrati, in L. Lupária (a cura di), L’errore giudiziario, cit., 861, osserva che tra le due azioni la più vantaggiosa risulta quella riparatoria, sia per il meno rigoroso onere probatorio che il singolo è tenuto ad assolvere, sia per la procedura più snella, scevra dalle garanzie processuali che la legge n. 117 del 1988 pone a tutela dell’indipendenza della magistratura. Sull’argomento cfr., altresì, A. Buzzelli, Erronea valutazione del fatto e della prova. La responsabilità del magistrato per le ipotesi di wrongful conviction, in L. Lupária, L. Marafioti, G. Paolozzi (a cura di), Errori giudiziari e background processuale, cit., 171 e ss.

[23] Cfr. tabella n. 15 della relazione della Corte dei conti.

[24] Ciò si giustifica in quanto gli ispettori ministeriali, prima del 2019, si limitavano a verificare l’eventuale sussistenza di illeciti disciplinari solo con riferimento alla cessazione tardiva delle restrizioni della libertà personale. Nei primi mesi del 2019, su impulso del Ministro della Giustizia, tale attività è stata invece ampliata fino a ricomprendere tutte le ipotesi di ingiusta detenzione.

[25] Cfr. p. 84 della relazione in esame.