Scheda  
01 Maggio 2020


Manovre speculative su mascherine e pericolo per l’economia pubblica: un provvedimento in sede cautelare sull’applicabilità dell’art. 501-bis c.p.


Francesco Lazzeri

Trib. Lecce, Sez. Riesame, ord. 21 aprile 2020, Pres. Cazzella, Est. Gatto


1. Per il rilievo della questione nell’attuale emergenza Covid-19, pubblichiamo un recente provvedimento cautelare del Tribunale di Lecce che si segnala per la ricostruzione dell’ambito applicativo del delitto di cui all’art. 501-bis c.p. (“manovre speculative su merci”) – ritenuto astrattamente idoneo a punire il rincaro ingiustificato di dispositivi di protezione individuale – e per l’esclusione della configurabilità della fattispecie nel caso concretovendita a prezzo notevolmente elevato di circa 2.000 mascherine chirurgiche.

 

2. I fatti sono stati accertati nel Comune di Lecce dalla Guardia di Finanza in occasione di un controllo, a inizio aprile, presso un negozio di articoli medicali. Da una rapida verifica contabile emergeva che, per le «mascherine monouso non sterile a 3 strati» pubblicizzate per la vendita, era praticato un prezzo al dettaglio di 5 €, a fronte di un costo di acquisto di 1,22 € (in entrambi i casi IVA compresa); il rincarooltre il 400% – risultava di molto superiore a quello riscontrato in altre farmacie o para-farmacie di Lecce e dintorni, nelle quali per il medesimo bene (prodotto e distribuito a condizioni identiche da una grande azienda del settore) era fissato un prezzo di rivendita di circa 2 €.

La polizia giudiziaria, considerato il rincaro sproporzionato alla luce dell’emergenza sanitaria in corso, sottoponeva a sequestro probatorio le 1.997 mascherine rivenute nei locali del negozio, ipotizzando il reato previsto dall’art. 501-bis c.p.; tesi poi accolta nel decreto di convalida adottato dal pubblico ministero e impugnato dalla difesa con istanza ex art. 324 c.p.p.

 

3. Il Tribunale, in funzione di giudice del riesame, delimita la propria cognizione all’accertamento del fumus del reato, inteso – sulla scorta di una pluriennale giurisprudenza di legittimità (pp. 3-4) – quale idoneità degli elementi di fatto così come rappresentati a integrare la figura di reato per cui si intendono proseguire le indagini, a prescindere dunque da una verifica in concreto della fondatezza dell’addebito.

Nel caso concreto viene in rilievo la fattispecie descritta dal co. 1 dell’art. 501-bis, che punisce la condotta di “chiunque, nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, compie manovre speculative ovvero occulta, accaparra od incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”.

La genesi della norma incriminatrice – ricorda il Tribunale – è da ricondurre al d.l. 704/1976, dal quale fu introdotta a fronte del crescente allarme per fenomeni di razionamento e speculazione legati alla crisi petrolifera che aveva colpito il mondo Occidentale a metà anni ’70, con gravi ripercussioni anche sull’economia del nostro Paese.

 

4. Un primo problema posto dalla attuale contingenza storica riguarda la possibilità di includere le mascherine chirurgiche nell’oggetto materiale del reato. Ad avviso del Tribunale, può dirsi integrata la nozione di “prodotti di prima necessità”, da riferire a tutti i beni che, pur diversi dai generi alimentari, risultano comunque indispensabili per il normale svolgimento delle attività della vita quotidiana.

Per effetto diretto dell’emergenza sanitaria a tale categoria sarebbero ora da ricondurre proprio le mascherine (e in particolare quelle di tipo chirurgico, di maggiore diffusione tra la popolazione generale), le quali – pur in assenza di un consenso unanime della comunità scientifica – sono state ritenute da numerose Amministrazioni un presidio necessario al fine di ridurre il rischio di contagio, tanto da essere spesso prescritte come obbligatorie in occasione delle uscite consentite (sul punto il Tribunale rammenta l’esistenza di ordinanze in tal senso adottate a livello regionale e locale). Della crescente indispensabilità di tale bene si avrebbe prova anche nella disposizione con cui il Governo, in sede di decretazione d’urgenza (d.l. 18/2020, art. 15), ha previsto una speciale disciplina derogatoria per il procedimento di produzione e immissione in commercio di mascherine e dispositivi di protezione individuale.

 

5. Questioni più complesse sorgono con riferimento agli altri elementi del fatto.

 

5.1. Anzitutto, per quanto riguarda la condotta, l’attenzione si sofferma sulla locuzione “manovre speculative”. Preso atto della difficoltà di attribuire un significato univoco all’espressione[1] – assai più ampia e generica rispetto a quelle impiegate dalla disposizione per descrivere, in via alternativa, le altre condotte illecite, all’evidenza non pertinenti nel caso di specie – il Tribunale ritiene di poter trovare conforto nella sia pur limitata elaborazione interpretativa relativa alla norma in esame. In particolare, viene citata una pronuncia della Cassazione in cui si afferma che «può integrare in astratto una manovra speculativa anche l’aumento ingiustificato dei prezzi causato da un singolo commerciante, profittando di particolari contingenze del mercato»[2]: ciò, accanto agli esempi offerti da una riferita dottrina conforme[3], consente al Tribunale di sostenere la rilevanza non soltanto di operazioni articolate quali accordi di cartello, ma anche di un «sensibile, ingiustificato e repentino aumento del prezzo di vendita di uno o più prodotti» (p. 6).

Tale sarebbe appunto quello osservato nella vicenda per cui si procede, non convincendo gli argomenti della difesa, che tentava di ridimensionare l’entità del rincaro (comunque ingente, anche una volta dedotti i normali costi) o comunque di spiegarla alla luce di un ipotetico rischio di invenduto (contraddittorio rispetto al diffuso picco della domanda).

 

5.2. Risulta invece decisiva per escludere l’applicabilità della fattispecie al caso concreto l’interpretazione data della norma nella parte in cui richiede che la condotta sia realizzata “in modo atto a determinare la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”.

La Cassazione – di cui sul punto risulta una serie più nutrita di pronunce – ha più volte chiarito la necessità di verificare, ai fini della consumazione del reato, che la condotta manifesti una effettiva potenzialità lesiva rispetto al bene protetto, ossia l’economia pubblica, con la precisazione che il “mercato interno” può avere tanto dimensione nazionale che locale, purché si tratti di una «zona abbastanza vasta del territorio dello Stato» da porre un serio pericolo di nocumento alla situazione economica generale del Paese[4].

A tal fine, nella più recente tra le sentenze di legittimità intervenute sul tema sono stati enunciati anche alcuni criteri diretti a orientare il giudice, che potrà considerare, in particolare, «le dimensioni dell’impresa, la notevole quantità di merci e la possibile influenza sui comportamenti degli altri operatori del settore» per stabilire se la manovra speculativa abbia avuto l’attitudine a produrre un aumento generalizzato dei prezzi[5].

Già alla luce di tali coordinate, il Tribunale (p. 11) rileva la tendenziale estraneità alla fattispecie di condotte di singoli e isolati rivenditori al dettaglio: si tratta di figure carenti, nella normalità, dei caratteri appena individuati, e dunque marginali rispetto alle complessive dinamiche di mercato, che in un contesto globalizzato – si nota nella motivazione – sono ormai dominate da grandi realtà imprenditoriali, capaci anche grazie all’e-commerce di distribuire enormi quantità di beni in modo capillare, influenzandone disponibilità e prezzo.

Non fa eccezione, secondo il Tribunale (p. 12), il caso concreto, in base agli elementi di fatto emersi dalle prime indagini. Le mascherine oggetto di sequestro (circa 2.000) sono in numero irrisorio rispetto ai volumi – nell’ordine di decine se non centinaia di milioni – richiesti dal mercato e finora acquistati e distribuiti dalle Autorità (Commisario all’emergenza e Regioni); sono vendute da vari esercizi commerciali (dalle catene di supermercati ai negozi di ferramenta) e, nel medesimo contesto spazio-temporale, stando a ulteriori controlli della Guardia di Finanza, potevano essere facilmente acquistate altrove da altri operatori del settore a prezzi molto inferiori. L’insieme di queste circostanze induce allora a ritenere, già in base a un giudizio ex ante, l’inidoneità della condotta a incidere sulla reperibilità o sul prezzo di tali dispositivi su scala sufficientemente vasta da incidere sul mercato di riferimento, anche solo a livello locale.

 

6. Esclusa così la configurabilità del reato e compendiati i principi che ispirano la decisione sul punto (pp. 13-14), il Tribunale rileva infine l’insussistenza di esigenze probatorie, dato che queste sono state (o, in futuro, potrebbero essere) pienamente soddisfatte attraverso verifiche dirette sulla documentazione contabile e fiscale dell’esercizio commerciale. D’altra parte – si aggiunge incidentalmente – l’ipotesi accusatoria non contempla il reato di cui all’art. 515 c.p. («frode nell’esercizio di commercio»), in relazione al quale sarebbe stato invece necessario accertare le caratteristiche tecniche dei prodotti destinati alla vendita (p. 16).

La decisione è quindi di annullamento del decreto e di restituzione dei beni in sequestro.

 

* * *

 

7. L’essenza del ragionamento svolto dal Tribunale, sulla scia di alcuni precedenti di legittimità, sta nel valorizzare il bene giuridico di categoria e la natura di reato di pericolo della figura criminosa in esame.

Dal dato testuale è immediato evincere che il legislatore stesso ha contemplato l’offesa all’economia pubblica quale elemento costitutivo espresso del reato, menzionandone un diretto correlato fenomenico (“la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”, salva l’esigenza di precisare la portata di quest’ultima nozione)[6]. Altrettanto esplicita pare la scelta verso un modulo di incriminazione ancorato alla concretezza del pericolo, come si desume dalla previsione di un requisito di “attitudine” a realizzare l’evento di danno (la cui effettiva verificazione rimane al di fuori della fattispecie)[7].

La struttura della norma si apprezza appunto alla luce del principio di offensività nella sua dimensione astratta. Il legislatore non ritiene sufficiente il semplice rincaro (o altra manovra speculativa) avente ad oggetto prodotti venduti dall’agente, ma esige una proiezione offensiva ulteriore, la quale consente di legittimare l’intervento penale a fronte di condotte che non sono più mero esercizio di libertà di iniziativa economica e, in particolare, di autodeterminazione negoziale. Il disvalore del fatto non è individuato nell’iniquità dei singoli rapporti negoziali – né i singoli acquirenti sono titolari del bene protetto – ma nel pregiudizio potenziale all’interesse, di pertinenza collettiva, allo stesso equilibrio di domanda e offerta (e di conseguenza dei prezzi) sul mercato.

Questa impostazione non può che ripercuotersi, secondo il canone della offensività in concreto, sulla delimitazione in via interpretativa della condotta tipica – operazione guidata dalle direttrici ancora attuali della Cassazione –, nonché sull’accertamento dell’effettiva messa in pericolo del bene nel caso di specie – compito questo che il Tribunale assolve in modo rigoroso, ben avvalendosi di tutte le risultanze fattuali disponibili.

 

8. La ricostruzione della norma incriminatrice nei termini ora descritti suggerisce peraltro un interessante parallelismo.

Si è visto che nell’ambito dell’art. 501-bis co. 1 il rincaro dei prezzi da parte di un operatore va tenuto distinto dal rincaro generalizzato che ne deriva come effetto sul mercato; e si è visto anche che, per quanto una condotta sia già dannosa per gli interessi patrimoniali di un numero più o meno ampio di soggetti determinati (gli acquirenti a costo maggiorato), ciò non è sufficiente a integrare gli estremi del fatto tipico. Perché questo avvenga, ciò che i criteri forniti dalla Cassazione sembrano richiedere è, in definitiva, una particolare capacità espansiva degli effetti della condotta, una trasmissibilità dell’aumento di prezzi da un operatore all’altro, fino a coinvolgere – si direbbe: “contagiare” – una fetta significativa di mercato, tale da poter ravvisare una lesione, almeno potenziale, dell’interesse sovraindividuale protetto.

Ebbene, uno schema analogo ha ispirato una recente sentenza della Cassazione sul delitto di epidemia, la cui applicabilità nel caso di specie – infezioni da HIV tramite rapporti sessuali non protetti determinate da un unico soggetto in danno di alcune decine di persone – è stata esclusa sulla base dell’argomento per cui il fatto tipico ex art. 438 c.p. richiederebbe non soltanto il contagio, da parte dell’agente, di un numero rilevante di individui (lesi nella propria integrità fisica), ma anche l’ulteriore elemento della diffusività della malattia e della capacità di trasmettersi a una cerchia ancor più ampia di popolazione[8]. Una lettura della norma di cui già si era resa fautrice la dottrina che maggiormente ha approfondito il tema e che pure si spiega alla luce di una condivisibile valorizzazione del bene giuridico protetto[9].

Senza poter qui approfondire il tema, sembra di poter rilevare come i fenomeni che costituiscono il substrato materiale delle due incriminazioni in esame – 501-bis e 438 – presentino caratteri empirici in parte comuni, legati al meccanismo di propagazione, su larga scala e in incertam personam, delle interazioni tra comportamenti di singoli. Connotati che affiorano nelle scelte del legislatore, che ricorre per entrambi alla struttura del “reato di danno qualificato dal pericolo[10] e che, in modo non casuale, nel codice Zanardelli collocava il c.d. “aggiotaggio annonario” (art. 326, fattispecie simile a quella in esame) tra i delitti contro l’incolumità pubblica, e in particolare nel capo “dei delitti contro la sanità ed alimentazione pubblica[11].

 

9. Tornando a soffermarci sull’art. 501-bis, il caso di specie suscita alcune considerazioni generali.

Della norma in passato è stato denunciato l’eccessivo, forse insostenibile, orizzonte di tutela (si è parlato di “gigantismo”)[12], confermato da una diffusa visione – condivisa dal Tribunale di Lecce – circa l’eccezionalità delle circostanze in cui se ne potrebbero ravvisare gli estremi.

Tuttavia, l’origine a sua volta emergenziale dell’incriminazione rende non implausibile una sua riscoperta in un contesto di indubbia straordinarietà come l’attuale, nel quale, mentre prende lentamente forma l’entità del rischio sanitario, restano ancora imprevedibili – sebbene imminenti – le ripercussioni di carattere economico.

La vicenda in esame mostra però che ancora oggi la dimensione dei fenomeni percepiti come socialmente riprovevoli è assai variabile, e nient’affatto coincidente con la soglia di tipicità penale.

Invero, se si accetta il superamento della tesi (talora prospettata) che qualifica la fattispecie in termini di reato di pericolo astratto[13], è difficile sostenere la rilevanza di condotte che risulterebbero offensive soltanto “per accumulo”[14].

Stando alle indicazioni della giurisprudenza, un margine di applicazione della norma può semmai individuarsi in via ipotetica, al di fuori delle intese restrittive della concorrenza concordate tra più soggetti, rispetto alle decisioni commerciali delle grandi catene di distribuzione, anche singolarmente considerate. Un immediato riferimento potrebbe rinvenirsi, stando alle fonti di stampa, nella scelta di un operatore del settore di ritirare le mascherine dal commercio una volta appresa la decisione del Governo – allo stato soltanto annunciata – di fissare un tetto massimo al prezzo di vendita al dettaglio[15]. D’altra parte, come si legge nelle motivazioni di una tra le sentenze di legittimità citate, non può escludersi che anche in caso di rifiuto di vendere o produrre merci «il cui prezzo è fissato con provvedimento dell’autorità» possa risultare applicabile la norma in esame, «almeno sotto specie della rarefazione»[16].

Anche in tali casi, nondimeno, si profilano difficoltà ulteriori. Con riguardo a vicende del genere di quella appena citata, dovrebbe riflettersi se la nozione di “manovre speculative” sia ancora integrata da scelte commerciali ispirate a una obiettiva e del tutto fisiologica ragione d’impresa – quella di non operare in perdita –, che può rendere il rifiuto di vendere non ingiustificato (quantomeno in assenza di sovvenzioni pubbliche o di interventi per calmierare il prezzo anche nella filiera a monte).

Più in generale, invece, sul versante dell’offesa, accanto alla difficoltà di provare in concreto il pericolo per un bene tradizionalmente sfuggente quale l’economia pubblica, ci si potrebbe interrogare circa l’odierno significato dell’espressione “mercato interno” [17]. Il fattore da considerare è qui evidentemente il poderoso sviluppo del diritto comunitario e in particolare la produzione, normativa e giurisprudenziale, volta a dare attuazione alle quattro libertà fondamentali costitutive del mercato unico. La realizzazione di quest’ultimo, quando la norma incriminatrice in esame è stata introdotta, era ancora in stadio embrionale: non erano neppure trascorsi dieci anni dal Tratto di fusione del 1967, che aveva “unificato” le Comunità europee esistenti, e ancora nel 1969 la Corte di giustizia, nella sentenza Wilhelm (C-14/68) poteva distinguere tra “mercato interno” e “mercato comune”. Quantomeno dal 1993, tuttavia, a seguito del Trattato di Maastricht le due nozioni sono venute a coincidere, come dimostrano le numerose pronunce della giurisprudenza di Lussemburgo che hanno ritenuto incompatibili con il diritto comunitario misure nazionali restrittive delle libertà di circolazione (in primis, delle merci). Alla luce di tale evoluzione, l’offensività della condotta nel reato ex art. 501-bis c.p. andrebbe valutata alla stregua di un orizzonte geografico ed economico ancor più vasto di quello – di portata nazionale o addirittura locale – assunto a riferimento dalla giurisprudenza della Cassazione: con la conseguenza che, aggravatosi il “gigantismo” della norma, a questa sarebbe precluso pressoché ogni movimento in sede applicativa.

In conclusione, la legittimità del presidio penale nella materia in esame non esclude e anzi consiglia, alla luce di quanto appena detta, secondo una logica di sussidiarietà ma anche di effettività, la predisposizione di una normativa sanzionatoria di carattere amministrativo, sul modello di quanto di recente previsto per la violazione delle misure di contenimento legate all’emergenza sanitaria[18]; con l’ulteriore vantaggio che, ipotizzando di irrobustire la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, la relativa applicazione, ai sensi dell’art. 27 cod. cons., potrebbe essere demandata a un soggetto, quale l’AGCM, dotato di specifica competenza tecnica.

 

 

[1] Definita da C. Pedrazzi, Turbativa dei mercati, in Dig. pen., 1999, par. 4 (consultato in banca dati Leggi d’Italia) «assai carente sotto il profilo della tassatività».

[2] Cass., Sez. V, sent. 15.5.1989 – dep. 27.10.1989, Salerno, Rv. 182374 - 01.

[3] La dottrina richiamata dal Tribunale sembra potersi individuare, testualmente, in C. Pedrazzi, Turbativa dei mercati, loc. cit.

[4] In questo senso Cass. 15.5.1989, cit.; Cass., Sez. VI, sent. 2.3.1983 – dep. 18.3.1983, Perossini, Rv. 160958 - 01; Cass., 13.11.1980, Costa, che il Tribunale cita da Giust. Pen., 1981, II, 129.

[5] Così ancora Cass. 15.5.1989, cit.

[6] Una tecnica normativa di costruzione del fatto di reato descritta in generale in G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Giuffrè, 2019, p. 247.

[7] Tanto può dirsi semplicemente estendendo il medesimo ragionamento svolto dalla manualistica (ancora G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, cit., p. 253) per il delitto di strage, con la differenza che la fattispecie di cui all’art. 422 c.p. contempla direttamente l’offesa (il pericolo per la pubblica incolumità) come elemento espresso: ma si è appena detto che tale elemento può essere descritto in modi fungibili, sicché la differenza non pare rilevante. Prevedere una fattispecie di pericolo concreto sarebbe stata anche l’intenzione del legislatore storico, per come emerge dai lavori preparatori: cfr. M. Bianchi – M. Lombardo, sub art. 501-bis, Codice penale commentato in banca dati Leggi d’Italia, par. 2.

[8] Cfr. Cass., Sez. I, sent. 30 ottobre 2019 (dep. 26 novembre 2019), n. 48014, in questa Rivista, 19 dicembre 2019, spec. § 6.2-6.3 del “considerato in diritto”.

[10] Nozione di origine tedesca sulla cui portata all’interno dell’ordinamento si veda a A. Gargani, Incolumità pubblica (delitti contro la), in Enc. Dir., Annali VIII, 2015, p. 271 ss.

[11] Il dato è menzionato in M. Bianchi – M. Lombardo, sub art. 501-bis, cit., par. 1.

[12] Cfr. per una panoramica M. Bianchi – M. Lombardo, sub art. 501-bis, cit., par. 1, ove si ritrova pure la citazione letterale riportata nel testo (tratta da Maccari, sub art. 501 bis, in Cod. pen. ipertestuale, 3a ed., Torino, 2007, 2259).

[13] In tal senso gli autori citati da C. Pedrazzi, Turbativa dei mercati, cit., nt. 22.

[14] Secondo il modello notoriamente proprio delle norme incriminatrici del t.u. ambiente: cfr. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 254-255.

[15] È quanto si apprende, ad esempio, dalla notizia riportata dal Corriere della Sera, 29 aprile 2020.

[16] Così Cass. 13.11.1980, cit.

[17] Per le considerazioni che seguono chi scrive è debitore del Prof. Alessandro Bernardi e dei suoi preziosi consigli.

[18] Sui rapporti tra strumento penale e amministrativo nella gestione dell’emergenza Covid-19, si vedano, in questa Rivista, G.L. Gatta, Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza COVID-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19, 26 marzo 2020, e C. Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, 30 marzo 2020, spec. par. 3.4.