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26 Novembre 2019


Alle Sezioni unite il compito di fare chiarezza intorno al concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di cui all’art. 513-bis c.p. (illecita concorrenza con minaccia o violenza)

Cass., Sez. III, ord. 19 aprile 2019 (dep. 18 giugno 2019), n. 26870, Pres. Andreazza, Rel. Corbetta, ric. Guadagni



 

1. Nell’udienza del prossimo 28 novembre 2019, le Sezioni Unite penali della Cassazione saranno chiamate a pronunciarsi intorno a una questione interpretativa da lungo tempo irrisolta in seno alla stessa Corte di legittimità, concernente il campo di applicazione del delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza di cui all’art. 513-bis c.p.

Ciò che è oggetto di perdurante contrasto giurisprudenziale – come riconosciuto dalla terza sezione della Suprema Corte, che ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite con l’ordinanza che si può leggere in allegato – è in particolare il concetto di “atti di concorrenza” all’interno della fattispecie in questione, non essendo allo stato chiaro se con tale espressione debbano intendersi esclusivamente le c.d. condotte concorrenziali tipiche (come quelle espressamente elencate dall’art. 2598 c.c. in materia di concorrenza sleale, ovvero atti di boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto di contrattare, ecc.) o se essa vada piuttosto interpretata come riferibile a qualsiasi atto idoneo a ostacolare la regolare dinamica concorrenziale.

 

2. Il caso sottoposto alla terza sezione della Corte di cassazione concerneva due soggetti condannati in primo e secondo grado per i delitti di illecita concorrenza con violenza e minaccia e di lesioni, per aver aggredito con calci, pugni e minacce un dipendente di un’impresa operante nel loro medesimo settore (in particolare, la fornitura di lavori di spurgo), al fine di indurre tale impresa a cessare il proprio esercizio sul territorio su cui gli imputati rivendicavano l’esclusiva.

Tra i motivi di ricorso in cassazione presentati dalla difesa, si contestava l’erronea applicazione al caso di specie dell’art. 513-bis c.p., norma che punisce (con la pena della reclusione da due a sei anni) il fatto di compiere atti di concorrenza con violenza o minaccia nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva; si sosteneva, nello specifico, che gli atti intimidatori che si attribuivano agli imputati non potessero essere qualificati in termini di “atti di concorrenza” ai sensi della norma incriminatrice in questione.

 

3. La terza sezione della Suprema Corte, come già anticipato, ammette l’esistenza di dubbi mai sanati circa la corretta interpretazione della norma de qua, dopo avere osservato che, negli anni, presso la giurisprudenza di legittimità si sono affermati due contrari orientamenti.

Un primo indirizzo, maggiormente restrittivo e aderente alla lettera della norma, àncora l’elemento oggettivo del delitto in esame alla sola commissione di condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive – per l’appunto: boicottaggio, storno di dipendenti, atti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. ... – che siano commesse mediante violenza o minaccia; non vi rientrerebbero, pertanto, quelle condotte intimidatorie che non costituiscano in sé attività concorrenziale, ma abbiano semplicemente il fine di ostacolare l’altrui libera concorrenza, quali anzitutto comportamenti aggressivi nei confronti della persona, dei familiari o dei beni del concorrente[1]. D’altra parte, un opposto orientamento offre invece una lettura della norma incriminatrice di più ampio respiro, ritenendo che il delitto sia configurato in tutti quei casi in cui le condotte di violenza o minaccia siano utilizzate strumentalmente per impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale[2].

A sostegno della prima posizione, osserva la Suprema Corte nell’ordinanza in commento, si adduce che funzione della norma incriminatrice sarebbe la tutela della libera concorrenza – data anche la collocazione nel codice penale tra i “delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio” – e che pertanto le condotte concorrenziali illeciti ai sensi dell’art. 513-bis c.p. dovrebbero coincidere con le condotte concorrenziali illecite sotto il profilo civilistico, salvo la loro realizzazione mediante violenza o minaccia. In questo senso, il delitto non sarebbe configurabile laddove la condotta dell’agente non integri un atto concorrenziale tipico in quanto civilisticamente illecito, ma l’illegittima limitazione della concorrenza rappresenti un mero scopo in capo all’agente.

La ratio della norma, così come la volontà del legislatore storico, sono però richiamate quali argomenti anche a supporto del secondo indirizzo interpretativo: viene infatti sostenuto che proprio la finalità di tutelare la libera concorrenza imporrebbe di considerare quali “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. anche i comportamenti propriamente impeditivi di quest’ultima, ovverosia quelle condotte che, realizzate mediante violenza e minaccia, siano idonee a falsare il mercato e a conferire all’agente illegittime posizioni di vantaggio sui propri concorrenti. Tanto più che il delitto in questione è stato introdotto nel codice penale dalla legge del 13 settembre 1982, n. 646 (nota come legge Rognoni-La Torre, la quale ha contestualmente coniato il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.) allo specifico fine di sanzionare quelle diverse condotte di intimidazione, tipiche della criminalità organizzata di stampo mafioso, volte a ottenere il controllo di attività di carattere commerciale o produttivo, così minando la stabilità del sistema concorrenziale alle sue radici.

Oltre a ciò, un ulteriore argomento a supporto dell’interpretazione estensiva viene rintracciato nello stesso art. 2598 c.c. (rubricato “Atti di concorrenza sleale”), il quale, mentre ai numeri 1) e 2) prevede alcuni casi tipici di concorrenza sleale – utilizzo di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con nomi o segni altrui, imitazione dei prodotti altrui, diffusioni di notizie o apprezzamenti idonei a screditare l’attività del concorrente… – al numero 3) contempla invece una norma di chiusura, definendo come atto di concorrenza sleale qualunque atto che «si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda». Sarebbe lo stesso codice civile, dunque, ad ammettere l’esistenza di atti di concorrenza sleale atipici.

 

4. Riconoscendo l’esigenza di dirimere siffatto contrasto interpretativo, la terza sezione della Corte di cassazione decide dunque di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, chiedendo loro di chiarire «se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente».

 

***

 

5. L’ordinanza di rimessione in commento offre finalmente alle Sezioni Unite l’occasione di risolvere un contrasto ermeneutico che si protrae da più di un decennio, con significative ripercussioni sul piano della certezza del diritto.

Basta infatti un rapido sguardo alle applicazioni giurisprudenziali del delitto in esame per rendersi conto di come a esso siano tuttora attribuite, nelle aule giudiziarie, due accezioni tra loro inconciliabili: da un lato, quella di reato a dolo generico, in cui il concetto di “atto di concorrenza” integra propriamente un requisito oggettivo della fattispecie, dall’altro, quella di reato a dolo specifico, il cui perno è costituito invece dalla condotta di violenza o minaccia, accompagnata dallo scopo di ostacolare l’altrui libera concorrenza[3]. Se per il primo orientamento la nozione di “concorrenza” qualifica la condotta incriminata in senso oggettivo, quale caratteristica materiale dell’atto in questione, il secondo orientamento attribuisce invece rilevanza alla direzione teleologico-finalistica della condotta, che pertanto assumerebbe una connotazione particolare (rispetto a qualsiasi altra condotta violenta o minacciosa) solo a livello di elemento psicologico, in ragione dello scopo peculiare perseguito dall’agente.

A prescindere dall’interpretazione che si accolga, si tratta, all’evidenza, di un reato complesso, all’interno del quale restano assorbiti − come riconosciuto anche in sede giurisprudenziale − i differenti delitti di violenza privata, minaccia o percosse.

 

6. Per comprendere le ragioni di tale contrasto interpretativo è certamente utile prendere in considerazione le intenzioni manifestate dal legislatore storico al momento dell’introduzione di tale delitto nel codice penale; il contesto in cui la norma incriminatrice è stata coniata, come rilevato anche dalla Terza Sezione della Cassazione nell’ordinanza in commento, ha in effetti influito non poco sulla lettura fornitane dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Invero, i lavori parlamentari della legge n. 646 del 1982 rendono immediatamente evidente che alla base della creazione del delitto di cui all’art. 513-bis c.p. stava la consapevolezza della pervasività e delle specifiche modalità di azione delle c.d. imprese mafiose, capaci di conquistare spazi dell’economia lecita servendosi di posizioni di vantaggio costruite attraverso meccanismi illeciti, primi tra tutti il ricorso all’intimidazione e alla violenza[4]: e difatti gli stessi proponenti attribuivano alla nuova sanzione penale la chiara funzione di punire «un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza»[5].

Senonché, come fin da subito messo in luce da acuta dottrina[6], tale intenzione, così apertamente espressa in seno ai lavori preparatori, non appare altrettanto chiaramente riflessa dal testo normativo dell’art. 513-bis c.p. Non solo la norma non fa alcun riferimento alla criminalità organizzata di tipo mafioso, dalla quale il delitto in questione − peraltro inserito nel diverso contesto dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio − deve ritenersi del tutto indipendente[7], ma l’utilizzo dell’espressione “atti di concorrenza” sembra tradire lo stesso fine che il legislatore si proponeva, escludendo la possibilità di ricomprendere nel campo di applicazione della fattispecie condotte che mai potrebbero appartenere al mondo della concorrenza, come per l’appunto quelle di appiccare ordigni o usare violenza alle persone. Netta è, in questo senso, la differenza strutturale con il delitto di “Turbata libertà dell’industria o del commercio” di cui all’art. 513 c.p., costruito come reato comune a dolo specifico, volto a punire «chiunque adopera violenza sulle cose ovvero mezzi fraudolenti per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o di un commercio»: nonostante le premesse, dunque, nel caso del delitto di cui al 513-bis c.p. il legislatore sembrerebbe aver infine compiuto una scelta di segno diverso.

Proprio il riscontro di siffatta contraddizione ha spinto autorevole dottrina a suggerire una rilettura tassativizzante della fattispecie qui in questione, interpretandola come se il legislatore avesse utilizzato la formula «chiunque nell’esercizio di una attività commerciale, industriale o comunque produttiva compie atti di violenza o minaccia diretti a scoraggiare l’altrui concorrenza»[8].

La particolare complessità concettuale della disposizione in esame sta nell’aver affiancato il concetto di concorrenza a quelli, ben più usuali nel diritto penale, di violenza e minaccia: l’attività di coercizione e intimidazione, infatti, è radicalmente incompatibile con la libera concorrenza, sicché la stessa scelta terminologica del legislatore sembrerebbe a prima vista celare una vera e propria contraddizione logica[9]. Essa è stata pertanto criticata in dottrina, che vi ha rintracciato un esempio di diritto penale “simbolico”[10]; anche di recente non sono poi mancate voci a sostegno, prima ancora che di un intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Cassazione, di una riforma sul piano normativo[11].

 

7. Senza entrare in questa sede nel merito delle possibili prospettive de iure condendo, ci pare, de iure condito, che la soluzione interpretativa preferibile della norma sia comunque quella fedele al dato letterale.

Per quanto infatti leggere il delitto di cui all’art. 513-bis c.p. come reato a dolo specifico apparirebbe coerente con la ratio legis e maggiormente pregnante sotto il profilo criminologico, tale strada troverebbe un ostacolo insormontabile nel principio di legalità e sub specie di tassatività, che ci sembra verrebbero irrimediabilmente violati laddove si equiparasse l’atto violento o minaccioso finalizzato a inibire la concorrenza all’atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia, l’unico punito dalla norma in esame[12].

Tanto più che, a nostro giudizio, una corretta interpretazione della norma dovrebbe valorizzare non solo il concetto di “atti di concorrenza”, ma altresì il dato secondo il quale la condotta incriminata deve necessariamente essere compiuta «nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva». Come la stessa giurisprudenza di Cassazione ha riconosciuto, infatti, quello in questione è ‒ benché l’utilizzo del pronome “chiunque” possa trarre in inganno ‒ un reato proprio, il quale può essere commesso esclusivamente da chi eserciti un’attività di produzione di beni o servizi in senso lato (senza qui entrare nel merito della questione se costui debba essere o meno imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c.); tale formula, però, oltre a illuminarci circa la qualifica dei soggetti attivi del delitto di cui all’art. 513-bis c.p., ci fornisce importanti indicazioni anche per quanto riguarda la definizione del concetto di “atti di concorrenza”, in quanto essi devono anzitutto essere intesi come atti di esercizio della suddetta attività economico-produttiva.

In questo senso, non appare particolarmente utile il richiamo agli atti di concorrenza sleale tipici secondo il diritto civile e in particolare secondo l’art. 2598 c.c., norma che del resto − come osservato anche dalla Cassazione nell’ordinanza in commento − si conclude con una clausola “aperta”; gli “atti di concorrenza”, pertanto, potranno ben essere atipici: ciò nondimeno, dovrà trattarsi di atti − questo sì − tipici di esercizio dell’attività economica dell’agente[13]. La violenza e la minaccia in sé, dunque, non potranno essere qualificati come atti concorrenziali a prescindere dall’atteggiamento soggettivo del soggetto attivo, poiché si tratta di atti che non possono in nessun caso costituire esercizio di un’attività produttiva; tali condotte coercitive, quindi, acquisiscono rilevanza ai fini della norma in esame solo in quanto accedano a un atto di esercizio dell’attività economica tipico, quali specifiche modalità della condotta.

 

8. Questa soluzione porta a ricomprendere nel campo di applicazione dell’art. 513-bis c.p. quegli atti di esercizio di un’attività economico-produttiva definiti in giurisprudenza come “concorrenziali tipici” (espressione che tuttavia riteniamo vada intesa nei termini appena illustrati), poiché in concreto suscettibili di ricadere nel campo di applicazione dell’art. 2598 c.c. in quanto “contrari ai principi di correttezza” e “idonei a danneggiare l’altrui azienda” (così recita il n. 3) della norma in esame), minando la libera concorrenza. Non vi rientrerebbero, invece, quei fatti ‒ come quello concretamente sottoposto all’attenzione della Suprema Corte nel caso di specie ‒ in cui l’uso della violenza o della minaccia non è strettamente funzionale al compimento di un atto tipico di esercizio dell’impresa (come potrebbe accadere, ad es. nei casi di boicottaggio o storno di dipendenti realizzati mediante tali condotte coercitive), ma è semplicemente preordinato a limitare l’altrui libertà di autodeterminazione economica e ad assicurare all’agente ingiusti vantaggi competitivi.

Tali ipotesi, per i motivi di cui sopra, non potrebbero essere sussunte nella fattispecie in questione, laddove si assicuri alla norma un’interpretazione strettamente rispondente al principio di tassatività; ciò nondimeno, una simile soluzione non lascerebbe il campo a nessun vuoto normativo: condotte di tal genere, difatti, appaiono dirette a procurare a sé o altri un ingiusto profitto con altrui danno e potrebbero ricadere entro il campo di applicazione del delitto di estorsione, quantomeno nella sua forma tentata[14].

 

9. In ogni caso, la questione sarà finalmente decisa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il prossimo 28 novembre: a loro starà il compito di adottare una posizione chiara e definitiva rispetto al problema che in questa sede abbiamo voluto ricostruire nelle sue linee essenziali. Considerando che, laddove poi queste dovessero optare per la soluzione più restrittiva e maggiormente aderente al tenore letterale della norma incriminatrice, rimarrebbe comunque aperta la possibilità per il legislatore di intervenire direttamente sul testo normativo, qualora ritenesse opportuno renderlo maggiormente coerente con le istanze di tutela avvertite al momento della sua introduzione[15].

 

[1] Tra le pronunce più recenti, l’ordinanza cita Cass. pen., Sez. II, sentenza dell’8 novembre 2016, n. 49365, Prezioso; Cass. pen., Sez. VI, sentenza del 22 settembre 2015, n. 44698, Cannizzaro; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 10 febbraio 2015, n. 9763, Amadorc; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 27 maggio 2014, n. 29009, Ciliberti, in Cass. pen. n. 2/2015, p. 635 ss., con nota di A. Marchini, Le condotte illecite punite dall’art. 513-bis c.p.

[2] In questo senso, di recente, Cass. pen., Sez. II, sentenza del 13 aprile 2016, n. 18122, Gencarelli; Cass. pen., Sez. III, sentenza del 10 dicembre 2015, n. 3868, Inguì, in Cass. pen., n. 11/2016, p. 4113 ss., con nota di B. Rossi, L’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 513-bis c.p.

[3] Sulla differente caratterizzazione dell’elemento soggettivo nel delitto di cui all’art. 513-bis c.p., a seconda del significato che si attribuisca al concetto di “atti di concorrenza”, cfr. per tutti C. Baccaredda Boy, sub Art. 513-bis c.p. Illecita concorrenza con minaccia o violenza, in E. Dolcini - G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2015, IV ed., Tomo II, p. 2515; A. Laronga, Illecita concorrenza con violenza o minaccia (art. 513 bis c.p.), in A. Cadoppi – S. Canestrari – A. Manna – M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. I delitti contro la fede pubblica e l’economia pubblica, Milano, 2010, p. 861; F. Pesce, Illecita concorrenza con violenza o minaccia, in G. Fornasari (a cura di), Delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, Napoli, 2012, p. 239.

[4] In questo senso A. Alessandri, voce Concorrenza illecita con minacce e violenza, in Dig. disc. pen., II, 1988, p. 411, il quale in proposito osserva che «La c.d. impresa mafiosa non rappresenta così unicamente il mezzo per investire, in modo rispettabile, i proventi dell’attività criminosa: costituisce, molto più pericolosamente, un’entità economica che gioca a tutto campo sul terreno delle altre imprese, potendo contare su certi “vantaggi competitivi” al di fuori della portata dei “normali” concorrenti, tali da scardinare il quadro della concorrenza e, prima ancora, i suoi stessi presupposti. Tra questi vantaggi competitivi si segnala, in particolare, la possibilità di un ricorso “naturale” all’intimidazione ed alla violenza, al fine di eliminare neutralizzare o quanto meno scoraggiare l’altrui concorrenza».

[5] In questi termini la Relazione alla proposta di legge n. 1581 presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980, VIII legislatura, consultabile a questo link.

[6] In particolare, G. Fiandaca, Commento all'art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), in Leg. pen., 1983, p. 278.

[7] Anche la Corte di cassazione, dopo essersi i primi anni limitata ad applicare la fattispecie in relazione al contesto della criminalità organizzata mafiosa, ha riconosciuto che si tratta invece di un reato di portata generale: cfr. in proposito A. Alessandri, voce Concorrenza illecita con minacce e violenza, cit., p. 412; E. D’ippolito, L'illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell'intimidazione, il problema resta l'equivoco sugli atti di concorrenza, in Cass. Pen., n. 11/2011, p. 3822; A. Gentiloni Silveri, Natura e requisiti di configurabilità del delitto di turbata libertà dell’industria o del commercio, in Cass. pen., n. 3/2010, p. 989; M. Mazza, L’art. 513 bis del codice penale e la lotta agli atti di concorrenza compiuti con minaccia o violenza, in Rivista di polizia, 1983, p. 733.

[8] Così G. Fiandaca, Commento all'art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646, cit., p. 279.

[9] Si rimanda sul punto alle osservazioni di A. Alessandri, voce Concorrenza illecita con minacce e violenza, cit., p. 412, secondo il quale «Inserire nel tema della libertà di concorrenza, cioè della pacifica competizione economica propria di un sistema che riconosce l’iniziativa privata, una figura i cui aspetti modali sono costituiti dalla violenza e dalla minaccia sembra porre la nuova fattispecie in una traiettoria di fuga rispetto ai problemi reali. Il ricorso alla forza appare infatti aver poco da spartire con le regole di concorrenza e con le loro violazioni».

[10] Così A. Alessandri, voce Concorrenza illecita con minacce e violenza, cit., p. 415; E. D’ippolito, L'illecita concorrenza con violenza o minaccia, cit., p. 3821; E. Mezza, Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, in Dir. pen. cont., fasc. 5/2019, p. 326.

[11] Cfr. ad es. E. D’ippolito, L'illecita concorrenza con violenza o minaccia, cit., p. 3831; A. Marchini, Le condotte illecite punite dall’art. 513-bis c.p., cit., p. 641; E. Mezza, Illecita concorrenza con minaccia o violenza, cit., p. 326 ss.

[12] In questi termini, tra gli altri, A. Marchini, Le condotte illecite punite dall’art. 513-bis c.p., cit., p. 640.

[13] Così l’insegnamento di A. Alessandri, voce Concorrenza illecita con minacce e violenza, cit., p. 414, secondo il quale «Sia nel caso di atti lesivi dei valori organizzativi o tecnici dell’imprenditore avversario o che mirino ad acquisire posizioni di supremazia ostacolando l’attività del concorrente, occorre pur sempre, per la loro individuazione, che si tratti di modalità di esercizio dell’attività economica. Senza questa riferibilità alla fenomenologia competitiva, pur colta nelle sue manifestazioni patologiche, si esce dal terreno della concorrenza per entrare nel dominio delle norme (penali) regolatrici dei rapporti interpersonali, non ulteriormente qualificati».

[14] Occorre peraltro tenere conto che la giurisprudenza che in casi simili rintraccia il delitto di cui all’art. 513-bis c.p. riconosce altresì il concorso con quello di cui all’art. 629 c.p., in base all’argomento secondo il quale tra i reati in questione non sussiste rapporto di specialità (se non bilaterale) ed essi comunque tutelano beni giuridici differenti (l’economia pubblica e la concorrenza, in un caso, il patrimonio individuale, nell’altro); sul punto si rimanda per tutti alla rassegna di C. Baccaredda Boy, sub Art. 513-bis c.p. Illecita concorrenza con minaccia o violenza, cit., pp. 2516-2517.

[15] Una riforma potrebbe essere peraltro effettivamente auspicabile in considerazione della prova dell’ingiusto profitto derivante dalla limitazione dell’altrui concorrenza, che rischierebbe in alcuni casi di rendere in concreto inadeguato il delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p.