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05 Settembre 2022


Sulla rilevanza penale dello sbarco su suolo libico di migranti soccorsi in acque internazionali

GUP Napoli, sent. n. 1643 del 13 ottobre 2021 (dep. 30 dicembre 2021), giud. Miranda



1. Con la sentenza in esame, il Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Napoli condanna il Comandante della nave mercantile ASSO 28 a titolo di sbarco e abbandono arbitrario di persone (1155 cod. nav.) e di abbandono di persone minori o incapaci (591 c.p.), per aver trasportato e sbarcato in Libia 101 migranti soccorsi in acque internazionali (zona S.A.R. libica), senza previamente contattare i Centri di coordinamento e soccorso di Tripoli o di Roma e agendo, invece, sulla sola base delle indicazioni provenienti dalla società  in favore della quale la nave prestava la propria attività.

 

2. Partiamo dalla ricostruzione dei fatti. Il 30 luglio 2018 la nave ASSO 28, battente bandiera italiana e di proprietà della società A. O. di Napoli, nave di appoggio della piattaforma petrolifera S.della società M. O. a. G. – veniva avvisata dal personale presente sulla piattaforma dell’avvistamento di un natante con a bordo 101 migranti (tra i quali alcuni bambini) al largo delle coste libiche, in acque internazionali e in zona S.A.R. libica. Il Comandante, soddisfatta la richiesta – formulata dal personale presente sulla piattaforma – di avvicinarsi a questa per caricare a bordo un soggetto qualificato come “funzionario libico” (il quale non veniva identificato dal Comandante), procedeva al recupero e al trasbordo dei migranti presenti sulla ASSO 28, dei quali non venivano raccolte le generalità (non si accertava nemmeno che i bambini presenti a bordo fossero accompagnati), né il Comandante si informava in ordine alla loro eventuale intenzione di formulare richiesta di asilo. Terminato il trasbordo, il Comandante si dirigeva verso le Coste libiche e – solo a quel punto – informava il Centro di coordinamento e soccorso di Tripoli e l’Italian Maritime Rescue Coordination Centre (IMRCC) della sua intenzione di ricondurre i migranti al porto dal quale erano salpati. Entrata nel porto di Tripoli, la nave ASSO 28 trasferiva i migranti a bordo di una motovedetta libica, la quale procedeva allo sbarco.

 

3. Il Pubblico Ministero rilevava un contrasto tra la condotta del Comandante della ASSO 28 e una pluralità di norme: riscontrava, in particolare, la violazione di una serie di disposizioni che vietano il respingimento delle persone verso luoghi nei quali la loro vita, la loro incolumità e la loro libertà sarebbero minacciate, oppure nei quali sarebbero sottoposte a pene o a trattamenti inumani o degradanti (artt. 3 e 14 CEDU, art. 33 della Convenzione di Ginevra, art. 19 CDFUE, art. 19, c. 1, 1 bis, 2 d.lgs. 286/98 – T.U. Immigrazione – che, nello specifico, vieta l’espulsione di minori e di donne in stato di gravidanza), nonché di quelle prescrizioni (Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, sottoscritta a Londra il 17 giugno 1970, c.d. Convenzione SOLAS e Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo sottoscritta ad Amburgo il 27 aprile 1979, c.d. Convenzione SAR, ratificata dall’Italia con Legge del 3 aprile 1979, n. 147) che si rivolgono al Comandante di una nave che soccorra in mare dei naufraghi, imponendogli di avvisare le autorità competenti per il coordinamento e il soccorso nella zona di Search And Rescue o, qualora queste non intervengano, le autorità nazionali che abbiano avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare. Di conseguenza, il P.M. riteneva integrate, a carico del Comandante, tre fattispecie di reato: 1) Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in quanto, violando le norme sopra richiamate, aveva cagionato un ingiusto danno ai migrantirespinti verso territori ostili dai quali già avevano tentato la fuga, e nei quali correvano il rischio di essere detenuti in condizioni inumane e degradanti – e attribuito un ingiusto vantaggio alla società A. O. (per la quale lavoravano), consistente nel risparmio di tempo che la nave, qualora avesse contattato la centrale di Roma, sarebbe stata costretta a trascorrere in mare, in attesa dell’indicazione di un porto sicuro in cui sbarcare i migranti e nella minor spesa sostenuta per lo sbarco presso il vicino porto di Tripoli, anziché presso le coste maltesi o italiane; 2) Abbandono di persone minori o incapaci (591 c.p.), per aver ricondotto minori di quattordici anni e donne in stato di gravidanza in un luogo nel quale correvano il rischio di essere privati dei loro diritti fondamentali, e ivi averli abbandonati; 3) Sbarco e abbandono arbitrario di persone (1155 cod. nav.), per aver sbarcato i migranti soccorsi a Tripoli senza previamente contattare le autorità competenti. I medesimi fatti venivano inizialmente contestati anche alla Persona Designata a Terra (D.P.A.: Designated Person Ashore: un soggetto che provvede al coordinamento tra gli uffici della compagnia a terra e la nave) della società A. O., rispetto al cui procedimento, tuttavia, il P.M. chiedeva poi l’archiviazione.

 

4. Quanto al primo dei reati contestati, Il G.U.P. osserva che l’abuso d’ufficio è stato interessato dalla riforma realizzata con il “decreto semplificazioni” (art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120), che ha sostituito il riferimento alle norme di legge o di regolamento con quello a «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità», così sancendo la sopravvenuta irrilevanza penale delle condotte serbate in violazione di norme regolamentari, di disposizioni di principio o di norme non vincolanti; ritiene, comunque, sussistente la violazione di norme «dalle quali non residuino margini di discrezionalità»: quelle che prevedono, in capo al Comandante, l’obbligo di coordinarsi con l’autorità S.A.R. competente (nel caso di specie, quella di Tripoli) o, in caso di mancata risposta di questa, con le autorità della Nazione “di bandiera” della nave (l’Italia), entrambe contattate solo quando la ASSO 28 si stava ormai dirigendo verso le coste libiche. L’abuso d’ufficio sarebbe quindi integrato, ad avviso del G.U.P., per la violazione di una norma procedurale (quella che prescrive di mettersi in contatto con l’autorità S.A.R. competente) e non per lo sbarco dei migranti sulle coste libiche, anziché su quelle italiane o maltesi. Il Giudice riconosce, quindi, la violazione di norme vincolanti; tuttavia, dichiara non sussistente il fatto, in quanto ritiene carente la prova in ordine agli altri elementi del reato di abuso d’ufficio, e in particolare: 1) nega che sia stata raggiunta la prova in ordine alla presenza di un ingiusto vantaggio per l’Augusta o di un ingiusto danno per i migranti, essendo solo probabile che i Centri di coordinamento, qualora fossero stati contattati, avrebbero dato indicazione di recarsi presso i più distanti porti di Malta o dell’Italia, anziché a Tripoli, e non essendo, inoltre, dimostrate le condizioni di privazione in cui i migranti sbarcati sarebbero stati detenuti in Libia; 2) esclude la sussistenza del dolo intenzionale di cagionare ai migranti un ingiusto danno (rilevando, a sostegno delle proprie conclusioni, l’immediato soccorso prestato ai naviganti) e di procurare alla società un ingiusto vantaggio (dato che il risparmio di spesa era, come si è scritto poco sopra, solo probabile); 3) nega che tra la condotta serbata dal Comandante e l’evento ingiusto intercorra un nesso di causalità: ritiene, infatti, che non vi sia coincidenza tra il bene giuridico tutelato dalle Convenzioni SAR e SOLAS (i diritti umani) e quello protetto dall’art. 323 c.p. (il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione).

 

5. Esclusa la sussistenza del reato di abuso d’ufficio, il G.U.P. si concentra sulle altre due fattispecie contestate: quelle di sbarco e abbandono arbitrario di persone (1155 cod. nav.) e di abbandono di persone minori o incapaci (591 c.p.). Al primo reato la sentenza in commento dedica solo poche righe, limitandosi ad affermarne la sussistenza sostenendo che l’arbitrarietà dello sbarco dipenda dal fatto che questo non fosse stato autorizzato dalle autorità competenti (i Centri di coordinamento e soccorso di Tripoli e di Roma), le quali, come abbiamo scritto, erano state contattate dal Comandante solo a operazione quasi conclusa, e che, quindi, non avevano autorizzato alcunché, limitandosi a prendere atto di una decisione assunta autonomamente dal Comandante. Maggiori riflessioni la pronuncia dedica, invece, al reato di abbandono di minori o incapaci. Il Giudice ritiene integrata la fattispecie criminosa di cui all’art. 591 c.p., per avere il Comandante violatoabbandonando i migranti in Libia – i propri obblighi di cura e assistenza nei confronti dei cinque bambini e delle cinque donne incinte che si trovavano a bordo della nave. In particolare, il Giudice afferma che l’abbandono presso il porto di Tripoli delle persone fragili imbarcate – che rappresenta senz’altro una condotta contrastante con il dovere giuridico di cura e custodia che il Comandante di una nave ha nei confronti dei passeggeri[1] – ha sicuramente esposto a pericolo i migranti[2], date le condizioni disumane di detenzione a cui sarebbero con ogni probabilità stati sottoposti; la sicura consapevolezza, da parte del Comandante, del pericolo cui i migranti sarebbero stati esposti o anche solo la semplice accettazione di questo come conseguenza del proprio agire consente di ritenere sussistente l’elemento soggettivo, consistente nel dolo generico anche soltanto eventuale. Per suffragare le proprie conclusioni in merito alla sussistenza del delitto di abbandono di persone minori o incapaci, il G.U.P. risponde all’obiezione difensiva in base alla quale, anche qualora il Comandante avesse contattato uno dei Centri di coordinamento competenti, avrebbe probabilmente ricevuto l’indicazione di condurre i migranti proprio al porto tripolino, affermando che «comunque, residuava un dovere di cura e custodia in capo al Comandante nei confronti dei minori e delle persone incapaci di provvedere a sé», che gli avrebbe imposto, quanto meno, di verificare a chi fossero stati affidati e se fossero loro assicurate le cure mediche necessarie dopo giorni estenuanti di navigazione.

 

***

6.  La sentenza stimola alcune riflessioni. La prima riguarda la sussistenza del reato di abuso d’ufficio, che viene esclusa in quanto è ritenuta carente la prova in ordine all’evento del reato, al nesso di causalità tra questo e la condotta illecita e all’elemento soggettivo. Risulta difficile in questa sede esprimere un parere in merito alla consistenza del compendio probatorio; tuttavia, ci pare di poter osservare, quanto all’elemento soggettivo, che la dottrina[3] ammette pacificamente che la prova dell’intenzionalità possa ricavarsi a partire da fatti esterni sintomatici, quali la manifesta illegittimità del comportamento serbato (anche un profano si renderebbe conto che per coordinare un’operazione di salvataggio del tipo di quella condotta nel caso di specie occorre confrontarsi con l’autorità pubblica competente, e non con un privato non identificato, qual era “l’ufficiale di dogana” libico presente sulla piattaforma S. imbarcato sulla ASSO 28), i rapporti intercorrenti tra il pubblico ufficiale e la persona nella cui sfera le scelte del primo sono destinate a produrre effetti (nel caso di specie, tra il Comandante e la M. O. a. G. intercorrevano rapporti professionali) l’esistenza di un movente per la condotta illecita (qui, quello di far conseguire alla società A. O., di cui il Comandante era dipendente, un risparmio di spesa) e, più in generale, tutti gli elementi di contesto. Ci permettiamo, poi, di osservare che pare difficile dubitare che un evento ingiusto si sia verificato, tanto nella forma dell’ingiusto vantaggio per la società A. (non c’è dubbio che la ASSO 28 abbia percorso un tratto di mare più breve di quello che le avrebbe consentito di raggiungere le coste maltesi e italiane: risulta chiaramente dalle carte nautiche, come osserva lo stesso Giudice[4]), quanto nella forma dell’ingiusto danno patito dai migranti sbarcati (sembra ottimistico credere che, una volta sbarcati in territorio libico, siano riusciti a sottrarsi alla detenzione fuggendo; ed è lo stesso Giudice a riconoscere[5] che i migranti, una volta sbarcati, vengono “automaticamente” condotti nei centri di detenzione); ciò che potrebbe sembrare non provato è, piuttosto, il nesso di causalità tra le norme violate (quelle che imponevano di mettersi in contatto con l’autorità S.A.R. libica o – meglio – con quella italiana) e l’evento (lo sbarco in territorio libico). Il punto, però, non è, secondo noi, che le norme violate tutelano un bene giuridico (i diritti umani) diverso da quello protetto dall’art. 323 c.p.: ciò, in primis, in quanto è accreditata l’opinione per cui la norma sull’abuso d’ufficio tutelerebbe non solo il buon andamento, l’imparzialità della P.A. e la legalità del suo agire, ma anche la sfera individuale dei privati, innegabilmente lesa dalle angherie dei detentori dei pubblici poteri[6]; in secundis, perché è proprio la fisionomia della condotta tipica a mostrare una direzione offensiva verso uno specifico bene[7], e non il contrario (cioè: non è a partire da un bene giuridico pre-dato che si delineano i confini della condotta penalmente rilevante). La questione, piuttosto, è che nel reato di abuso d’ufficio – come in tutti i reati d’evento – è necessario accertare che la condotta rilevante sia stata condicio sine qua non per la verificazione dell’evento, ossia che, eliminandola mentalmente, l’evento venga meno. Nel caso di specie, non è certo che, se le autorità nazionali fossero state prontamente contattate (come le Convenzioni SAR e SOLAS richiedono), queste avrebbero dato indicazione di dirigersi verso un porto diverso da quello tripolino (anche se, a dire il vero, la sentenza riporta[8] una serie di altri casi nei quali i naufraghi soccorsi in zona S.A.R. libica erano stati riportati in Italia sotto il coordinamento dell’IMRCC di Roma).

Passando al delitto di abbandono di persone minori e incapaci, ci sembra di poter formulare due brevi considerazioni. La prima riguarda l’individuazione dei soggetti passivi del reato, che il G.U.P. identifica coi bambini e le donne incinte a bordo. Per quanto riguarda i bambini, non abbiamo dubbi sulla correttezza della soluzione adottata: l’art. 591 c.p. espressamente si riferisce ai “minori di anni quattordici”, così che si deve ritenere che l’abbandono di un bambino integri il reato in questione, indipendentemente dal luogo e dalle condizioni in cui avvenga. La sentenza annotata, invece, non persuade nella parte in cui sembra equiparare, già in astratto, le donne incinte ai minori, come a sostenere che una persona in stato di gravidanza debba in ogni caso essere ritenuta “incapace”. Se si tiene conto della definizione che la dottrina offre del concetto di incapacità (come condizione in presenza della quale una persona non è in grado di «procurarsi gli alimenti, curarsi, invocare aiuto, muoversi, orientarsi, dar conto di sé»[9]), si deve escludere – a noi pare – l’automatica riconduzione delle donne incinte all’interno di questa definizione:  la gravidanza, per quanto condizione evidentemente disagevole, non rende una persona sempre e comunque incapace di provvedere a sé stessa. Sostenere che alcune delle persone a bordo della nave fossero “incapaci” in quanto incinte non ci sembra, quindi, corretto; piuttosto, si sarebbe potuto sostenere che “incapaci” fossero, nel caso concreto, tutti i migranti soccorsi in mare, in quanto nessuno di essi sarebbe stato in grado di “cavarsela da solo” in un campo di detenzione, e quindi tutti si trovavano a dipendere dall’esperienza e dalla generosità del Comandante della ASSO 28. La dottrina, in effetti, ammette che lo stato di incapacità rilevante ai sensi dell’art. 591 c.p. possa dipendere anche dall’imperizia della vittima, la quale non possegga le cognizioni per uscire da sola dalla situazione di pericolo nella quale versa (l’esempio ricorrente è quello di chi non sappia nuotare o dell’alpinista inesperto)[10]; a noi sembra che la situazione di chi sia vittima degli abusi altrui e non possegga gli strumenti per difendersi sia assimilabile a quella di chi sia oppresso dalle forze della natura, e non abbia la capacità di fronteggiarle: se è vero che l’abbandono in vetta a una montagna espone a pericolo chi non abbia mai indossato un paio di sci, è senz’altro vero anche che l’abbandono in un campo di prigionia popolato da sadici aguzzini espone a pericolo una persona esausta, sola e disarmata, incinta o meno che sia. La condizione di incapacità delle persone a bordo non dipenderebbe, quindi, a nostro modo di vedere, dallo stato di gravidanza di alcune di queste (e, quindi, vittime del reato di abbandono non sarebbero le sole donne incinte), bensì dalle condizioni disperate in cui tutti i migranti versavano (con la conseguenza che soggetti passivi del reato di abbandono sarebbero, nel caso di specie, tutte le persone soccorse in mare).

La seconda osservazione ha ad oggetto l’ultimo passaggio della pronuncia, quello nel quale il G.U.P. afferma che un dovere di cura e custodia nei confronti dei minori e delle persone incapaci sarebbe residuato in capo al Comandante anche qualora questi avesse ricevuto da uno dei Centri di coordinamento competenti l’ordine di dirigersi a Tripoli. Ci sembra di poter presumere che l’obiezione difensiva (non riportata per esteso nella sentenza) fosse quella per cui la necessità di rispettare l’ordine proveniente dal Centro di coordinamento (che, ad avviso della difesa, sarebbe stato, con ogni probabilità, quello di ricondurre i migranti in Libia) avrebbe consentito di ritenere scriminata, ai sensi dell’art. 51 c.p., la condotta illecita di abbandono. Rispondendo che un dovere di cura e custodia nei confronti dei minori e delle persone incapaci sarebbe comunque residuato in capo al Comandante, a causa delle condizioni disumane di detenzione alle quali sono notoriamente sottoposte – in Libia – le persone che cercano la fuga attraverso il Mediterraneo[11], il G.U.P. sembra affermare che l’eventuale ordine di ricondurre i migranti in Libia non avrebbe avuto alcuna efficacia scriminante, in quanto sarebbe stato manifestamente criminoso. Si tratta di un’affermazione che a noi pare ininfluente ai fini della risoluzione del caso concreto (perché il Centro di coordinamento non è stato contattato, e quindi non ha ordinato alcunché: così che non ha alcuna rilevanza pratica stabilire la natura criminosa di un ordine che non è stato dato), ma che è di sicuro interesse per una più ampia riflessione, politica prima che penalistica. Com’è noto, lo sbarco dei migranti in Nord Africa anziché sulle coste europee rappresenta una conseguenza delle scelte di politica migratoria operate dall’Unione, impegnata da decenni nella strenua difesa dei propri confini, anche a costo del sacrificio di vite umane. Affermando che la legittimità dell’ordine di sbarcare i migranti in territorio libico vada sempre esclusa, essendo arcinote le condizioni disumane di detenzione delle carceri libiche, il G.U.P. di Napoli sembrerebbe “condannare” – insieme a chi esegua l’ordine di ricondurre i migranti in Libia – anche le scelte di politica migratoria compiute dall’Italia e dall’Europa.

 

 

[1] Cfr. sul punto Cass., Sez. 4, Sentenza n. 35585 del 12 maggio 2017 (dep. 19 luglio 2017), Rv. 270778, imp. Schettino.

[2] Pur qualificando l’abbandono di persone come un reato di pericolo presunto, il Giudice “lo tratta” come un reato di pericolo concreto.

[3] C. Cupelli, L’abuso d’ufficio, in Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, (a cura di) M. Romano e A. Marandola, Utet giuridica, Milano, 2020, p. 290.

[4] P. 25 della sentenza.

[5] P. 29 della sentenza.

[6] C. Benussi, Sub. Art. 323 c.p., in Cod. Pen. Comm., a cura di E. Dolcini – G. L. Gatta, IPSOA, 2021; C. Cupelli, L’abuso d’ufficio, cit., p. 276; M. Romano, Sub. Art. 323 c.p., cit., p. 353; A. Di Martino, Abuso d’ufficio, in Reati contro la Pubblica Amministrazione, a cura di A. Bondi – A. Di Martino – G. Fornasari, Giappichelli, Torino, 2008, p. 249; M. Leoni, Il nuovo reato di abuso d’ufficio, CEDAM, Padova, 1998, p. 115 A. Segreto – G. De Luca, Delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, III ed., Giuffré, Milano, 1999, p. 489; A. M. Stile/C. Cupelli, Abuso d’ufficio, in S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, vol. I, Milano, 2006, p. 37.

[7] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Giuffrè, Milano, 2021, p. 266.

[8] P. 24.

[9] F. Basile, Sub. art. 591 c.p., in Cod. Pen. Comm., a cura di E. Dolcini – G. L. Gatta, IPSOA, 2021.

[10] F. Basile, Sub. art. 591 c.p., in Cod. Pen. Comm., a cura di E. Dolcini – G. L. Gatta, IPSOA, 2021.

[11] La sentenza cita il rapporto UNHCR “Desperate and Dangerous: report on the human rights situation of migrants and refugees in Lybia” del 18 dicembre 2018, le affermazioni dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e quelle dell’Unione Europea, nonché la sentenza del G.U.P. di Messina relativa ai gravissimi abusi perpetrati nel centro di detenzione di Zawya, di cui ha dato conto G. Mentasti, Centri di detenzione in Libia: una condanna per il delitto di tortura (art. 613 bis c.p.). Nuove ombre sulla cooperazione italiana per la gestione dei flussi migratori, su Questa Rivista, il 2 ottobre 2020. Si possono ricordare anche la sentenza Hirsi Jamaa del 2012, con cui la Corte EDU ha ritenuto i respingimenti in Libia contrari all’art. 3 CEDU (cfr. L. Masera, La Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato i respingimenti collettivi verso la Libia operati nel maggio 2009 contrari agli artt. 3, 4 prot. 4 e 13 CEDU, in Dir. Pen. Cont., 24 febbraio 2012), le sentenze pronunciate dalla Corte d’assise di Milano (sent. 10 ottobre 2017 (dep. 1° dicembre 2017), Pres. Ichino, Est. Simi, Imp. Matammud, a proposito della quale si veda S. Bernardi, Una condanna della Corte d'assise di Milano svela gli orrori dei "centri di raccolta e transito" dei migranti in Libia, in Dir. Pen. Cont., 16 aprile 2018) e poi dalla Corte d’Assise d’Appello della stessa città (sez. I, n. 9 del 20 marzo 2019, su cui cfr. G. Mentasti, Campi di detenzione per migranti in Libia: il caso Matammud, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, fasc. 1/2020) sul caso Matammud e la sentenza della Cassazione penale, sez. III, 16 gennaio 2020 (dep. 20 febbraio 2020), n. 6626, Pres. Lapalorcia, Est. Gai, ric. Rackete, con nota di S. Zirulia, Caso Sea Watch (Carola Rackete): archiviate le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e rifiuto di obbedienza a nave da guerra, in Questa Rivista, 17 gennaio 2022. Non sarebbe nemmeno il caso di sottolineare che le condizioni dei centri di detenzione sono anche ampiamente documentate dalla stampa, che ha sempre riportato le condanne dei Tribunali nazionali per gli abusi ivi commessi.