Cass., Sez. un., sent. 24 giugno 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36959, Pres. Fumu, est. Andreazza, ric. Ellade
1. Con la pronuncia in esame, la Corte di cassazione, a Sezioni unite, è intervenuta a risolvere la questione ermeneutica sorta in merito all’onere, gravante sul giudice della cautela, di motivare il provvedimento applicativo del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, con riferimento al periculum in mora.
Il nodo da sciogliere involge, più in generale, il corretto inquadramento della misura ablativa di cui al secondo comma dell’art. 321 c.p.p. rispetto all’ipotesi affine disciplinata dal primo comma dello stesso articolo e, in particolare, i riflessi che ne derivano in punto di motivazione del provvedimento.
L’art. 321 c.p.p. – come noto – attribuisce al giudice il potere di adottare, nelle more del procedimento penale, un decreto di sequestro preventivo con il quale apporre un vincolo di indisponibilità su una determinata res, a fini cautelari.
L’esercizio di tale potere può perseguire due distinte finalità[1].
Nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 321 c.p.p., l’applicazione del vincolo è volta a scongiurare il rischio che la permanenza di una cosa pertinente al reato nella disponibilità del soggetto possa aggravarne o protrarne le conseguenze, ovvero agevolare la commissione di ulteriori illeciti penali.
Il secondo comma dell’art. 321 c.p.p. prevede, invece, che la misura cautelare in parola sia applicata con funzione servente rispetto all’eventuale successiva confisca, della quale è possibile, così, garantire l’efficacia, anticipando il vincolo di indisponibilità sul bene già ad una fase anteriore alla condanna.
La differente ratio ispiratrice delle due richiamate ipotesi normative determinerebbe, secondo la tesi interpretativa tradizionalmente accolta, un diverso atteggiarsi dell’onere motivazionale, gravante sul giudice della cautela. Invero, mentre il decreto di sequestro impeditivo, di cui al primo comma dell’art. 321 c.p.p., deve necessariamente precisare le ragioni per le quali il permanere di un rapporto di prossimità tra l’indagato e la res potrebbe incoraggiare la prosecuzione o la reiterazione dell’attività criminosa; per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, invece, il giudice cautelare potrebbe limitarsi ad attestare la confiscabilità del bene, destinatario del vincolo, sul presupposto che la cosa deve, per ciò stesso, considerarsi pericolosa, senza alcuna prognosi ulteriore.
Al contrario, secondo una diversa opzione esegetica, l’esigenza di scongiurare ingiustificate compressioni del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica – entrambi costituzionalmente garantiti – imporrebbe al giudice l’onere di precisare, anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 321, comma 2, c.p.p., i profili di pericolosità sussistenti nel caso concreto.
Le Sezioni Unite, nel dirimere il contrasto interpretativo, hanno confermato la necessità che il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca indichi la motivazione, seppur concisa, del periculum in mora, da rapportare alle ragioni che giustificano l’anticipazione degli effetti ablativi prima della definizione del giudizio. Conseguentemente, l’unica ipotesi nella quale la motivazione in ordine alle esigenze cautelari può coincidere con la mera inclusione della res tra i beni confiscabili concerne le cose – «la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione costituisca reato» – indicate dall’art. 240, comma 2, n. 2 c.p., in quanto considerate dal legislatore intrinsecamente pericolose e, quindi, confiscabili anche in assenza di una sentenza di condanna.
2. Ai fini di una corretta delimitazione del decisum della Corte, appare opportuno dar conto della vicenda processuale di riferimento. Nel caso di specie, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di un terreno, che – secondo quanto emerso nel corso delle indagini – era stato acquistato con una provvista scaturente da alcune attività illecite contestate.
La proprietaria del terreno, nonché indagata, aveva proposto riesame avverso il decreto applicativo della misura, ritenendo che il Giudice per le indagini preliminari avesse omesso di valutare il profilo del periculum in mora, giacché la pericolosità del bene era stata desunta dal mero inquadramento della res quale profitto del reato, suscettibile di confisca facoltativa. Il Tribunale del riesame aveva, tuttavia, rigettato l’impugnazione, condividendo la scelta del giudice a quo di non precisare ulteriormente gli elementi giustificativi dell’adprehensio, sul presupposto che la pericolosità connessa alla libera disponibilità del bene dovesse presumersi dalla circostanza che il terreno costituiva il profitto del reato ed era, come tale, confiscabile.
Avverso l’ordinanza di rigetto, l’indagata aveva, pertanto, proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione degli artt. 125 e 321 c.p.p., in quanto, il giudice, nell’applicare la cautela reale, aveva omesso qualsiasi precisazione in merito alla prognosi di pericolosità, resa necessaria – secondo la ricorrente – in ragione della natura facoltativa della confisca.
La Quinta Sezione della Corte di cassazione, cui era stato assegnato il ricorso, preso atto dell’esistenza di un contrasto ermeneutico in ordine alla sussistenza dell’onere motivazionale da assolvere in sede di sequestro a fini di confisca, si era, per ciò, vista costretta a rimettere la questione al vaglio delle Sezioni unite.
3. Come evidenziato dalle stesse Sezioni unite nella decisione in esame, in seno alla giurisprudenza di legittimità possono effettivamente rinvenirsi due indirizzi interpretativi divergenti.
Secondo un primo orientamento[2], più risalente nel tempo, la mera inclusione del bene da sequestrare tra le cose suscettibili di confisca esclude, in capo al giudice, l’onere di valutare e precisare in motivazione la pericolosità connessa alla libera disponibilità della res, in quanto insita nella stessa confiscabilità.
In particolare, l’indirizzo in parola muove dal presupposto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia un istituto del tutto autonomo rispetto a quello previsto dal primo comma dell’art. 321 c.p.p. e, in quanto tale, se ne discosti anche in punto di requisiti applicativi. In virtù di questa premessa, si afferma che l’onere di valutare in concreto la sussistenza del periculum in mora, gravante sul giudice ai fini dell’adozione del decreto di sequestro impeditivo, non si estende, altresì, all’ipotesi del sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
A sostegno della descritta autonomia tra i due istituti, viene richiamata la Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di rito, nella quale il legislatore ha chiarito che l’istituto del sequestro preventivo, disciplinato dall’art. 321 c.p.p., è volto a perseguire due diverse finalità: l’una di tipo impeditivo, rinvenibile nel primo comma del citato articolo, e l’altra di natura conservativa, ricavabile dal secondo comma, in quanto volta a garantire che la confisca, eventualmente ordinata con la sentenza di condanna, possa compiutamente esplicare i propri effetti.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale in esame, la validità della tesi propugnata trova ulteriore conferma nella scelta del legislatore di impiegare – nel testo del secondo comma dell’art. 321 c.p.p. – l’avverbio “altresì”, il quale riveste la funzione di evidenziare, anche a livello sintattico, l’autonomia tra le due tipologie di sequestro preventivo; tale da legittimare un diverso apparato giustificativo, cui ancorare il relativo provvedimento sotto il profilo delle esigenze cautelari.
In contrapposizione a questo indirizzo, una diversa opzione ermeneutica[3], più attenta ad evitare ingiustificate lesioni del diritto di proprietà, esclude qualsiasi automatismo tra confiscabilità del bene e pericolosità, ritenendo sussistente, in capo al giudice, l’onere di precisare l’iter argomentativo fondante l’atto di spossessamento. In particolare, sempre ad avviso di questa tesi, la natura discrezionale del potere esercitato in caso di sequestro di beni, suscettibili di confisca facoltativa[4], impone al giudice cautelare di esplicitare le ragioni insite nell’apprensione anticipata della res, quantomeno in ordine al pericolo di sottrazione, modifica o dispersione della stessa nelle more del giudizio.
4. A risolvere il contrasto di vedute che si registra in seno alla giurisprudenza di legittimità, intervengono le Sezioni unite, prospettando una soluzione che – discostandosi da entrambi gli indirizzi appena richiamati – impone al giudice di indicare, nella motivazione del provvedimento di sequestro preventivo relativo a beni suscettibili di confisca, le ragioni della sussistenza non solo del fumus commissi delicti[5], ma altresì del periculum in mora.
E ciò al condivisibile fine di garantire che la ratio, sottesa all’esercizio del potere ablatorio, non sia oggetto di una deduzione implicita, ma debba essere adeguatamente motivata, in ossequio al carattere residuale che connota – o almeno dovrebbe connotare – la tutela cautelare.
Il percorso esegetico che ha condotto alla conclusione appena esposta prende avvio dalla puntualizzazione che l’ambito di operatività della pronuncia in esame è circoscritto alle sole ipotesi di confisca, facoltativa e obbligatoria, disciplinate dall’art. 240 c.p., ossia quelle in cui l’apprensione della res è giustificata dal rapporto di strumentalità che lega quest’ultima al reato.
Chiarito ciò, le Sezioni unite hanno rilevato che non sussiste alcun dubbio in merito alla natura autonoma del sequestro preventivo finalizzato alla confisca rispetto a quello “impeditivo”, come confermato dalla diversa collocazione assunta all’interno dell’art. 321 c.p.p., nonché dalle distinte esigenze che ciascuno dei due istituti è destinato a soddisfare.
Siffatta considerazione, tuttavia, non induce a concludere che la motivazione della misura adottata a fini di confisca possa esaurirsi nel dare atto, semplicemente, della confiscabilità della cosa.
Anzi. Ad avviso del Collegio, l’imprescindibilità della motivazione deriva, anzitutto, dalla natura discrezionale del potere espropriativo, di cui al secondo comma dell’art. 321 c.p.p., suggerita dall’utilizzo del verbo modale “può” – «il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca» – e reso oggi ancor più evidente dalla formulazione del comma 2-bis del medesimo articolo, a norma del quale, invece, qualora sia contestato uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, «il giudice dispone» – si potrebbe dire obbligatoriamente – il sequestro preventivo dei beni di cui è ammessa la confisca. Dunque, proprio la natura discrezionale del potere di disporre il sequestro preventivo, ai sensi del secondo comma dell’art. 321 c.p.p., impone che vengano precisati i presupposti del suo esercizio, individuati nel pericolo che, nelle more del giudizio, il bene venga modificato, disperso, deteriorato o alienato.
Quale ulteriore argomentazione a favore della sussistenza dell’onere di motivazione anche nell’ipotesi de qua, viene, poi, invocata la natura cautelare del sequestro preventivo e la sua attitudine intrinseca ad anticipare effetti limitativi dei diritti e delle libertà personali, che diversamente potrebbero prodursi solo a seguito di una sentenza di condanna definitiva. Sicché, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza di cui agli artt. 27, comma 2, Cost. e 6, par. 2, CEDU, qualsiasi provvedimento, in grado di incidere sulla sfera giuridica dei privati prima che si sia concluso un giusto processo, deve essere sorretto da una motivazione che espliciti i risultati del giudizio prognostico, condotto sul piano della sussistenza non solo del fatto contestato, ma anche delle esigenze cautelari.
La soluzione, favorevole ad un onere di motivazione specifica in punto di periculum, è altresì imposta – sempre ad avviso del Collegio – dal necessario rispetto del principio di proporzionalità cui la stessa giurisprudenza di legittimità ha già ritenuto di doversi conformare in ipotesi di compressione del diritto di proprietà finalizzata al sequestro probatorio. In particolare, la Corte rinvia a due precedenti arresti, emessi sempre a Sezioni unite[6], con i quali aveva ribadito che il sequestro – in quanto idoneo a limitare il libero esercizio di diritti costituzionalmente garantiti – deve essere disposto solo in via residuale, in assenza di alternative ugualmente efficaci ma meno invasive. In altri termini, alla luce delle statuizioni contenute nei suddetti arresti, il vincolo di indisponibilità, imposto sul bene con il sequestro, proprio in quanto capace di incidere con forza sui diritti del singolo, deve essere necessariamente sorretto da una motivazione esplicativa delle ragioni che giustificano il sacrificio del diritto individuale a vantaggio di interessi della collettività. Ciò è tanto più essenziale in quanto, diversamente, l’esercizio anticipato del potere ablatorio sfuggirebbe a qualsivoglia controllo, alimentando così il rischio di provocare indebite e vessatorie compressioni dei diritti fondamentali.
Ad ulteriore riprova dell’opportunità che il giudice si ispiri a canoni di proporzionalità, la sentenza in disamina ha valorizzato le fonti sovranazionali, di natura sia legislativa sia giurisprudenziale. Più nel dettaglio, le Sezioni unite hanno rammentato che la Corte europea dei diritti dell’uomo si è soffermata – in numerose occasioni[7] – ad accertare che lo Stato convenuto, nel pregiudicare il libero godimento del diritto di proprietà da parte del singolo, avesse rispettato il principio di proporzionalità. A ciò si aggiunge il ruolo centrale rivestito da tale principio nel diritto dell’Unione europea, come dimostrato, anzitutto, dall’art. 52, par. 1 della Carta di Nizza, che lo include espressamente tra i presupposti di legittimità delle limitazioni eventualmente imposte all’esercizio dei diritti sanciti dalla Carta stessa; e, poi, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[8], che ha annoverato la proporzionalità tra i principi generali del diritto dell’Unione, cui devono conformarsi gli strumenti istituiti a livello europeo.
La rilevanza dei criteri di proporzionalità nel diritto sovranazionale traspare, altresì, da alcuni atti legislativi adottati dalle istituzioni europee, quali, in particolare, il Regolamento 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca in materia penale[9], nonché la Direttiva 2014/42/UE, in tema di congelamento e confisca di beni strumentali e proventi del reato all’interno dell’Unione[10].
Dopo avere affrontato tali profili, le Sezioni unite procedono a verificare la compatibilità della soluzione prospettata con la formulazione testuale dell’art. 321, comma 2, c.p.p. A tal fine, non viene considerata affatto ostativa la mancata specificazione normativa del presupposto che deve essere oggetto di motivazione, puntualizzato, invece, per il sequestro impeditivo. E ciò in quanto – spiega il Collegio – la scelta del legislatore di prevedere una formula generica – quale «cose di cui è consentita la confisca» – lungi dall’essere passibile di critica, ha il pregio di adattarsi alla natura ormai “proteiforme” della confisca, la quale racchiude in un unico nomen iuris istituti caratterizzati dalle finalità più disparate[11].
Parimenti, la Corte di cassazione nega che l’onere di motivare, in punto di periculum, anche il sequestro finalizzato alla confisca mal si concili con la presenza – nel testo del secondo comma dell’art. 321, c.p.p. – dell’avverbio “altresì”, smentendo, in tal modo, la giurisprudenza aderente al primo orientamento, incline, invece, a ravvisarvi la conferma normativa dell’esclusione del suddetto onere. Invero – proseguono, ancora, le Sezioni unite – qualora il legislatore, nel caso di cui al secondo comma dell’art. 321 c.p.p., avesse voluto affrancare del tutto il giudice dalla necessità di esplicitare le ragioni fondanti il pericolo connesso alla libera disponibilità del bene, avrebbe utilizzato un avverbio di valore avversativo, anziché aggiuntivo. Pertanto, considerata l’attuale formulazione della norma, all’avverbio “altresì” deve attribuirsi la funzione di consentire che, oltre al sequestro impeditivo, possa essere disposto anche quello finalizzato alla confisca.
5. Una volta escluso che l’apparato giustificativo, cui ancorare il provvedimento di sequestro ex art. 321, comma 2, c.p.p., possa coincidere con la mera confiscabilità del bene, le Sezioni unite hanno provveduto a delineare il contenuto dell’onere motivazionale, riconosciuto in capo al giudice della cautela.
Stante l’autonomia di natura e funzione sussistente tra i primi due commi dell’art. 321 c.p.p., la motivazione del sequestro finalizzato alla confisca non deve certamente vertere sulla pericolosità connessa alla libera disponibilità del bene in termini di incentivo a delinquere, poiché, altrimenti, l’istituto di cui al secondo comma finirebbe per essere, di fatto, privato di qualsiasi funzione propria, venendo assorbito nel sequestro impeditivo.
Per individuare correttamente l’oggetto dell’onere motivazionale occorre, dunque, soffermarsi sulla specifica esigenza che tale forma di sequestro ha il compito di soddisfare. Atteso che la misura de qua funge da garanzia di efficacia dell’eventuale successiva confisca, in quanto anticipa il vincolo di indisponibilità sulla res che alla stessa è proprio, il giudice della cautela deve conseguentemente esplicitare gli elementi rivelatori del rischio che l’atto espropriativo, nelle more della definizione del giudizio, divenga concretamente inattuabile.
Non acquisisce, invece, alcun rilievo la circostanza che la confisca, cui il bene da sequestrare può essere assoggettato, sia qualificata ex lege come facoltativa ovvero obbligatoria. E ciò, poiché mancano, anzitutto, criteri univoci, utili a stabilire in via generale quando ricorra l’una o l’altra ipotesi, giacché la relativa distinzione risulta sempre più dipendente dalla mera scelta del legislatore in merito alle categorie di reati cui ricollegarle, con la conseguente impossibilità di elaborare «una “dogmatica” della confisca»[12].
Rileva, ancora, la sentenza in esame come sia proprio l’oggetto dell’onere di motivazione, richiesto in sede cautelare, a rendere indifferente la suddetta distinzione tra confisca facoltativa o obbligatoria, dal momento che l’assenza di discrezionalità per il giudice, chiamato ad apporre il vincolo di indisponibilità a seguito di condanna, non sarebbe comunque idonea a giustificare l’anticipazione di tale effetto ad una fase precedente[13], tra l’altro quasi sempre meramente procedimentale.
6. L’unica eccezione ammessa, che non smentisce ma anzi conferma la ragionevolezza delle argomentazioni offerte dalla Corte, è rappresentata dalle cose che, ai sensi dell’art. 240, comma 2, n. 2, c.p., devono sempre essere confiscate in quanto intrinsecamente pericolose. In tale caso, infatti, proprio una simile pericolosità intrinseca – in ragione della quale è ammessa la confisca anche in assenza di una pronuncia di condanna – costituisce il presupposto per l’esercizio anticipato del potere ablatorio. Pertanto, il giudice della cautela potrà limitarsi a dar conto, nel provvedimento applicativo del sequestro, dell’accertata inclusione del bene tra quelli confiscabili ai sensi dell’art. 240, comma 2, n. 2 c.p., perché la motivazione in punto di periculum si consideri integrata in re ipsa.
Ad avviso delle Sezioni unite, tale conclusione rappresenta una «soluzione, per così dire, “obbligata”», alla luce di quanto già dalle stesse precedentemente affermato in merito al divieto di restituzione[14], disciplinato dall’art. 324, comma 7, c.p.p. Invero, anche con riferimento a quest’ultimo, i giudici di legittimità avevano ritenuto che – nonostante il rinvio testuale a tutte le ipotesi di confisca obbligatoria, di cui all’art. 240, comma 2, c.p. – solo le res intrinsecamente pericolose potessero giustificare il suddetto divieto di restituzione, sul presupposto che, trattandosi di beni di natura illecita, non è mai consentita la relativa retrocessione.
7. Le argomentazioni sviluppate dalle Sezioni unite meritano condivisione in quanto capaci di garantire il maggiore livello di tutela ai diritti individuali, suscettibili di compressione in sede di applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Invero, l’onere di esplicitare in motivazione gli elementi fondanti l’esercizio anticipato del potere espropriativo favorisce un controllo più approfondito sulle scelte operate dal giudice e, in particolare, sul rispetto del principio di proporzionalità, che – come ribadito dalla Corte – deve ispirarne l’operato.
L’attuale natura polimorfa della confisca suggerisce, infine, un’ultima considerazione.
Come noto, infatti, il suddetto istituto, originariamente coincidente con la sola fattispecie contemplata dall’art. 240 c.p., si estende ormai fino a ricomprendere ipotesi nelle quali la relazione tra il reato e la res appare sempre più evanescente.
Se si considera che, in ossequio alla formulazione testuale del secondo comma dell’art. 321 c.p.p., anche tali più recenti tipologie di confisca sono incluse nell’ambito di operatività del sequestro preventivo, risulta quanto mai opportuno che la soluzione accolta dalle Sezioni unite nella pronuncia de qua venga a fortiori applicata all’adprehensio anticipata di beni privi di un legame diretto con il reato, quali – ad esempio – quelli suscettibili di confisca “allargata” (o per sproporzione) ovvero per equivalente.
[1] In merito, la Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di rito chiarisce che l’attuale formulazione dell’art. 321 c.p.p. «riflette il punto d’arrivo di una approfondita discussione che faceva perno sulla strumentalità necessaria tra sequestro e confisca. Il proposito era quello di delimitare, mediante un rinvio alla nozione di “cose di cui è consentita la confisca”, l’area di operatività del sequestro preventivo, così da escludere che esso potesse trovare attuazione fuori dei confini segnati dall’art. 240 c.p. e dalle leggi speciali in cui è espressamente riconosciuto al giudice il potere di confisca».
[2] Cfr. Cass., Sez. VI, sent. 25 settembre 1992, n. 3343, in CED Cass., rv. 192862 – 01; Cass., Sez. I, sent. 23 giugno 1993, n. 2994, ivi, rv. 194824 – 01; Cass., Sez. VI, sent. 21 ottobre 1994 (dep. 1995), n. 4114, ivi, rv. 200854 – 01; Cass., Sez. II, sent. 26 giugno 2014, n. 31229, ivi, rv. 260367 – 01; Cass., Sez. III, sent. 17 settembre 2014, n. 47684, ivi, rv. 261242 – 01; Cass., Sez. III, sent. 15 aprile 2015, n. 20887, ivi, rv. 263408 – 01; nonché, più di recente, Cass., Sez. III, sent. 17 febbraio 2021, n. 12478, n.m.; Cass., Sez. III, sent. 13 luglio 2021, n. 34613, n.m.
[3] Cfr. Cass., Sez. VI, sent. 19 gennaio 1994, n. 151, in CED Cass., rv. 198258 – 01; Cass., Sez. VI, sent. 17 marzo 1995, n. 1022, ivi, rv. 201943 – 01; Cass. Sez. II, sent. 9 novembre 2011, n. 43325, n.m.; Cass. Sez. II, sent. 21 settembre 2016, n. 46389, n.m.; Cass. Sez. V, sent. 10 novembre 2017, (dep. 2018), ivi, rv. 271999 – 01; Cass., Sez. V, sent. 14 dicembre 2018 (dep. 2019), n. 6562, n.m.; Cass., Sez. V, sent. 22 luglio 2020, n. 25834, n.m.
[4] Più in generale, Cass., Sez. III, sent. 16 gennaio 2020, n. 10091, in CED Cass., rv. 278406 – 01, ha precisato che la natura cautelare della confisca facoltativa rende inadeguata una motivazione che si limiti a rilevare il mero asservimento tra la res ed il reato, senza spingersi a verificare se, secondo l’id quod plerumque accidit, la permanenza del bene nella sfera giuridica del soggetto possa rappresentare un incentivo alla reiterazione di condotte criminose.
[5] In tema di fumus commissi delicti, richiesto per l’applicazione delle misure cautelari reali, la giurisprudenza più recente afferma la necessità che il giudice non si limiti a verificare in astratto la sussumibilità del fatto contestato nel reato prospettato dall’accusa ma valuti se, alla luce delle risultanze investigative allo stato emerse, sussistano concreti elementi tali da consentire di ricondurre la condotta dell’indagato a quella oggetto dell’imputazione provvisoria (cfr. da ultimo Cass., Sez. VI, sent. 23 novembre 2017 (dep. 2018), n. 18183, in CED Cass., rv. 272927-01; Cass., Sez. I, sent. 30 gennaio 2018, n. 18491, ivi, rv. 273069-01; Cass., Sez. V, sent. 11 dicembre 2019 (dep. 2020), ivi, rv. 278152-01; Cass., Sez. III, sent. 26 maggio 2021, n. 32399, n.m.).
[6] Cass., Sez. un., sent. 28 gennaio 2004, n. 5876, Bevilacqua, in CED Cass., rv. 226713 – 01; Cass., Sez. un., sent. 19 aprile 2018, n. 36072, Botticelli, ivi, rv. 273548 – 01.
[7] Più nel dettaglio, la Corte di cassazione cita Corte eur. dir. uomo, sent. 21 febbraio 1986, James e altri c. Regno Unito; Corte eur. dir. uomo (GC), sent. 5 gennaio 2000, Beyeler c. Italia; Corte eur. dir. uomo (GC), sent. 16 luglio 2014, Alisic c. Bosnia Erzegovina.
[8] In tema, la Suprema Corte richiama Corte Giust. U.E., sent. 3 dicembre 2019, C-482/17, nonché Corte Giust. U.E., sent. 8 giugno 2010, C-58/08, punto 51.
[9] In particolare, l’art. 1 par. 3 del suddetto Regolamento prevede che: «nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, le autorità di emissione assicurano il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità».
[10] La Suprema Corte menziona in merito il considerando 17, nel quale il principio di proporzionalità è espressamente citato in tema di confisca per equivalente, nonché il considerando 18, nel quale è attribuita agli Stati membri la possibilità di prevedere che, in circostanze eccezionali, non sia ordinata la confisca qualora, conformemente al diritto nazionale, la stessa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato.
[11] In tema, G. Varraso, Il sequestro a fini di confisca: dalle scelte del codice del 1988 alla legge n. 161 del 2017, in Dir. pen. cont., 12 gennaio 2018, evidenzia che la formulazione testuale dell’art. 321, comma 2, c.p.p., del tutto scevra da riferimenti ai presupposti cautelari del fumus e del periculum in mora, si giustifica in ragione dell’esistenza, al tempo in cui la norma è stata redatta, della sola forma di confisca di cui all’art. 240 c.p., caratterizzata dal vincolo di pertinenzialità tra la res ed il reato contestato.
[12] La Corte menziona, a titolo di esempio, la questione relativa alla confisca del profitto del reato, rilevando che, mentre l’art. 240, primo comma, c.p. la qualifica come facoltativa, nell’art. 322-ter, primo comma, c.p. la stessa viene resa obbligatoria.
[13] In merito, la Suprema Corte osserva puntualmente che «il fatto che la confisca sia stabilita come “obbligatoria” non basterebbe, evidentemente, a rendere “obbligatorio” anche il sequestro dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen.».
[14] Cfr. Cass., Sez. un., sent. 30 maggio 2019, n. 40847, Bellucci, in CED Cass., rv. 276690, in questa Rivista, 24 gennaio 2020, con nota di I. Guerini, Annullamento del sequestro probatorio e ambiti di operatività del divieto di restituzione dei beni.