Trib. Spoleto, ord. 21 maggio 2020
1. Le scelte incerte del legislatore. – Il processo penale da remoto, che tanto sta facendo dibattere i giuristi in questo drammatico periodo di crisi pandemica, approda dinnanzi alla Corte costituzionale.
Il Tribunale di Spoleto ha rimesso la questione di legittimità della disposizione normativa con cui il decreto-legge n. 28 del 2020, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 aprile scorso ed entrato in vigore il giorno successivo, ha compresso in misura rilevante lo spazio assegnato al nuovo istituto, e ciò attraverso la modifica della previsione contenuta nella legge di conversione del decreto legge n. 18 del 2020 – legge 24 aprile 2020, n. 27 – pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29 aprile successivo ed entrata in vigore il giorno, ancora successivo, 30 aprile.
La questione è nota.
In sede di conversione del decreto-legge n. 18, inizialmente ispirato a particolare cautela nel maneggiare il processo da remoto come contromisura al necessitato rallentamento dell’attività giudiziaria, sono stati introdotti importanti emendamenti.
Con gli innesti apportati in prima lettura al Senato, il processo da remoto è stato eletto a modalità ordinaria per la gran parte dei processi per il periodo, non breve, dell’emergenza pandemica.
Soluzione, questa, molto contrastata e assai poco gradita soprattutto agli avvocati, che hanno ritenuto eccessivo e ingiustificato il correlato sacrificio delle garanzie del giusto processo; ed hanno paventato il rischio che, una volta introdotto nel sistema dalla porta dell’emergenza, questo pericoloso istituto avrebbe potuto resistere alla cessazione della pandemia, strutturandosi in modo stabile.
2. L’origine parlamentare del revirement. – Di qui la reazione del legislatore del decreto che, ad appena un giorno dall’entrata in vigore della legge di conversione del procedente provvedimento d’urgenza, ne ha impedito l’operatività ad ampio spettro.
Ha così stabilito che con il collegamento da remoto non si possa procedere, a meno che non vi sia il consenso delle parti, per la celebrazione delle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti e periti.
La disposizione di deroga, è bene rammentarlo, trova spiegazione negli atti di indirizzo politico con cui la Camera dei deputati ha inteso vincolare il Governo ad un preciso impegno.
Con gli ordini del giorno votati in sede di approvazione finale della legge di conversione del decreto legge n. 18, sì come riformulati dal Governo che li ha quindi favorevolmente valutati nei nuovi termini – ordini del giorno 9/2463/37 Vazio; 9/2463/251 Annibali; 9/2463/325 Costa, così riformulati: “impegna il Governo a prevedere nel prossimo provvedimento utile che il ricorso a strumenti telematici (processo da remoto), così come previsto dal decreto di cui in premessa non si applichi alle udienze di discussione e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, salvo diverso accordo tra le parti –, la Camera dei deputati ha sollecitato il Governo all’adozione in tempi brevi di un’iniziativa volta a rivedere le scelte che in quel momento si stavano ratificando.
Un percorso parlamentare che, certo, non è stato lineare: la Camera dei deputati avrebbe potuto modificare il testo sì come licenziato dal Senato, invece che impegnare il Governo ad una futura e prossima iniziativa riformatrice.
La logica di questi comportamenti è però tutta interna alle dinamiche dell’emergenza: vi era necessità di una rapida conversione del decreto-legge n. 18, contenente una disciplina anche solo quantitativamente molto importante, e non v’era possibilità di far ritornare il testo al Senato per interventi correttivi incidenti soltanto nel settore della giustizia penale.
Il voto di alcuni ordini del giorno è apparsa una soluzione praticabile, combinata peraltro ad un attento e sapiente adempimento degli obblighi di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dei testi, sia di quello riformato che del riformatore.
Non è stato per mero caso che la legge di conversione del decreto-legge n. 18, approvata il 24 aprile, abbia atteso cinque giorni prima di essere pubblicata, e il decreto-legge di riforma abbia potuto così profittare di un significativo vantaggio temporale, e impedire, con la sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale appena il giorno dopo, che il processo da remoto avesse vita effettiva.
In tal modo il Governo si è assicurato l’adempimento tempestivo degli impegni assunti in sede parlamentare e ha evitato che l’operatività della legge riformata potesse causare, una volta modificata, disagi organizzativi e il sorgere di questioni circa la validità e l’efficacia dell’attività processuale medio tempore svolta.
3. La questione di costituzionalità. – Il Tribunale di Spoleto, all’udienza del 21 maggio scorso avrebbe dovuto definire, dando la parola alle parti per la discussione finale, un giudizio immediato che aveva avuto inizio, con la prima udienza, il 4 luglio 2017.
Prima di dar corso alla discussione, ha interpellato le parti presenti per verificare se consentissero alla trattazione da remoto; a tal proposito ha precisato, nell’ordinanza di rimessione, di aver proceduto, sino a quel momento, con le modalità ordinarie, quindi con convocazione delle parti per la comparizione fisica all’udienza non avendo queste formulato in precedenza istanza di celebrazione con modalità da remoto.
Preso atto del dissenso della difesa dell’imputato, il Tribunale ha quindi sollevato la questione di costituzionalità della disposizione che subordina la possibilità di svolgimento del processo da remoto, tra l’altro per le udienze di discussione finale, al consenso di (tutte) le parti.
4. La rilevanza della questione su legge temporanea. – Ha a tal fine affrontato il tema della rilevanza, sotto un duplice profilo, non trascurando che la disposizione sospettata di incostituzionalità ha natura temporanea, perché il decreto-legge n 18, convertito con modif. con legge n. 27 del 2020, ne ha delimitato l’ambito di applicazione con scadenza al 31 luglio 2020.
Non è sfuggito al Tribunale che, con ogni probabilità, la decisione della Corte costituzionale interverrà, per quanto rapidamente emessa, dopo il limite temporale di efficacia; ha però osservato che la rilevanza è requisito da apprezzare al momento in cui sorge la questione, perché, se così non fosse, si determinerebbero, come nel caso di leggi temporanee, zone franche sottratte inaccettabilmente al controllo di costituzionalità.
Sul punto ha fatto richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale – sentenza n. 148 del 1983 – che per prima compiutamente espresse le ragioni dell’assoggettabilità al sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore.
Come è noto, l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità di tal tipo di norme non potrebbe mai determinare la retroazione di norme penali peggiorative, perché a tanto osta la garanzia costituzionale dell’art. 25; e però, tale indubbia garanzia del sistema non inibisce che le norme siano oggetto del controllo, necessario onde evitare “zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile”.
Il richiamo alla giurisprudenza formatasi in materia di norme penali di favore pone una seria questione e prospetta una esigenza di pienezza del controllo di costituzionalità certamente apprezzabile.
Il Tribunale non si è però soffermato a valutare se sia plausibile che dall’eventuale pronuncia di incostituzionalità sorga l’obbligo, in quel procedimento, di trattazione con modalità da remoto pur quando la disciplina a quel momento vigente sarà soltanto quella, per così dire, ordinaria; e non si è cimentato neanche nel considerare, ove si escluda che dopo il 31 luglio potranno aversi svolgimento da remoto delle udienze, se e quali altri effetti secondari sul procedimento a quo potrebbe avere una pronuncia di incostituzionalità emessa dopo il 31 luglio.
È rimasto quindi non sufficientemente esplorato il campo delle possibili conseguenze di una pronuncia successiva al momento in cui la legge temporanea cesserà di avere efficacia e vigenza.
Sul presupposto dell’equiparazione della perdita di efficacia di una legge temporanea al fenomeno abrogativo per successione di leggi – una sorta di abrogazione differita –, si può ora approfondire il tema, ponendo attenzione alle decisioni della giurisprudenza costituzionale su questioni relative a leggi interessate da abrogazione per ius supervienens.
Si rileva così che, con l’ordinanza n. 131 del 1992, la Corte ebbe a dire che l’abrogazione della norma sottoposta a scrutinio, per effetto di altra, avente natura processuale e quindi immediatamente applicabile nel giudizio pendente, determina il sopravvenuto difetto di rilevanza e quindi la manifesta inammissibilità della questione; e, ancora, che con l’ordinanza n. 313 del 1991 la Corte costituzionale dichiarò la manifesta inammissibilità, per sopravvenuto difetto di rilevanza, della questione relativa ad una disposizione normativa abrogata ad opera di altra, avente natura processuale e quindi immediatamente applicabile nel giudizio pendente, benché contenuta in un decreto-legge in fase di conversione.
È ovvio che, ragionando lungo questa direttrice, l’esigenza di controllo su una norma destinata ad operare per pochi mesi resterebbe del tutto frustrata.
Si potrebbe allora ipotizzare che, pur non applicabile nel procedimento sospeso, la norma sarebbe comunque utilmente scrutinabile in riguardo ad altri aspetti.
Il dissenso allo svolgimento del processo con modalità da remoto, se proveniente dall’imputato, potrebbe assumere rilievo quale dato impeditivo del decorso della prescrizione, che la legislazione dell’emergenza sospende soltanto in riferimento ai procedimenti che non devono essere trattati e che, in conseguenza dell’esigenza di prevenzione del contagio, devono essere rinviati ad altra data.
Ove si accertasse che, in conseguenza del dissenso, il processo abbia subìto un rinvio per impossibilità di tenere udienza altrimenti, si potrebbe ritenere il tempo del rinvio coperto dalla sospensione del termine di prescrizione, che l’art. 83 del decreto-legge n. 18, come convertito con la legge n. 27 del 2020, applica ai casi di procedimenti che sono rinviati ex lege nel periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020 e ai casi di procedimenti la cui trattazione sia rinviata per provvedimento organizzativo del dirigente dell’ufficio giudiziario nel periodo dal 12 maggio al 31 luglio 2020, e non oltre.
Se questa lettura della complessa disciplina fosse praticabile, si potrebbe immaginare un epilogo diverso per l’incidente di costituzionalità, e in particolare un provvedimento di restituzione degli atti al giudice a quo per la necessaria valutazione dell’incidenza del venir meno della norma denunciata sui dubbi di costituzionalità, spettando anzitutto al rimettente accertare se e in quali termini permanga la rilevanza della questione e il denunciato contrasto con la Costituzione – v., tra le altre, ordinanza n. 29 del 2013 –.
5. La rilevanza per necessità di applicazione della norma censurata. – Sempre in punto di rilevanza, per il Tribunale non è dubbio che la norma sospettata di incostituzionalità “vada necessariamente applicata nella vicenda processuale in esame”; ha fatto a tal proposito richiamo ad una sentenza, la n. 91 del 2013, espressiva di un pacifico orientamento della giurisprudenza costituzionale circa la necessaria sussistenza del nesso di pregiudizialità tra giudizio principale e giudizio costituzionale, in forza del quale occorre verificare che la norma debba essere necessariamente applicata nel primo e che l’eventuale illegittimità della stessa incida su quello.
Non può essere, infatti, rilevante una questione di costituzionalità dalla cui risoluzione non dipenda la decisione che il giudice a quo debba assumere – tra le altre, ord. n. 4 del 2012; sent. n. 184 del 2006; ord. n. 23 del 2004, che ha chiarito come, ove il giudice a quo non sia chiamato ad assumere una decisione che comporti l’applicazione, sia pure indiretta, della norma censurata, la questione posta difetta di rilevanza –.
6. Dubbi sulla rilevanza: la norma non è di necessaria applicazione. – Nel caso descritto dal Tribunale sembra però che la norma sia stata applicata ben prima della decisione di rimettere la questione e che il dubbio di costituzionalità non ne abbia quindi preceduto l’applicazione, con conseguente sospensione del giudizio, ma sia stato ad essa successivo; che sia quindi intervenuto quando ormai dell’applicazione di quella norma non poteva più discutersi.
Secondo la previsione del comma 12-bis dell’art. 83 del più volte menzionato decreto-legge n. 18 – sì come modificato –, il giudice, per dare corso allo svolgimento delle udienze con modalità da remoto, deve far comunicare, prima dell’udienza e quindi in tempo sufficientemente utile, ai difensori delle parti, al pubblico ministero e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione, giorno, ora e modalità del collegamento.
È in quel momento, necessariamente antecedente l’udienza, che le parti possono esprimere il loro dissenso, secondo quanto previsto dall’ultimo periodo del medesimo comma 12-bis, impedendo che si dia corso all’udienza da remoto.
Se, invece, il giudice omette tale preliminare avviso e siede in udienza con partecipazione fisica delle parti e degli altri soggetti che ad essa debbano intervenire, non ha alcun potere di interpellare le parti per l’eventuale consenso alla modalità da remoto, che non è più opzione valutabile una volta che l’udienza sia iniziata e che le parti si siano regolarmente presentate per lo svolgimento delle attività previste.
Di quella norma, in buona sostanza, non può più fare applicazione, e sarebbe del resto irragionevole che lo facesse, posto che le parti si sono presentate e sono in udienza dinnanzi a lui, pronte a svolgere i loro compiti.
La disposizione sul processo da remoto – se letta e applicata sì come ha fatto il Tribunale – sarebbe sempre causa di inutili e perniciosi rinvii, perché l’udienza con presenza fisica del giudice e delle parti servirebbe soltanto ad appurare l’esistenza delle condizioni per procedere, in altro momento e con collegamento da remoto, a quella stessa udienza – non si comprende a quel punto perché non compiutamente tenuta –.
La spia che il Tribunale di Spoleto non abbia correttamente interpretato la disciplina censurata si trae dall’ordinanza di rimessione, ove si attesta che si è giunti all’udienza di discussione finale del 21 maggio, proprio quella in cui è stata sollevata la questione di costituzionalità, non avendo le parti formulato istanza di celebrazione dell’udienza da remoto mediante l’applicativo Teams….
Il richiamato art. 83, comma 12-bis – ed è questo il dato essenziale – prevede non già che le parti possano o debbano avanzare istanza per lo svolgimento dell’udienza con collegamento da remoto, ma che sia il giudice a dover dare loro avviso del giorno, dell’ora e delle modalità del collegamento, con la conseguenza che esse, secondo lo schema di legge, possono agire non già per chiedere ma soltanto per inibire lo svolgimento dell’udienza con quelle modalità.
Nei termini appena illustrati, la questione potrebbe esser priva di rilevanza.
7. Le disposizioni costituzionali violate. – Sulla non manifesta infondatezza, il Tribunale ha ragionato in riguardo a due parametri costituzionali, gli artt. 70 e 77.
Per un primo aspetto ha ritenuto di cogliere nel decreto-legge n. 28, approvato lo stesso giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del precedente n. 18, un difetto di metodo per preordinato aggiramento del senso e della portata delle norme contenute nel decreto riformato, inibendone l’applicazione attraverso disposizioni di segno diametralmente opposto, impacchettate nel provvedimento d’urgenza successivamente adottato.
Ha quindi chiosato che lo strumento del decreto-legge è stato utilizzato per paralizzare l’attività parlamentare, con svilimento dell’attività legislativa del Parlamento, a nulla potendo valere che la tempestiva riforma della disciplina del processo da remoto abbia trovato impulso in atti di indirizzo votati dalla Camera dei deputati appena qualche giorno prima.
L’ordine del giorno non è un atto legislativo e peraltro, siccome votato da una sola Camera, si pone in questo contesto come mezzo per violare il cd. bicameralismo perfetto.
La posizione critica, qui riassunta, si segnala quanto meno per una buona dose di originalità.
Il decreto-legge è sì provvedimento provvisorio, ma ha forza di legge ed è dunque capace di incidere su leggi precedenti.
Il fatto che possa essere approvato il giorno stesso in cui la legge modificata acquista vigore, e che possa essere pubblicato il giorno dopo in modo da inibirne totalmente ogni effetto, rientra, al di là di ogni suggestiva considerazione, nel fisiologico dispiegarsi del fenomeno della successione di leggi, ivi compresi gli atti aventi forza di legge.
Si è detto all’inizio che la soluzione di rimettere a una successiva iniziativa legislativa il compito di modificare le norme sul processo da remoto, introdotte dal Senato in sede di conversione del decreto-legge n. 18, sia stata soluzione sostanzialmente imposta per evitare a quella legge di conversione di far navetta, ritardando l’entrata in vigore di un ricco ed eterogeneo complesso di importanti disposizioni normative dettate dall’emergenza causata dalla pandemia.
Se poi si riflette sul fatto che i tre ordini del giorno che, secondo la prospettazione del Tribunale, si porrebbero in violazione del sistema bicamerale, sono stati proposti da esponenti sia di un Gruppo di opposizione (Forza Italia) che di due Gruppi di maggioranza (Italia Viva e Partito Democratico) e che, previa riformulazione, sono stati valutati favorevolmente dal Governo per poi ottenere il voto della maggioranza, si ha modo di apprezzare come il decreto-legge n. 28 sia tutt’altro che espressione di un colpo di mano dell’Esecutivo, diretto a incidere illegittimamente sulla funzione legislativa delle Camere.
Per cogliere qualche elemento di plausibilità nelle argomentazioni del Tribunale occorrerebbe poter dire che il decreto-legge n. 28 sia del tutto privo dei presupposti che ne legittimano l’adozione, e per tale via apprezzare la pretestuosa strumentalità dell’azione, allora sì diretta a interferire indebitamente con la volontà legislativa parlamentare.
8. Sulla ritenuta assenza dei presupposti della decretazione d’urgenza. – Su tale non facile sentiero si è incamminato il Tribunale, rilevando che nel preambolo del decreto-legge n. 28 non v’è alcun riferimento a casi straordinari di necessità e urgenza, per il vero – aggiunge – “solo genericamente enunciati”.
La conferma dell’assenza di tali requisiti, al di là del dato formale della generica enunciazione, vien tratta dalla considerazione che, pubblicato il giorno dopo l’entrata in vigore della legge riformata, il decreto-legge non ha potuto giocoforza arricchirsi della valutazione di un alcun “sopravvenuto elemento di novità”.
In assenza del novum, il decreto-legge perderebbe – questa la conclusione – la sua giustificazione costituzionale.
Peraltro, paralizzando in misura rilevante l’accesso al processo da remoto, ha disatteso le ragioni di prevenzione del contagio da pandemia, di cui la legge riformata si era fatta carico, e quindi ha operato, sostanzialmente, non secondo ma contro necessità.
In buona sostanza, secondo la lettura che ne ha dato il Tribunale, il decreto-legge n. 28 è stato emesso in assenza di ogni possibile fondamento, contravvenendo alle ragioni di necessità valutate dal legislatore con la legge di conversione del decreto-legge n. 18; e, al più, ove si volesse individuare la necessità nel ripristino delle garanzie della difesa, del contraddittorio e dell’oralità, asseritamente compromesse dal processo da remoto, si è arrogato un compito che non gli compete, siccome il decreto-legge non è strumento preposto a fronteggiare gli eventuali vizi di costituzionalità di precedenti atti normativi.
È appena il caso di osservare come tale ultimo postulato, perentorio e assertivo al contempo, sia del tutto privo di una qualche illustrazione.
È come se, per il Tribunale, fosse superfluo argomentare a tal proposito, dovendo essere evidente, ma coì non è, che un atto avente forza di legge, incontestabilmente equiparato alla legge quanto alla forza normativa, non possa intervenire per modificare disposizioni sospettate di incostituzionalità.
Parimenti inspiegato resta l’assunto che il decreto-legge possa modificare un precedente assetto normativo definito per legge ordinaria soltanto se intervenga medio tempore un non meglio definito, e definibile, quid novi, quasi che le numerose e argomentate perplessità che anche nel dibattito pubblico sono state manifestate, da esponenti del ceto forense e del mondo accademico, in ordine al processo da remoto non fossero dati meritevoli di considerazione.
Il Tribunale ha poi ignorato che le ragioni di necessità e di urgenza derivano dalla natura emergenziale dell’istituto che si è voluto modificare, appunto costruito a tempo e destinato ad operare straordinariamente in un definito lasso temporale, non così ampio da consentire l’utile intervento di modifica per legge ordinaria, e con i tempi di approvazione di una legge ordinaria, anche se di iniziativa governativa.
La conclusione che meglio riassume le perplessità circa le valutazioni di non manifesta infondatezza è che, per il tramite della questione di costituzionalità, si sia inteso porre in discussione il merito politico delle scelte legislative.
L’incerto procedere del legislatore dell’emergenza, vistosamente indeciso su quale sia la migliore soluzione per concorrere alla necessaria continuità della giurisdizione, è ampiamente criticabile; e però, non sembra che un siffatto piano di valutazione, estraneo a profili di irragionevolezza, sia idoneo a misurare la conformità o compatibilità costituzionale della disposizione che restringe lo spazio applicativo del processo da remoto.