ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
22 Novembre 2019


Le Sezioni unite sulla rilevanza penale della copia di atto pubblico inesistente: sussiste falso materiale in caso di “apparenza di originalità” (e anche di semplice “idoneità documentativa”?)

Cass., Sez. un., sent. 28 marzo 2019 (dep. 7 agosto 2019), n. 35814, Pres. Carcano, Est. De Amicis, ric. Marcis



 

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, le Sezioni unite affrontano la questione dei profili di rilevanza penale, ai sensi dei delitti di falso, della formazione di copia di un atto pubblico in realtà inesistente.

Al quesito diretto posto dalla Sezione rimettente – relativo alla possibilità di ravvisare in tale condotta il reato di falso materiale – viene data una risposta a prima vista altrettanto lineare – insussistenza del reato, «salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale».

La apparente semplicità del principio di diritto testualmente enucleato dalla stessa Corte, con una formulazione che sembra anche soddisfare istanze di utilizzabilità nella prassi, impone però due caveat. Da un lato, si avverte che la soluzione offerta arriva al termine di una argomentazione complessa, segnata da snodi concettuali sottili e continui richiami a problemi trasversali della disciplina codicistica in tema di falsi, notoriamente tra le più complicate della parte speciale; dall’altro lato, preme invitare alla cautela nell’applicazione automatica di tale principio, posto che ad avviso di chi scrive le conclusioni cui giunge la Corte in motivazione non sono esattamente coincidenti con il medesimo, ma anzi ne differiscono in misura apprezzabile – o quantomeno sufficiente, ci pare, per condurre a conseguenze diverse sul piano concreto a seconda della regula iuris che si scelga di invocare.

Cerchiamo quindi di ripercorrere il ragionamento delle Sezioni Unite per poi svolgere alcune considerazioni sulla portata della decisione rispetto alla casistica di riferimento.

 

2. Nella vicenda concreta all’attenzione della Corte si procedeva per il delitto di falso materiale di cui agli artt. 476 e 482 c.p. in relazione alla formazione, da parte di un privato, della falsa copia di un provvedimento amministrativo inesistente.

L’imputato era interessato alla stima di un terreno di proprietà della società da lui amministrata, in vista di una possibile concessione a terzi a titolo di leasing: al fine di ottenere una valutazione più favorevole, incaricava un collaboratore di rivolgersi all’ufficio tecnico del Comune presentando una fotocopia – creata dallo stesso amministratore – che riproduceva un permesso di costruire per quel lotto apparentemente rilasciato dal medesimo Comune, ma in realtà inesistente.

A fronte di tale ricostruzione dei fatti, l’imputato veniva condannato in primo grado ma assolto dalla Corte d’appello, che riteneva penalmente irrilevante la falsificazione di un atto presentato e utilizzato come fotocopia. Dei ricorsi proposti da procuratore generale e parte civile (il capo dell’ufficio tecnico del Comune) veniva investita la Sezione V della Cassazione, che a sua volta – rilevato un contrasto tra due orientamenti pretori posti rispettivamente alla base della pronuncia di secondo grado e delle censure dei ricorrenti – richiedeva l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite[1].

 

3. Per rispondere alla questione «se la formazione di una copia di un atto inesistente integri o meno il reato di falso materiale», le Sezioni Unite muovono appunto dall’esposizione della controversia giurisprudenziale che ha giustificato la rimessione.

Nel loro nucleo essenziale, le posizioni emerse in seno alla Cassazione possono raggrupparsi in due orientamenti principali.

 

3.1. Il primo indirizzo esclude generalmente la configurabilità del delitto di falso materiale in atto pubblico in caso di formazione di un atto presentato come copia (di solito, come fotocopia) di un documento originale in realtà inesistente; residua invece la rilevanza penale della condotta qualora l’atto creato ex novo appaia esso stesso il documento originale oppure una copia autentica del medesimo (munita cioè di attestazione di conformità).

In verità, all’interno di tale filone si ritiene talora integrato il falso materiale nell’ulteriore ipotesi in cui la copia – pur apparendo tale – risulti comunque “idonea a documentare nei confronti di terzi l’esistenza di un originale conforme”: tuttavia, notano le Sezioni Unite, a fronte di tale affermazione di principio, in concreto si finisce sempre per richiedere la presenza di requisiti formali assimilabili, di fatto, a quelli di una copia autentica.

L’impostazione descritta fa spesso leva sull’assunto per cui la copia semplice, intesa come mera riproduzione meccanica, è sprovvista di quella funzione probatoria che l’ordinamento riconosce appunto, oltre che al documento originale, alla sola copia autentica. Manca l’offesa, dunque, al bene giuridico protetto dai delitti di falso, vale a dire la pubblica fede, che per definizione nessuno ripone in tali atti; i connotati decettivi della condotta di uso della copia contraffatta potranno semmai rilevare ai sensi del delitto di truffa.

 

3.2. Un secondo indirizzo, più rigoroso, afferma invece la responsabilità per falso materiale nei casi in cui il documento falsamente formato sia sì presentato come copia, ma diretto – in termini oggettivi oltre che nelle intenzioni dell’agente – ad attestare l’esistenza e gli effetti probatori di un documento al contrario inesistente.

Creare artificiosamente l’apparenza dell’esistenza di un atto pubblico sarebbe sufficiente a determinare una lesione della fede pubblica. Ciò perché l’offesa tipica nei delitti di falso non presuppone un intervento materiale su un documento originale: questo può anzi non esistere in radice e l’affidamento collettivo essere nondimeno tradito per il solo fatto della falsa rappresentazione della realtà fornita da altro documento (nei casi in esame, la fotocopia) in cui si riscontri concreta capacità decettiva; in ogni caso – si aggiunge – deve considerarsi come la formazione della (falsa) copia presupponga naturalisticamente la formazione materiale di un atto pubblico da utilizzare come (falso) originale.

 

4. Come desumibile da questo inquadramento e come già osservato nell’ordinanza di rimessione – ma non specificato nel quesito rivolto alle Sezioni unite – un contrasto effettivo riguarda solo una particolare ipotesi: non la generalità dei casi in cui sia stata formata copia di un atto inesistente, ma il caso in cui l’atto falsamente formato sia presentato e utilizzato proprio come copia.

Infatti, se la copia viene fatta figurare come originale o come copia autentica, è opinione condivisa che l’autore possa rispondere di falso. Diverso invece se la copia viene prodotta ed esibita come tale – evidentemente, al fine di dimostrare l’esistenza di un originale e di avvalersi degli effetti che discenderebbero da questo. È qui che le conclusioni divergono: il falso materiale non sussiste per il primo indirizzo, che fa leva sulla intrinseca inidoneità di un documento che appare come copia (semplice, e non autentica) a svolgere la funzione probatoria riservata all’originale; al contrario, il reato è configurabile alla stregua del secondo indirizzo, che attribuisce rilievo al «dato sostanziale» che l’utilizzo della copia induca a ritenere esistente l’atto pubblico, a prescindere dalla circostanza che sia stata falsificata anche l’attestazione di conformità.

 

5. Così impostato il problema, vediamo con quali passaggi logici viene risolto dalle Sezioni unite.

Una prima parte del ragionamento (§ 5 del “considerato in diritto” e relativi sotto-paragrafi) è dedicata a dimostrare la correttezza della scelta di inquadrare la questione, almeno a livello astratto, nell’ambito delle falsità materiali, della cui area di tipicità viene data una ricostruzione generale; in un secondo momento (§ 6 e relativi sotto-paragrafi), alla stregua delle indicazioni in tal modo ricavate, la Corte procede a individuare le ipotesi di rilevanza penale delle condotte in esame, operando alcuni distinguo all’interno delle tesi già esposte e soppesandone gli argomenti.

 

6. Le condotte che costituiscono il fatto tipico di falso materiale possono consistere, ai sensi dell’art. 476 c.p., nella contraffazione o nella alterazione di un atto.

Se l’alterazione si spiega facilmente come la modifica non consentita (mediante aggiunte, cancellature, etc.), da parte di terzi o dello stesso autore, di un documento preesistente in origine genuino (in cui cioè coincidono autore reale e autore apparente), più articolata risulta la nozione di contraffazione.

Sono almeno tre, infatti, le possibili modalità realizzative della condotta: i) contraffazione della firma (con cui si attribuisce apparentemente l’atto a un autore diverso da quello reale: caso classico di non “genuinità”); ii) contraffazione di data e luogo (dove la discordanza tra apparenza e realtà riguarda appunto estremi identificativi diversi dalla paternità dell’atto); iii) formazione di un atto prima inesistente.

È questa l’ipotesi di maggiore interesse ai nostri fini. Non necessariamente ricorre quando è compromessa la “genuinità” dell’atto, intesa nel significato tradizionale di divergenza tra autore apparente e autore reale: può commettere falso materiale – oltre al privato, ex art. 482 – anche il pubblico ufficiale, in astratto competente, che appone la firma all’atto da lui stesso creato ex novo, se questo è stato formato in assenza dei necessari presupposti di fatto (qui le Sezioni unite riportano l’altrettanto classico esempio del cancelliere che redige verbale di una udienza mai celebrata).

In casi del genere, infatti, il nucleo essenziale della condotta, che ne fonda il disvalore, sta nel far «apparire come esistente un atto che in realtà non è stato mai formato» – fermo restando che, come previsto dall’art. 476, la condotta può riguardare l’atto nella sua interezza o anche in una sua parte. Più in generale, come si ricaverebbe anche dall’art. 478, il falso materiale può ritenersi integrato nelle ipotesi in cui l’autore crea un documento (giuridicamente rilevante) che non doveva sorgere, vuoi perché è la (falsa) copia autentica di un originale inesistente (così appunto l’art. 478), vuoi – a maggior ragione – perché si conferisce esistenza documentale a un atto in realtà inesistente (questa la condotta punita dall’art. 476).

A questo punto, il ragionamento prosegue con alcune precisazioni circa gli elementi di fatto necessari per la configurabilità del falso materiale. Sintetizzando alcune pagine di motivazione, può dirsi che: i) in assenza di riferimenti nel testo della norma, la rilevanza della condotta non è subordinata a una indagine sulla conformità dell’atto risultante dalla modifica a un preesistente dato naturalistico (tanto che, di regola, è integrato il reato anche qualora l’autore abbia inteso ristabilire un errore originario); ii) per lo stesso motivo, la tipicità del fatto non dipende dalla natura probatoria dell’atto oggetto di falsificazione (mentre che «l’atto [sia] destinato a provare la verità» di taluni fatti è elemento essenziale del delitto di falso ideologico ex art. 479); iii) un falso materiale può sussistere anche se il rapporto giuridico documentato nell’atto non è valido o addirittura è inesistente alla stregua di una valutazione della realtà effettiva, perché a escludere il reato concorrono solo i vizi «inerenti all’atto quale appare dopo l’avvenuta falsificazione», e non quelli risultanti dalla condotta stessa di falsificazione (altrimenti, almeno nelle ipotesi ex art. 482 si dovrebbe sempre escludere la responsabilità penale, data la carenza assoluta di potere del privato rispetto alla formazione di atti pubblici): ai fini dell’offesa alla pubblica fede assume rilievo decisivo la semplice apparenza di validità, nel senso che l’atto risulta «“idoneo a provare la sussistenza sia pure apparente, nei confronti dei terzi, della situazione documentata”»[2].

 

7. Così tracciati i confini di tipicità del falso per contraffazione, le Sezioni unite riconoscono che il fatto penalmente rilevante può essere commesso attraverso qualsiasi strumento materiale – dunque anche mediante formazione di una falsa copia –, e passano all’esame degli orientamenti emersi in relazione ai profili di rilevanza penale di tale condotta.

 

7.1. Anzitutto, non convince le Sezioni unite la tesi, caratteristica del primo indirizzo, che ritiene configurabile il falso materiale solo alla ulteriore condizione che la fotocopia sia corredata da attestazione di conformità, quale presupposto indispensabile affinché la copia possa produrre effetti giuridici[3].

La Corte vi ravvisa infatti il rischio di una duplice sovrapposizione di piani: da un lato, richiedere l’autenticazione ai fini della sussistenza del reato significa modificare la fattispecie di riferimento, trasformandola in una ipotesi già pacificamente riconducibile al citato art. 478 (formazione della falsa copia autentica di un atto pubblico inesistente); dall’altro, l’indirizzo in esame sembra impostare la questione come se il problema fosse la possibilità – negata – di falsificare un «documento-fotocopia», e non, più esattamente, la possibilità di «contraffazione di un documento mediante la fotocopia».

Guardando al secondo orientamento, le Sezioni unite ritengono di non poter accogliere la prospettiva che ritiene integrato il falso qualora copia sia impiegata in circostanze tali da farla apparire come originale[4].

A giudizio della Corte, si tratta di una ricostruzione doppiamente criticabile: subordinare la sussistenza del reato alle modalità di utilizzo della copia significa, in primo luogo, nient’altro che richiedere «una scontata verifica della natura grossolana del falso»; in secondo luogo, comporta una violazione del principio di legalità, poiché introduce un requisito estraneo agli elementi costitutivi del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice.

 

7.2. La soluzione corretta viene invece individuata dalle Sezioni unite nell’impostazione che, rifacendosi a criteri oggettivi, ritiene integrato il falso quando, per caratteristiche «formali e sostanziali», il documento materiale risultante dalla contraffazione assume «una parvenza di originalità», tale da sembrare «un provvedimento originale o la copia conforme, originale, di un tale atto ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente».

In tali ipotesi, la condotta rientra senza forzature nel perimetro di tipicità dell’art. 476: l’offesa alla fede pubblica è realizzata attraverso la creazione di una falsa apparenza documentale, a nulla rilevando, per quanto visto sopra, che un atto corrispondente sia appunto in realtà inesistente.

Per consolidare l’assetto interpretativo raggiunto, la Corte si preoccupa anche di confutare due possibili obiezioni[5].

Si precisa in primo luogo che la soluzione offerta non si fonda sulla generale attribuzione alla copia di una efficacia pari a quella dell’atto originale. Tale equiparazione continua a essere soggetta alle condizioni (autenticazione o non disconoscimento) poste dall’art. 2719 c.c.: tanto che infatti, affermano le Sezioni unite, nei casi in esame la falsità materiale «non investe, nella realtà, un documento pubblico, bensì solo una copia informe», ma la sussistenza del reato si fonda sulla creazione di una falsa apparenza di esistenza documentale.

Tuttavia, riconoscere che la falsificazione incidente su una copia semplice integri la fattispecie di cui all’art. 476 potrebbe esporsi a critiche se confrontata con ipotesi, quali la falsificazione incidente su una copia autentica, che paiono connotate da un disvalore maggiore e che pure dovrebbero ricondursi al meno grave reato di cui all’art. 478. A questa seconda obiezione le Sezioni unite replicano osservando che disparità di trattamento non sussiste, ché anzi i rapporti di gravità tra le due classi di fatti sono da ritenersi invertiti rispetto a quanto prospettato: «oggetto reale del delitto di cui all’art. 476 c.p. è infatti il documento “originale” del quale viene contraffatta l’esistenza, non una copia dello stesso».

Così esaurito il ragionamento, senza ulteriori indugi la Corte enuncia formula il principio di diritto, a tenore del quale, come anticipato, «[l]a formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale».

 

* * *

 

8. Volendo abbozzare un primo commento, il punto da cui partire è una osservazione d’insieme sulla complessità del ragionamento delle Sezioni Unite per come sopra illustrato e sulle questioni interpretative che, di conseguenza, la sentenza stessa può porre.

A chi scrive pare che la principale difficoltà sia rappresentata da un certo grado di disallineamento tra le premesse e la ricostruzione del quadro interpretativo da un lato, e la parte più strettamente argomentativa dall’altro, nonché tra quest’ultima parte delle motivazioni e l’enunciazione del principio di diritto. Soffermiamoci su ciascuno di questi due passaggi.

 

8.1. Quanto al primo aspetto, si può notare che dopo aver ricostruito in modo nitido – al pari di quanto già fatto dalla Sezione rimettente – le tesi in gioco (§§ 2 e 3 del ‘considerato in diritto’ e supra par. 3 di questa scheda), al momento di esaminare la questione oggetto specifico della sua attenzione la Corte non richiama direttamente nessuno dei due indirizzi nella versione “schematica” in precedenza delineata, ma prende in considerazione soltanto alcuni sotto-orientamenti emersi in seno ad essi.

In altre parole, e con maggiore concretezza. In una prima fase le Sezioni Unite, facendo astrazione dalle posizioni manifestate dalla giurisprudenza, impostano il problema in termini di alternativa tra una tesi che potremmo definire restrittiva (la copia in quanto tale non integra falso materiale, dovendosi tenere distinta l’ipotesi nella quale la copia è presentata come originale e che invece presenta rilevanza penale) e una tesi estensiva (la copia integra falso materiale, anche se presentata come tale, purché idonea a dimostrare l’esistenza di un originale); in aggiunta, le Sezioni unite – riprendendo anche qui uno spunto già contenuto nell’ordinanza di rimessione – puntualizzano il quesito di diritto (se e quando la copia di un atto inesistente integri falso materiale) osservando, in breve, che i) se la fotocopia è fatta figurare come originale, è pacifica la sussistenza del falso e, dunque, ii) il vero punto controverso riguarda le ipotesi in cui la falsa copia è presentata e utilizzata proprio come copia.

Tuttavia, nonostante questo inquadramento, pregevole per chiarezza e linearità, nella seconda parte (§ 6) lo sviluppo della motivazione non sembra più presupporre le posizioni e la distinzione appena descritte. Vero che nel testo compaiono espressioni che sembrano richiamare l’inquadramento iniziale (si fa cenno in alcuni passi agli «indirizzi ermeneutici in contrasto»), ma nella sostanza la Corte si confronta con tesi che appaiono risalenti o minoritarie all’interno del filone di appartenenza ovvero che risultano di difficile collocazione nel sistema tracciato; e a conferma di ciò basti notare che buona parte delle pronunce richiamate ai § 6.1-6.3 – che rappresentano il cuore del ragionamento ascrivibile direttamente alle Sezioni unite – non erano citate nella parte ricostruttiva[6].

Ora, la classificazione menzionata non è certo l’unica in grado di descrivere lo stato dell’arte, tanto che la scansione seguita dalle Sezioni unite, divergente rispetto al modello bipartito, sembra invece ricalcare nei contenuti una impostazione di matrice dottrinale che appunto distribuisce il materiale giurisprudenziale sul tema in tre gruppi[7]; né si vuole dire che il problema sta nella difficoltà di capire se con la soluzione offerta le Sezioni unite abbiano accolto il primo o il secondo indirizzo, ovvero ancora una tesi (o sotto-tesi) intermedia – questione che, di per sé, sarebbe un superfluo esercizio nominalistico. Piuttosto, la questione è di natura sostanziale: impostare espressamente il ragionamento in termini dialettici rispetto alle coordinate di cui alla premessa, che comunque ben riflettevano il panorama del diritto vivente, avrebbe senz’altro aiutato – in primis gli stessi giudici chiamati in futuro a trattare casi simili – ad apprezzare con maggiore sicurezza la portata della decisione e le eventuali sfumature rispetto alle posizioni prevalenti emerse nell’esperienza giurisprudenziale.

 

8.2. La preoccupazione, dunque, non è soltanto metodologica, ma è dettata dall’interesse per le possibili ricadute sul terreno applicativo. In quanto tale, non può che essere accentuata dal fatto che – e veniamo al secondo aspetto di disallineamento – l’incertezza sembra propagarsi anche alla soluzione del quesito affrontato dalla sentenza.

Per chi si limitasse a leggere il principio di diritto formulato conclusivamente al § 7, come già segnalato in apertura di questa scheda, non si porrebbero problemi di sorta. Certo, dopo aver seguito il ragionamento della Corte sarà immediato notare che tale statuizione (sussistenza del reato quando la copia assume l’apparenza di un atto originale) coincide proprio con l’ipotesi che nel dibattito sul tema risulta incontroversa, ma ciò potrebbe coerentemente spiegarsi con la scelta – implicita – delle Sezioni Unite di negare ipotesi ulteriori di rilevanza penale delle condotte in esame (quelle che potremmo ricondurre alla seconda tesi, di portata appunto estensiva).

Senonché, pare di poter notare una incongruenza tra il principio di diritto e la soluzione data in motivazione. Al § 6.3 la possibilità che la condotta di formazione della copia di un atto inesistente integri falso materiale viene riconosciuta dalle Sezioni unite anzitutto nei casi in cui la copia presenti caratteristiche tali da sembrare un originale o una copia conforme dell’originale, il che appunto coincide con quanto enunciato nel principio di diritto; tuttavia, a tale ipotesi la Corte affianca – in almeno due punti – quella in cui la formazione dell’atto sia «idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme». Tale fattispecie non solo è prospettata dalle Sezioni Unite in alternativa alle precedenti («ovvero»), ma sembra effettivamente costituire una ipotesi autonoma, in quanto slegata anche dalla circostanza che la falsità investa l’attestazione di conformità, dal momento che la Corte sembra accontentarsi della circostanza che la copia prodotta sia «comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente» (corsivo nostro).

Che tale aggiunta sia potenzialmente di primaria importanza lo dimostra il fatto che il suo recepimento significherebbe che, al contrario di quanto finora visto, la Corte nella sostanza ha avallato il secondo tra gli indirizzi principali in esame, individuando quindi, per ciò che più conta, un’area di rilevanza penale per le condotte di formazione di copia di documenti inesistenti più ampia di quella ricavabile dal principio di diritto.

 

9. A questo punto, sembra doveroso almeno un tentativo di indagare l’origine dell’incongruenza e darne una possibile spiegazione.

Quando le Sezioni Unite procedono a esporre l’indirizzo giurisprudenziale ritenuto «maggiormente condivisibile», indicano i precedenti rilevanti in due pronunce di legittimità: oltre a una decisione del 1998[8], viene citata la sentenza Favia (Sez. V, 7385/2008). Quest’ultima, a ben vedere, era stata già richiamata dalla Corte, nell’ambito della ricostruzione iniziale, e ricondotta al primo filone interpretativo, sebbene a prima vista – come altre pronunce di contenuto affine – potesse apparire espressione di un orientamento distinto: ciò in base all’argomento per cui, pur richiedendo astrattamente ai fini della sussistenza del reato che la copia fosse idonea ad attestare l’esistenza dell’originale, in concreto si richiedevano caratteristiche assimilabili a quelle di una copia autentica.

E in effetti, questa come le altre sentenze, più recenti, che affermano di accontentarsi della circostanza che l’atto sia comunque documentativo dell’esistenza di un atto corrispondente, al momento di esaminare il caso concreto, una volta escluso che la fotocopia sia priva dei requisiti di forma e sostanza tali da farla sembrare un originale o una copia autentica, invariabilmente escludono anche, in modo incidentale quanto perentorio, la detta “idoneità documentativa”[9].

Peraltro, anche laddove a tale criterio sembra riconosciuta una maggiore autonomia, come nella sentenza Favia, è impossibile valutarne la rilevanza pratica, poiché nel caso di specie la Corte osservava che la fotocopia – riproducente una falsa ordinanza di custodia cautelare – non aveva, «per verosimiglianza, alcuna attitudine a trarre inganno i terzi».

Insomma, non sembra che nel diritto vivente anteriore alla decisione delle Sezioni unite la formula citata fosse dotata di una reale funzione selettiva delle fattispecie penalmente rilevanti, risolvendosi piuttosto in una duplicazione di concetti già esistenti: l’idoneità ad attestare l’esistenza di un documento originale può dirsi certamente presente quando l’atto ha parvenza di originalità (eventualmente anche come copia autentica), e con altrettanta sicurezza può ritenersi esclusa quando l’atto è un falso innocuo, ma si fatica a individuare una situazione di fatto in cui tale criterio possa distaccarsi dalle categorie note e assumere invece una fisionomia propria.

Sul punto, d’altro canto, le stesse Sezioni unite non fanno ricorso ad alcun tipo di esemplificazione, né risulta di aiuto guardare a come nel caso in esame hanno deciso il ricorso loro rimesso: la Corte in effetti ribadisce di dover verificare, al di là della apparenza di originalità, se l’atto sia «documentativo dell’esistenza di un atto corrispondente» (così nuovamente avvalorando l’idea di uno scarto rispetto a quanto stabilito nel più sintetico principio di diritto), ma l’irrilevanza penale del fatto sembra fondata principalmente sulla circostanza per cui la fotocopia del permesso di costruire – «in ragione sia del numero dell’autorizzazione, non corrispondente alla relativa sequenza cronologica, sia della diversità del modulo e del tipo di timbro adoprati dal Comune, oltre che della non autenticità della sottoscrizione ivi apposta» – era da ritenersi «visibilmente riconoscibile» come falsa. Sembrerebbe, nella sostanza, una decisione motivata sulla natura grossolana del falso, senza quindi che se ne possano trarre utili spunti per concretizzare quel criterio ulteriore.

 

10. Un’ultima riflessione, ricollegabile al ragionamento svolto sin qui, riguarda i rapporti tra la questione esaminata dalle Sezioni unite e il tema più generale della nozione di atto rilevante ai fini della tipicità dei delitti di falso.

In tema di copie di atti inesistenti, come visto sopra, sentenze di legittimità recenti e anche recentissime (depositate in pendenza della rimessione alle Sezioni unite)[10] hanno escluso che possa integrare falso materiale una semplice fotocopia presentata come tale, argomentando principalmente sull’inidoneità a svolgere funzione probatoria di rapporti giuridici quale connotato che impedirebbe di ravvisare l’oggetto materiale del reato.

Il problema della definizione del documento (qui, dell’«atto pubblico») su cui devono ricadere le condotte di falsificazione è oggetto di un dibattito risalente, e la dottrina ancora evidenzia la difficoltà di proporre una ricostruzione unitaria[11].

Da questo punto di vista, è particolarmente apprezzabile la scelta con cui le Sezioni unite hanno ritenuto di impostare l’argomentazione in termini che consentono di prescindere da una questione tanto incerta[12].

Così, infatti, sembra doversi leggere l’osservazione per cui sarebbe fuorviante interrogarsi sulla «falsificabilità del documento-fotocopia» anziché, più correttamente, sulla possibilità di contraffazione «mediante fotocopia» di un documento – aggiungiamo: almeno quando tale documento, se esistesse, sarebbe indubbiamente un atto pubblico (si pensi, nel caso in esame, al permesso di costruire). In altri termini, non occorre fare riferimento all’efficacia probatoria della fotocopia (o a un qualche altro criterio che la renda suscettibile di integrare la nozione di “atto” rilevante), poiché questa è soltanto uno strumento tecnico con cui ben può concretizzarsi la forma di aggressione alla fede pubblica tipizzata dall’art. 476, ossia la creazione di apparenza documentale di un atto pubblico che in realtà non esiste[13].

Questa prospettiva consente fornisce anzitutto un solido argomento per affermare la rilevanza penale delle ipotesi di fotocopia con apparenza di originale: risultato a cui invero giungeva già la giurisprudenza unanime, ma appunto sulla scorta di un ragionamento più fragile, nella misura in cui presupponeva incerti distinguo in punto di oggetto materiale del reato.

Al contempo, questa stessa prospettiva rappresenta una possibile chiave di lettura rispetto all’ulteriore ipotesi di rilevanza penale che la Corte individua in motivazione. In ultima analisi, infatti, guardare alla fotocopia in termini di strumentalità rispetto alla falsificazione è un criterio che, portato alle naturali conseguenze, induce a ricondurre nella tipicità anche i casi in cui appunto la copia in qualche modo dimostra l’esistenza dell’originale, posto che anche così si è creata una falsa apparenza documentale, necessaria ma anche sufficiente per integrare il reato.

Questa interpretazione, per coerenza e fondamento sistematico, avvalora l’idea di ritenere che l’idoneità documentativa non sia mera riproduzione dell’apparenza di originalità, bensì meriti il riconoscimento di una funzione propria. Tuttavia, rispetto alle criticità sopra evidenziate, i dubbi non sono completamente dissipati: restano comunque la discrepanza con il principio di diritto e, soprattutto, anche una volta che ne sia rivendicata l’autonomia concettuale, la difficoltà di attribuire un significato pratico a tale ulteriore ipotesi di rilevanza penale, che continua a rimanere sfuggente.

 

[1] Cass., Sez. V, ord. 21 novembre 2018 (dep. 6 dicembre 2018), n. 54689, Pres. Palla, Est. Zaza (consultabile a questo link).

[2] Si tratta di una citazione che la Corte riprende da altra pronuncia delle Sezioni unite, ossia la sent. Schera (27 giugno 2006, dep. 28 settembre 2006, n. 32009), relativa però alla configurabilità del delitto di falso ideologico (ravvisato nella condotta dell’avvocato produca in giudizio un verbale di indagini difensive redatto in modo infedele).

[3] Il primo precedente è individuato in Cass., Sez. V, 17 giugno 1996, n. 7717, Jacobacci, in CED, Rv. 205547.

[4] Tra le pronunce citate Cass., Sez. V, 2 dicembre 2004, n. 5401/2005, Polloni, in CED, Rv. 231171; Cass., Sez. V, 19 gennaio 2016, n. 8900, Paoloni, in CED, Rv. 267711.

[5] Gli argomenti sul punto sono ripresi, nella sostanza e anche testualmente, da Cass., Sez. V, 25 maggio 2015 (dep. 6 luglio 2015), n. 28723, Barone, non massimata (v. in banca dati Pluris).

[6] È il caso delle sentenze Jacobacci, Polloni e Paoloni, citate in questa scheda alle note precedenti.

[7] Cfr. R. Bartoli, Le falsità documentali, in Reati contro la fede pubblica, a cura di M. Pelissero – Bartoli, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero, Giappichelli, 2011, p. 211-213, che distingue appunto un primo orientamento per il quale «la creazione della mera copia fotostatica senza una sua autenticazione non integra una falsità punibile», un secondo in base al quale «si deve fare riferimento al modo in cui la fotocopia viene utilizzata» e infine un terzo, ritenuto dall’A. «più condivisibile», «che si basa su un criterio oggettivo», per cui la riproduzione fotostatica deve avere l’apparenza di un originale.

[8] Cass., Sez. V, sent. 22 maggio 1998, Celestini, in CED, Rv. 211443, relativa alla contraffazione di un permesso di parcheggio realizzata con caratteristiche tali da renderlo identico all’originale «per dimensioni, colore, forma, dati riportati, tipo di stampa dei dati».

[9] Così Cass., Sez. V, sent. 10 novembre 2017 (dep. 19 gennaio 2018), n. 2297, D’Ambrosio, in CED, Rv. 272363 (a proposito dell’invio a una banca di un fax riproducente un certificato di pagamento in realtà mai emesso da un Comune) e Cass., Sez. V, sent. 9 ottobre 2014 (dep. 27 febbraio 2015), n. 8870, Felline, in CED, Rv. 263422 (relativa alla trasmissione via fax al direttore dei lavori di una autorizzazione amministrativa inesistente e di una d.i.a. recante un timbro comunale di deposito mai avvenuto).

[10] È il caso di Cass., Sez. V, sent. 26 ottobre 2018 (dep. 23 gennaio 2019), n. 3273, Buccella, in CED, Rv. 274628 (pronunciatasi sul caso di contraffazione parziale della fotocopia di un atto notarile di compravendita presentata come tale, e non come originale).

[11] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol. 1, Zanichelli, 2012, p. 587.

[12] G. Fiandaca – E. Musco, op. cit., p. 553 osservano come appaia «sempre meno accettabile che il discrimine tra “punibile” e “non punibile” venga non di rado fatto dipendere dalla soluzione di questioni giuridiche eccessivamente sottili», riferendosi proprio a quelle che interessano il concetto di documento nei delitti di falso.

[13] Al contrario, nell’ottica delle Sezioni unite, la fotocopia in sé considerata – al di fuori cioè dei casi in cui rappresenta falsamente un atto pubblico – non sembra invece assumere natura di atto pubblico: tanto che, qualora venga in considerazione una condotta di alterazione incidente su una fotocopia già formata (da altri), le stesse Sezioni unite ritengono configurabile un falso in scrittura privata, depenalizzato a seguito del d.lgs. 7/2016.