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11 Luglio 2022


Gli incerti rapporti tra non punibilità per particolare tenuità del fatto e reato continuato nella giurisprudenza di legittimità: la soluzione fornita dalle Sezioni Unite

Cass. sez. un., 27 gennaio 2022 (dep. 12 maggio 2022), n. 18891, Pres. Cassano, rel. De Amicis.



1. Il caso e la questione rimessa alle Sezioni Unite. Con la sentenza del 27 gennaio 2022, n. 18891, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato il problema della compatibilità tra la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ed il reato continuato. La questione è stata portata all’attenzione del massimo organo nomofilattico dalla quinta sezione a seguito del ricorso proposto dall’imputato che lamentava l’omessa applicazione da parte dei giudici di merito della suddetta causa di non punibilità[1].

Nello specifico, il ricorrente – condannato in primo e secondo grado per aver commesso più delitti di violenza privata in continuazione, consistiti nell’aver posizionato per tre volte, nell’arco temporale ricompreso tra il 19 marzo ed il 19 aprile 2016, il proprio veicolo sulle corsie di accesso dell’area di servizio gestita dal fratello, in tal modo ostruendo il servizio ai clienti – censurava che tale beneficio fosse stato negato sulla base dell’asserita e non meglio motivata incompatibilità tra l’art. 131 bis c.p. e la disciplina prevista per il reato continuato.

I giudici, dopo aver accertato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto, hanno rimesso la questione alle Sezioni Unite, le quali hanno aderito all’indirizzo interpretativo che ne afferma l’astratta compatibilità, per certi versi anche aumentandone la portata (salvo però escludere la concessione del beneficio nel caso di specie a causa del carattere seriale delle condotte).

Per comprende appieno la motivazione fornita dalla Corte - sfociata nell’affermazione di due principi di diritto[2] - oltre che la sua effettiva utilità pratica, appare opportuno soffermarsi in via preliminare sui tratti caratteristici dei due istituti giuridici al centro della questione, allo scopo di inquadrare correttamente le ragioni alla base del contrasto interpretativo ed il modo in cui è stato risolto.

 

2. Cenni sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto e sul reato continuato. La causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. trova applicazione in presenza di fatti che, pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli manifestano un’offensività scarsa, tale per cui non risultano in concreto meritevoli di sanzione[3].

Muovendo dalla premessa per cui l’«indistinta sanzione detentiva» attraverso cui reagisce il sistema si manifesta sempre più spesso inadatta, anche alla luce della «tendenza attuale del diritto penale a rivolgersi a tipi di autore sempre meno anormali sul piano criminologico»[4], l’art. 131 bis c.p. mira a dare attuazione ai principi di proporzione ed extrema ratio attribuendo al giudice il potere di depenalizzare in concreto fatti di minima gravità da individuare attraverso una selezione che tenga conto, oltre che del fatto storico nel suo insieme, anche di aspetti di natura soggettiva, in accordo alla concezione secondo cui ogni illecito penale è realizzabile in forma graduabile e quindi può risultare in concreto anche lieve[5].

L’istituto è soggetto a presupposti e a limiti applicativi oggettivi e soggettivi che devono sussistere congiuntamente e la cui valutazione è in parte compiuta a monte dal legislatore, in parte rimessa all’apprezzamento del giudice.

Volendo sintetizzare al massimo, sul versante oggettivo, un primo limite all’operatività dell’istituto è dato dal quantum di pena massima. La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile solo a quei reati puniti esclusivamente con pena pecuniaria, con la pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni (sola o congiunta a pena pecuniaria), nonché ai reati per i quali la pena detentiva minima (solo o congiunta a quella pecuniaria) non è stabilita[6].

In tali casi, laddove il giudice ritenga di considerare l’offesa particolarmente tenue, l’art. 131 bis c.p. è applicabile indipendentemente dal tipo di reato commesso (quindi anche se si tratta di c.d. reati soglia e di reati di pericolo[7]), salvi i casi indicati dal secondo comma per i quali il legislatore ha escluso a monte la possibilità di ritenere l’offesa particolarmente tenue. 

Ai fini della determinazione della particolare tenuità dell’offesa, il giudice deve attenersi a due “indici-requisiti”, rappresentati dalla modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo da valutarsi ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p.[8]

Quanto al presupposto soggettivo, è necessario che il comportamento non risulti abituale, circostanza che è esclusa nelle ipotesi previste dal comma 3 dell’art. 131 bis c.p., ossia nel caso in cui il reo sia un delinquente dichiarato abituale, professionale o per tendenza, abbia commesso più reati della stessa indole (anche se ciascun fatto isolatamente considerato sia di particolare tenuità), nonché nell’ipotesi di reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.

Sulla scorta dell’interpretazione fornita dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 13681/2016 – sulla quale, peraltro, si avrà modo di tornare in seguito – l’elencazione fornita dalla norma deve considerarsi tassativa[9], essendo finalizzata ad escludere dall’ambito di operatività della particolare tenuità del fatto solo i comportamenti “seriali”.

Quest’ultimo è un concetto più ampio dell’“occasionalità” (richiesta ai fini dell’applicazione dell’istituto affine di cui all’art. 34 d.lgs. n. 274/2000 dinanzi al giudice di pace), la quale lascia invece intendere «qualcosa che sia realmente isolato nel tempo»[10].

Passando al reato continuato, come noto, a partire dalla riforma del 1974, la sua disciplina trova applicazione quando, con più azioni diverse, sono commesse – anche in tempi diversi - più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge in esecuzione di un medesimo disegno criminoso[11].

Il reato continuato, in altri termini, è un concorso materiale (omogeneo o eterogeneo) arricchito dalla presenza di un medesimo disegno criminoso[12], cui l’art. 81 comma 2 c.p. ricollega, ai fini della determinazione della pena, l’applicazione del più favorevole cumulo giuridico, in ragione della minore riprovevolezza di chi cede una sola volta agli impulsi criminosi[13].

Al reato continuato, dunque, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo.  

Secondo la tesi prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, i reati avvinti dal vincolo della continuazione devono essere considerati come un unico reato o come una vera e propria pluralità di reati autonomi e diversi in funzione del carattere più o meno favorevole degli effetti che ne discendono nei confronti del reo (salvo che sia la legge a disporre diversamente, come accade, ad esempio, in materia di quantificazione della pena e di prescrizione[14]).  Ciò, in omaggio alla finalità della figura, la quale nasce per attenuare il rigore delle conseguenze sanzionatorie che la disciplina del cumulo materiale avrebbe comportato, sicché, in definitiva, si pone quale strumento per arrivare ad un risultato meno afflittivo di quello che altrimenti si sarebbe avuto[15].

Da tanto discende che, se per un verso il giudice è tenuto a riconoscere il vincolo della continuazione in presenza del medesimo disegno criminoso, per altro, dovrà continuare a considerare i reati singolarmente tutte le volte in cui dall’applicazione di una disciplina unica derivano conseguenze negative, fino a spingersi a sciogliere il vincolo nel corso dell’esecuzione della pena[16].

In altri termini, l’accertamento del medesimo disegno criminoso ed il riconoscimento del vincolo della continuazione non snatura l’autosufficienza dei singoli reati commessi, salvo che non sia il legislatore a prescriverlo o che da una valutazione unitaria degli stessi possano derivare effetti in bonam partem.

Superato il dibattito in ordine alla natura giuridica del reato continuato[17], oggi si ritiene che, per quanto non espressamente previsto dalla legge, l’individuazione delle conseguenze derivanti dal riconoscimento della continuazione non può discendere dalla qualificazione formale del reato continuato come reato unico o pluralità di reati, dovendo, per contro, derivare unicamente dal principio del favor rei[18].

 

3. Profili di interazione tra 131 bis e reato continuato. La tesi dell’incompatibilità tra i due istituti. Le coordinate appena tracciate svelano due possibili profili di interazione tra la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. ed il reato continuato.

Ragionando in astratto, un potenziale profilo di incompatibilità tra i due istituti potrebbe essere rappresentato dal requisito oggettivo richiesto dall’art. 131 bis c.p., quantomeno se si propende per un’interpretazione testuale del dato normativo.

La disposizione, infatti, nello stabilire che «la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo […], l’offesa è di particolare tenuità» sembra disvelare una incompatibilità strutturale tra la “particolare tenuità del fatto” e la struttura della “continuazione” che si compone di una pluralità di reati[19]

Senonché, una interpretazione del dato normativo fedele all’intenzione del legislatore impone di considerare non il tipo legislativo bensì il fatto concreto, atteso che la novella «intende riferirsi alla connotazione storica della condotta» e all’«entità del suo complessivo disvalore»[20].

Stando così le cose, si comprende agevolmente il motivo per il quale il dibattito attorno alla compatibilità in astratto tra 131 bis c.p. e reato continuato si sia principalmente incentrato sul requisito della non abitualità del comportamento.

Sul punto, una parte della giurisprudenza, muovendo dalla premessa secondo cui l’indicazione di abitualità fornita dall’art. 131 bis comma 3 c.p. non presuppone un pregresso accertamento in sede giudiziaria, ben potendo essere oggetto di valutazione anche condotte prese in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento, ha concluso che, in presenza di più reati avvinti dal vincolo della continuazione, la causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. non potrebbe mai trovare applicazione in quanto la reiterazione di condotte penalmente rilevanti costituisce di per sé il segno di una devianza abituale, potendo integrare alternativamente la categoria dei più reati della stessa indole ovvero dei reati avanti ad oggetto condotte plurime e reiterate [21].

 

4. (Segue) La tesi della compatibilità: osservazioni dottrinali e “ripensamenti” giurisprudenziali. L’orientamento sinteticamente riassunto nel paragrafo precedente è stato da subito oggetto di critiche in dottrina.

Le obiezioni si sono mosse principalmente in due direzioni. In primo luogo, sono state evidenziate le irragionevolezze di carattere sistematico derivanti dall’adesione alla tesi dell’incompatibilità; su altro fronte, è stato osservato che l’orientamento restrittivo travisa il significato dell’elencazione (tassativa) contenuta nel comma 3 dell’art. 131 bis c.p., finendo per sminuire la portata dell’innovazione legislativa.

Quanto al primo aspetto, si è detto che il connubio “reato continuato – non punibilità per particolare tenuità del fatto” rappresenta un «ossimoro apparente»[22], risultando invece ben più problematico accettare che dall’operatività di un istituto di favore, quale il reato continuato, possa derivare una automatica preclusione per l’applicazione di una norma che presenta la medesima ratio di favore[23].

L’insoddisfazione, peraltro, cresce quanto più si approfondisce il confronto tra i due istituti: in presenza del vincolo della continuazione, infatti, il legislatore prevede un più benevolo trattamento sanzionatorio in ragione della minor colpevolezza di chi si determina ad agire in considerazione di un solo impulso criminoso, sicché è totalmente irragionevole ritenere che colui il quale ha agito con un minor grado di colpevolezza non possa vedersi riconoscere un beneficio che trova applicazione (anche) sulla scorta dell’intensità del dolo.

Un ulteriore motivo di criticità, infine, è dato dalla riconosciuta compatibilità della figura con il concorso formale di reati[24].

In tal senso, si osserva che non risulta meritevole di un diverso trattamento chi con la medesima condotta commette più reati rispetto a chi realizza – anche in tempi diversi – più violazioni di legge in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, atteso che, in entrambe le situazioni, è l’unicità della deliberazione delittuosa a fondare lo stesso trattamento sanzionatorio che, a sua volta, costituisce elemento sintomatico di un eguale disvalore[25].

 

Come anticipato, le critiche mosse all’orientamento che esclude in astratto la compatibilità tra il reato continuato e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto hanno investito anche l’impostazione per cui la presenza di più reati avvinti dal vincolo della continuazione integrerebbe sempre una delle ipotesi di comportamento abituale elencate dall’art. 131 bis comma 3 c.p.

Trattandosi di un argomento ampiamente approfondito dalla pronuncia in commento, se ne parlerà nel paragrafo che segue.

Per il momento basti osservare che l’oggetto della critica attinge alla premessa da cui muove l’assunto, rappresentata dall’equiparazione tra “non abitualità del comportamento” ed “unicità della violazione”: un’impostazione che «oltre a forzare il dato testuale, non sembra riflettere la volontà storica del legislatore» che ha volutamente esteso la portata dell’istituto, rendendolo applicabile anche a chi non sia un reo «primario ed occasionale»[26].

Le considerazioni che precedono hanno indotto la dottrina (prima) e la giurisprudenza (poi) al progressivo e parziale abbandono della tesi dell’incompatibilità tra i due istituti.

Mentre alcuni autori hanno proposto di superare lo “sbarramento” rappresentato dall’abitualità del comportamento attraverso il ricorso alla concezione unitaria del reato continuato[27], altri hanno invece osservato che i reati uniti dal vincolo della continuazione non coincidono di per sé con il significato tecnico ordinariamente attribuito all’abitualità del reato, concludendo per la necessità di una valutazione in concreto[28].      

I rilievi critici e le argomentazioni dottrinali a favore della compatibilità tra reato continuato e 131 bis c.p., hanno avuto una parziale e forse inconsapevole eco anche in giurisprudenza.

Nel diritto vivente, infatti, si è affermato un orientamento incline a riconoscere la compatibilità tra i due istituti, quantomeno nelle ipotesi di c.d. continuazione sincronica, cioè in quei casi in cui il reato continuato si atteggia come «sostanzialmente unico, essendo composto di fattispecie poste in essere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima persona, sicché è rivelatore di una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131 bis c.p.»[29].

 

5. La soluzione fornita dalle Sezioni Unite. Il contrasto interpretativo appena descritto e le potenziali disparità di trattamento dipendenti dall’adesione all’uno o all’altro orientamento hanno reso necessario l’intervento della Cassazione a Sezioni Unite che - come preannunciato in apertura - ha negato che tra reato continuato e causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sussista incompatibilità in astratto.

Il ragionamento seguito dalla Cassazione ripercorre il dibattito appena riassunto, facendo proprie le obiezioni di carattere sistematico - già sintetizzate nel paragrafo precedente - con riferimento alla irragionevolezza dell’orientamento restrittivo in rapporto alla ratio delle due figure e all’indirizzo interpretativo che riconosce la configurabilità dell’art. 131 bis c.p. nelle ipotesi di concorso formale di reati[30].

Quanto ai problemi di natura strutturale relativi ai rapporti tra la continuazione e la condizione ostativa costituita dall’abitualità del comportamento, invece, le Sezioni Unite adottano una soluzione che si pone in linea di continuità con il precedente arresto del 2016[31] (più volte citato nel corso del presente lavoro e sul quale è arrivato il momento di soffermarsi).

In quell’occasione, infatti, il massimo organo nomofilattico non si è limitato a ribadire che il concetto di “non abitualità” deve essere inteso quale “non serialità” dei comportamenti, ma ha anche fornito una puntuale descrizione delle ipotesi che il legislatore ha inteso qualificare ex lege come comportamenti “seriali”, attribuendo valore tassativo all’elencazione di cui al comma 3 dell’art. 131 bis c.p.

Le conclusioni raggiunte in quella sede possono essere così sintetizzate. In presenza di più reati della stessa indole ex art. 101 c.p., il comportamento deve ritenersi abituale laddove il soggetto abbia commesso – anche in tempi successivi a quello per il quale si procede – almeno due illeciti (oltre a quello oggetto del giudizio) che si trovino al cospetto del giudice, il quale dunque è in grado di valutarne l’esistenza.

La locuzione “reati abituali” e “a condotte reiterate” va riferita rispettivamente agli illeciti che presentano l’abitualità o la reiterazione delle condotte come tratto tipico (necessario o eventuale).

Infine, si è in presenza di un reato a condotte plurime nel caso di ripetute e distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti[32].

Muovendo dalla premessa per cui solo in questi casi il comportamento deve ritenersi abituale, la pronuncia in commento conclude nel senso più ovvio, affermando che il concetto di “reati della stessa indole” è certamente più ristretto di quello di reato continuato (attesa la possibilità che il vincolo della continuazione sia riconosciuto anche tra reati totalmente eterogenei tra loro nonché in presenza di solo due illeciti), con la conseguenza che non può ritenersi operante alcuna preclusione automatica rispetto alla causa di non punibilità in esame[33].

Il punto certamente più critico, però, attiene alla valutazione volta a verificare se la nozione di continuazione rientri o meno in astratto all’interno della definizione del concetto di reati a condotte plurime, abituali o reiterate, posto che - soprattutto con riferimento ai reati a condotte plurime - l’indicazione interpretativa data dalla pronuncia del 2016 appare di difficile comprensione.

Rispetto a questo dato, la soluzione fornita dalla sentenza in esame pone l’accento in via principale sul dato testuale del terzo comma dell’art. 131 bis. Si afferma, infatti, che attraverso l’utilizzo del termine “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate” il legislatore ha inteso fare riferimento «non alle ipotesi di concorso di reati, quanto, invece, (…) a quelle situazioni concrete in cui il singolo reato viene realizzato attraverso una pluralità di modelli comportamentali» e ciò perché «il riferimento al carattere plurimo contraddistingue le condotte, non già i reati, come invece accade nelle ipotesi di continuazione»[34].

Gli illeciti avvinti dal vincolo della continuazione, dunque, non rientrano nella categoria del reato abituale, né in quella del reato a condotte reiterate o a condotte plurime. Piuttosto, sarà compito del giudice valutare in concreto, attraverso un accertamento da condurre “caso per caso” se i reati posti alla sua attenzione siano almeno tre ed appartengano alla categoria dei reati della stessa indole: solo in questo caso sarà integrato il requisito ostativo dell’abitualità del comportamento[35].

In altri termini, secondo le Sezioni Unite, il carattere dell’abitualità non si identifica con la continuazione, ma va accertato sulla base delle indicazioni che sono state fornite per parte dal legislatore e, per altra parte, sviluppate dalla giurisprudenza di legittimità.

Da tanto deriva il superamento anche dell’orientamento che riconosceva la compatibilità tra 131 bis e reato continuato nei soli casi di continuazione sincronica: «nulla osta, infatti, all’applicazione della disposizione a reati verificatisi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in contesti spazio-temporali del tutto differenti» sempreché «rechino in sé un’offesa di particolare tenuità al bene protetto»[36].

La pronuncia, infatti, dopo aver affermato che la continuazione non si identifica necessariamente con l’abitualità del comportamento, sposta l’attenzione sulla necessità di verificare la sussistenza del requisito di carattere oggettivo rappresentato dalla particolare tenuità dell’offesa – spesso posto in secondo piano rispetto al tema in questione – attraverso una valutazione di tutte le circostanze oggettive e soggettive del caso concreto e, in particolare: della natura e della gravità degli illeciti in continuazione, della tipologia dei beni giuridici protetti, dell’entità delle disposizioni di legge violate, delle finalità e delle modalità esecutive delle condotte, delle loro motivazioni e delle conseguenze che ne sono derivate, del periodo di tempo e del contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dell’intensità del dolo e dei comportamenti successivi ai fatti[37].

In ogni caso, è ragionevole presumere che, nonostante la rilevanza della decisione, lo spazio operativo del principio espresso dalle Sezioni Unite sarà nei fatti abbastanza scarso, e ciò nonostante la possibilità accordata al giudice di sciogliere la continuazione «quando la regola dell’unitarietà si riverberi in un danno o in una situazione di svantaggio per l’imputato»[38]

 

6. Osservazioni conclusive. Il modo in cui è stata risolta la questione interpretativa portata all’attenzione delle Sezioni Unite permette di trarre alcune conclusioni sia con specifico riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., sia di più ampio respiro.

In prima battuta, deve rilevarsi come la vicenda esaminata in questa sede costituisce l’ennesima conferma dei problemi che ha posto, fin dalla sua introduzione, la formulazione di cui all’art. 131 bis c.p.

La disposizione – che, secondo una lettura, avrebbe dovuto svolgere il ruolo di «mera regola orientativa di giudizio»[39] - ha finito per diventare una categoria formale, destinata inevitabilmente ad entrare in tensione con gli altri istituti già esistenti (come dimostrato dalla quantità di pronunce a Sezioni Unite emesse dal 2015 ad oggi).  

Rispetto a questo dato e ritenendo vera questa premessa, deve attribuirsi alla pronuncia in esame il merito di aver fornito una soluzione che, quanto meno rispetto allo specifico quesito portato all’attenzione, restituisce all’istituto la possibilità di funzionare nel modo più opportuno rispetto alla ratio di “depenalizzazione in concreto” che gli è propria, cioè secondo la logica del «Tutto – In – Concreto – Senza - Generalizzazioni»[40].

Per altro verso, la decisione in commento merita di essere apprezzata alla luce di considerazioni di carattere sistematico: le Sezioni Unite, infatti, hanno risolto il problema della compatibilità tra reato continuato e non punibilità per particolare tenuità del fatto ponendosi in linea di continuità con quanto affermato nel precedente arresto del 2016 ed in modo conforme alle indicazioni contenute nella c.d. riforma Cartabia[41].

L’art. 1 comma 21 della l. 27 settembre 2021, n. 134, infatti, nel dettare le prescrizioni per le “modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto” raccomanda al legislatore delegato di «dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa» (cfr. art. 1 comma 21 lett. b) l. n. 134/2021).

In tal senso, occorre quindi segnalare il passaggio della pronuncia che prescrive di valorizzare le condotte successive al reato quale ulteriore parametro da prendere in considerazione «nell’ambito del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, rilevando ai fini dell’apprezzamento della entità del danno ovvero come possibile spia dell’elemento soggettivo»[42], passaggio che contribuisce ad attenuare – in bonam partem -  quel solco tra “fatto” e “condotta di vita” del reo che si fa sempre meno profondo via via che aumenta la discrezionalità giudiziaria sul versante sanzionatorio

Quanto al concreto perimetro applicativo del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, deve anzitutto rilevarsi che le ipotesi in cui potrebbe assumere rilevanza l’interazione tra reato continuato e 131 bis c.p. sono principalmente quelle nelle quali il vincolo della continuazione viene riconosciuto in sede di cognizione laddove il giudice deve pronunciarsi in ordine a più reati contestati nell’ambito del medesimo procedimento. Viceversa, tale principio non avrà tendenzialmente spazio applicativo se la continuazione viene chiesta in sede di esecuzione oppure in sede di cognizione tra il reato per il quale si procede ed altri illeciti già giudicati.  

Nel primo caso, infatti, a fronte di più sentenze di assoluzione, non ci sarebbe la possibilità di adire il giudice dell’esecuzione; mentre in caso di una sentenza di condanna e di una sentenza di assoluzione ex art. 131 bis c.p. sarebbe preclusa la possibilità di applicare il vincolo della continuazione e di riconoscere l’art. 131 bis c.p. ad entrambi i fatti, pena la caducazione del giudicato già formatosi.

Quanto, invece, all’ipotesi in cui si chieda la continuazione e la contestuale applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto al giudice della cognizione rispetto all’illecito per cui si procede ed altri fatti già giudicati, se c’è stata sentenza di assoluzione, la richiesta non ha ragione di essere formulata. Se, invece, c’è stata sentenza di condanna, la richiesta dovrà necessariamente essere respinta e ciò non solo se si tratti di sentenza passata in giudicato, ma anche se la sentenza è ancora impugnabile, atteso che, a ritenere diversamente, si finirebbe per violare il principio di tipicità dei mezzi di impugnazione.

Tanto premesso, tenuto conto che in astratto e quantomeno nei casi in cui il riconoscimento del vincolo della continuazione non è chiesto dalle parti processuali, nulla vieterebbe al giudice della cognizione di applicare l’art. 131 bis c.p. singolarmente per ciascuno dei reati contestati (laddove ritenga sussistenti i presupposti di natura oggettiva e soggettiva), l’utilità pratica della soluzione adottata dalle Sezioni Unite dovrebbe risiedere nel fatto che riconoscere sia il vincolo della continuazione sia l’art. 131 bis c.p. porterebbe ad applicare la suddetta causa di non punibilità una sola volta determinando un esito più favorevole per il reo, atteso che la decisione è destinata ad essere annotata nel casellario giudiziario.

Peraltro, così come potrebbe accadere che il giudice decida di sciogliere la continuazione laddove ritenga di considerare “particolarmente tenui” solo alcuni degli illeciti accertati, allo stesso modo, non possono escludersi casi in cui proprio il vincolo della continuazione determini il giudice verso l’applicazione della causa di non punibilità: se è vero che l’aver agito in esecuzione di un medesimo disegno criminoso implica minor colpevolezza, è intuibile che, nei casi “dubbi”, la continuazione può portare ad applicare il beneficio rispetto a fatti che, se commessi in esecuzione di una pluralità di spinte criminose autonome, forse non sarebbero ritenuti di speciale tenuità.

Come sempre accade, però, ogni soluzione presenta vantaggi e svantaggi. Il rovescio della medaglia della pronuncia in esame probabilmente risiede nel procedimento che il giudice è chiamato a seguire per valutare se riconoscere la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. in caso di continuazione.

La sentenza non prende esplicita posizione sul punto. Tuttavia ci sembra che l’unica strada percorribile imponga di procedere nel seguente modo.

Occorrerà che il giudice verifichi per ciascun reato, isolatamente considerato, il rispetto del limite relativo al quantum di pena.

Successivamente dovrà valutare ancora gli illeciti nella loro dimensione plurima onde capire se è rispettato il requisito della “non abitualità del comportamento” e se ciascun fatto sia di particolare tenuità.

Infine, adotterà una visione di insieme per comprendere se anche la vicenda nella sua globalità possa o meno essere considerata di “particolare tenuità”, ferma restando comunque la possibilità di continuare a considerare tutti o alcuni degli illeciti per cui si procede in modo autonomo laddove il giudice ritenga di applicare la causa di non punibilità solo per alcuni di essi[43].

Se questa ricostruzione dovesse essere vera, la soluzione delle Sezioni Unite acquisterebbe il sapore di una forzatura rivelandosi, forse, troppo artificiosa per consentire un’applicazione piana e quindi prevedibile.

Infatti, nonostante la tesi prevalente ritenga, come si è detto, il reato continuato un “ibrido” che permette di considerare gli illeciti in continuazione in modo unitario o plurimo a seconda del carattere più o meno favorevole degli effetti che ne discendono nei confronti del reo (salvo che sia la legge a disporre diversamente), ritenere che rispetto all’applicazione del medesimo istituto – e quindi nel medesimo contesto logico-ricostruttivo - il giudice sia chiamato ad adottare ora l’una, ora l’altra delle concezioni o, addirittura, a valutare in modo unitario alcuni illeciti ed in modo autonomo altri, potrebbe rivelarsi un artificio che, oltre ad iniettare ulteriori dosi di complessità nel sistema, rischia di aprire – anche più – un varco per vanificare le buoni intenzioni delle Sezioni Unite.

 

[1] Sez. V, ord. 8 ottobre 2021, n. 38174 con commento di E. Zuffada, Alle Sezioni Unite la questione relativa all’applicabilità della particolare tenuità del fatto al reato continuato, in Sistema Penale, 19 novembre 2021.

[2] Per comodità si riportano i principi di diritto espressi da Sez. Un., 27 gennaio 2022, n. 18891 : «La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131 bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale. In presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall’art. 131 bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura della gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti».

[3] In argomento, tra i tanti contributi sul tema, si veda: Amarelli, voce Particolare tenuità del fatto (diritto penale), in Enc. dir., Annali, X, 2017, pp. 557-580; Mantovani, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Giust. Pen., 7, 2015, pp. 321 e ss.; Rampioni, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2, 2016, pp. 459 e ss.; Gaeta, Macchia, Tra nobili assiologie costituzionali e delicate criticità applicative: riflessioni sparse sulla non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, in Cass. Pen., 7-8, 2015, pp. 2595 e ss.; Pomanti, La clausola di particolare tenuità, in Arch. Pen., 2, 2015, pp. 26 e ss. Nella manualistica si veda: Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Giappichelli, 2021, pp. 593 e ss., Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2019, pp. 826 e ss., Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2018, pp. 446 e ss.

[4] Così Donini, op. cit., pp. 80-81.

[5] Per una completa analisi delle diverse funzioni che l’istituto è chiamato a svolgere, si rinvia a Amarelli, voce cit., pp. 577 e ss. Per un’approfondita analisi del fenomeno della scissione tra reato e punibilità, si rinvia a Donini, Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e non punibilità, in Ind. Pen., 2003, pp. 75 e ss.   

[6] Ciò è quanto risulta a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza del 21 luglio 2020, n. 156 ha dichiarato l’art. 131 bis c.p. parzialmente incostituzionale nella parte in cui precludeva l’operatività dell’istituto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena. La pronuncia è stata oggetto di svariati commenti, in questa sede si rinvia a: Bove, La particolare tenuità del fatto e i reati senza il minimo edittale di pena detentiva: la Corte decide per l’illegittimità costituzionale parziale, in dir. pen. e proc., 12, 2020, pp. 1562 e ss.  

[7] Il punto, in passato controverso, è stato risolto in senso affermativo dalle già citate: Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681 con nota di Amarelli, Le Sezioni Unite estendono l’ambito di operatività dell’art. 131 bis c.p. ai reati con soglie di punibilità, in Dir. pen. proc., 6, 2016, pp. 782 e ss. e Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13682 in Cass. Pen., 6, 2016, pp. 2388 e ss. 

[8] La dottrina immediatamente successiva alla riforma non ha mancato di esprimere criticità in ordine all’eccessiva discrezionalità attribuita al giudice nell’accertamento della particolare tenuità dell’offesa, sottolineando come ai fini del giudizio nessun apporto potrebbe essere fornito dal primo comma dell’art. 133 c.p. che «sancisce (sì) i parametri della gravità del reato commesso (ma) al fine della commisurazione della pena». Così, Rampioni, La non punibilità, cit., p. 467. 

[9] La relazione al decreto legislativo n. 28/2015, invece, qualificava come soltanto esemplificative le indicazioni fornite dall’art. 131 bis comma 3 c.p.

[10] Così Pomanti, La clausola di particolare tenuità, cit., p. 17. Nello stesso senso, peraltro, si esprime la relazione al decreto legislativo.  

[11] Sull’argomento si vedano: Coppi, voce Reato continuato, in Dig. D. pen., vol. XI, Utet, 1996, pp. 222 e ss.; N. Mazzacuva, Ambrosetti, voce Reato continuato, in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 1992; M. Romano, Commentario sistematico al codice penale, vol. I, Giuffré, 1995, p. 717 e ss.; V. Zagrebelsky, voce Reato continuato, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Giuffrè, 1987, pp. 839 e ss. Nella manualistica si vedano: Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., pp. 710 e ss.; Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale cit., pp. 571 e ss., Ramacci, Corso di diritto penale, vol. II, Giappichelli, 1993, pp. 235 e ss.     

[12] Secondo la tesi prevalente, tale requisito sussiste quando i diversi fatti criminosi si pongono tra loro in un rapporto di interdipendenza funzionale rispetto al conseguimento di un unico fine e quando tale interdipendenza, a sua volta, si estrinseca in una serie di dati obiettivi. Ciò presuppone la preventiva rappresentazione delle diverse violazioni che si pongono in essere, ma non implica anche che ciascuna di essa debba essere fin dall’inizio prevista come indefettibile nella realizzazione del piano di azione. Per un maggiore approfondimento, si rinvia a: Zagrebelsky, voce reato continuato, cit. In giurisprudenza si veda: Sez. V, 6 luglio 2015, n. 1766, in C.E.D. Cass. (rv. 266413), Sez. II, 7 aprile 2004, n. 18037 in Riv. pen., 2005, p. 903 e Sez. VI, 26 settembre 1997, n. 3650 in Cass. Pen., 1998, p. 2358.  

[13] Così Fiandaca, Musco, Diritto penale, cit., p. 710

[14] L’attuale art. 158 c.1 c.p., infatti, prescrive che «il termine della prescrizione decorre (…) per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione». 

[15] Gallo, Diritto penale italiano. Appunti di parte generale, vol. II, Giappichelli, 2015, p. 176. In senso critico si veda: Gaboardi, Le loquaci spoglie del reato continuato, in Cass. pen., 11, 2014, p. 4002 il quale invita a rinunciare a leggere l’istituto del reato continuato «come mera (e ormai irragionevole) espressione del favor rei», trattandosi piuttosto di «uno schema dogmatico utile a cogliere il profilo di complessa unitarietà della colpevolezza dell’agente per tutti i fatti commessi».

[16] È questo l’orientamento inaugurato dalle Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14 in Cass. Pen., 2000, pp. 570 e ss. e seguito dalla giurisprudenza successiva, tra cui Sez. I, 12 luglio 2017, n. 46132 in Diritto & Giustizia, 12 ottobre 2018 con nota di Gasparre Sez. I, 14 novembre 2014, n. 51835 in CED Cass. rv. 261584, Sez. I, 5 novembre 2008, n. 46246 in CED Cass. rv. 242086.

[17] Secondo Gallo, op. cit., p. 177 il dibattito intorno alla natura giuridica del reato continuato è superabile dal momento che si è in presenza di una fattispecie che, limitatamente a certi fini, è qualificata dal legislatore come complessa. Ne deriva che quando gli effetti giuridici sono imputati alla fattispecie complessa siamo in presenza di una qualificazione unitaria, mentre quando gli effetti gli effetti giuridici si riportano a ciascuno dei reati eseguiti secondo un medesimo disegno criminoso si verifica l’abbandono della visione unitaria. La cosa veramente importante, dunque, è tracciare i netti confini tra le situazioni giuridiche che si svolgono sotto il segno dell’unità della fattispecie complessa e quelle in cui occorre fare riferimento, uno per uno, ai singoli reati.  

[18] In giurisprudenza si veda: Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286 in Dir. pen. proc., 3, 2019, p. 301.

[19] A tal proposito è stato osservato da Gaeta, Macchia, Tra nobili assiologie costituzionali e delicate criticità applicative, cit., p. 2610 che «la norma fa riferimento alla condotta, considerata nella sua globalità ed intesa, quanto al disvalore, nella sua unitarietà: e se essa palesa una idoneità plurilesiva, in relazione cioè a diversi precetti normativi, ciò sembra rivelarsi strutturalmente incompatibile con la nozione di “particolare tenuità” dell’offesa normativamente delineata». 

[20] Così Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681, cit., p. 9. In dottrina si veda per tutti: Di Giovine, La particolare tenuità del fatto e la “ragionevole tutela” del diritto, in Cass. Pen., 2, 2016, pp. 807 e ss.

[21] In questo senso, tra i molti precedenti: Sez. VI, 20 marzo 2019, n. 18192 in CED Cass. Rv. 275955-01, Sez. IV, 25 settembre 2018, n. 1819 in Cass. Pen., 9, 2019, pp. 3202 e ss.; Sez. III, 29 marzo 2018, n. 19159 in CED. Cass. Rv. 273198 ; Sez. VI, 13 dicembre 2017, n. 3353 in CED. Cass. Rv. 272123; Sez. II, 5 aprile 2017, n. 28341 in CED. Cass. rv. 271001; Sez. II, 5 aprile 2017 n. 28341 in CED. Cass. rv. 271001, Sez. V, 15 maggio 2015, n. 45190 in Cass. Pen. con nota di Brizi, L’applicabilità dell’art. 131 bis nelle ipotesi di continuazione di reati: un dialogo davvero (im)possibile?, in Cass. Pen., 9, 2016, pp. 3269 e ss.

[22] Così Ballini, Il nuovo art. 131 bis c.p. e la “continuazione non abituale”: oltre l’ossimoro apparente, in Giust. Pen., 2017, col. 330 e ss.

[23] In argomento, tra i molti contributi, si veda: Santini, Non punibilità per particolare tenuità del fatto e reato continuato, in Dir. Pen. Contemporaneo, 6, 2017, pp. 308 e ss. (in specie, p. 315), Brizi, L’applicabilità dell’art. 131 bis nelle ipotesi di continuazione di reati cit., pp 3280 e ss.

[24] Cfr. Sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039 in Cass. Pen., 2, 2016, pp. 502,

[25] Su questa posizione si attestano, tra gli altri, Nisco, Il comportamento abituale come condizione ostativa alla non punibilità del fatto tenue: una rassegna critica, in Cass. Pen., 2, 2019, pp. 894 e ss. (il riferimento è a pag. 906), Santini, Non punibilità per particolare tenuità del fatto e reato continuato, cit., Brizi, L’applicabilità dell’art. 131 bis nelle ipotesi di continuazione di reati cit., pp. 3276-3278. In senso contrario, si veda Gaboardi, Le loquaci spoglie del reato continuato, in Cass. Pen., 11, 2014, pp. 3987-3988.

[26] Si esprime in questi termini Ballini, Il nuovo art. 131 bis c.p. e la “continuazione non abituale” cit., 332. Un argomento decisivo a sostegno della bontà dell’assunto si rinviene nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 28/2015.  

[27] La tesi è stata proposta da Brizi, L’applicabilità dell’art. 131 bis nelle ipotesi di continuazione di reati cit., pp. 3281 e ss. In senso critico, però, si pone Nisco, Il comportamento abituale, cit., pp. 900 il quale osserva che la natura unitaria del reato continuato non riesce comunque ad aggirare la lettera di cui all’art. 131 bis comma 3 c.p., atteso che, nonostante l’utilizzo del plurale, all’interno della locuzione “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime” rientra certamente il reato unico con più condotte. 

[28] Così Ballini, Il nuovo art. 131 bis c.p. e la “continuazione non abituale” cit., 334.

[29] Cfr. ex multis Sez. III, 13 luglio 2021, n. 35630 in CED Cass. Rv. 282034-01, Sez. IV, 13 novembre 2019, n. 10111 in CED Cass. Rv. 278642-01, Sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358 in CED Cass. Rv. 272109, Sez. V, 31 maggio 2017, n. 35590 in CED Cass. Rv. 270998,

[30] Cfr. Sez. Un., 27 gennaio 2022, n. 18891 par. 8.3  

[31] Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681, cit.

[32] Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681 par. 14.

[33] Sez. Un., 27 gennaio 2022, n. 18891 par. 6.2

[34]  Ibidem par. 7.1.

[35] Ibidem par. 10.2

[36] Par. 10.4

[37] Cfr. nota 2.

[38] Sez. Un., 27 gennaio 2022, n. 18891 par. 10.5

[39] Così Di Giovine, La particolare tenuità del fatto e la “ragionevole tutela” del diritto, cit., p. 817.

[40] Ibidem p. 818.

[41] In argomento si rinvia a Brunelli, La tenuità del fatto nella riforma “Cartabia”: scenari per l’abolizione dei minimi edittali?, in Sistema Penale, 13 gennaio 2022. In questa sede, preme solamente rilevare che la più importante previsione contenuta all’interno della legge delega è quella concernente il limite all’applicabilità della disciplina dell’art. 131 bis c.p., rispetto al quale si prevede la sostituzione della “pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni” con la “pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

[42] Così Sez. Un., 27 gennaio 2022, n. 18891 par. 10.

[43] In tal senso sembra statuire la pronuncia in esame laddove afferma, al par. 10.5: «l’unificazione normativa delle condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso non esclude, peraltro, la possibilità di attribuire rilievo, in concreto, all’autonomia delle sue diverse componenti, quando la regola dell’unitarietà si riverberi in un danno o in una situazione per l’imputato. Al riguardo potrebbero verificarsi delle situazioni in cui la valutazione autonoma dei singoli fatti risulti in concreto più aderente alla diversa connotazione di gravità dei reati in continuazione, alcuni soltanto dei quali potrebbero costituire oggetto del giudizio di particolare tenuità dell’offesa. Analoghe considerazioni possono svolgersi nelle ipotesi in cui alcuni dei reati in continuazione siano oggettivamente esclusi dall’ambito di operatività della causa di esclusione della punibilità (…). A fonte di tali evenienze, nulla impedisce di “sciogliere” la continuazione (…) riconoscendo la causa di non punibilità anche in relazione ad uno solo dei fatti».