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  Scheda  
18 Novembre 2019


Sottrazione di cani da uno stabulario in occasione di un raid animalista (caso Green Hill): la Cassazione interpreta restrittivamente la nozione di ‘profitto’ nel dolo specifico e annulla la condanna per furto

Cass. Sez. V, 1.7.2019 (dep. 2.10.2019), n. 40438, Pres. Sabeone, Rel. Scordamaglia, ric. Stawika



Per il testo della sentenza annotata clicca qui.

 

1. La sentenza in esame ha ad oggetto la sottrazione, da parte di un gruppo di animalisti e durante una manifestazione, di cani di razza beagle da uno stabilimento in cui gli animali venivano maltrattati e uccisi. La Cassazione si occupa del reato di furto in abitazione ex art. 624 bis c.p. – questo il delitto ritenuto configurabile nei giudizi di merito –  sotto svariati profili: si discute della possibilità che gli animali costituiscano oggetto di diritti reali, e quindi oggetto del reato di furto; della possibilità di ricondurre alla nozione di “privata dimora” uno stabilimento adibito ad allevamento di cani; della configurabilità del dolo specifico del profitto qualora gli imputati abbiano commesso il reato per vedere affermato un proprio ideale, quale quello della dignità degli animali, e quindi per soddisfare un proprio bisogno morale, come quello a non dover sopportare maltrattamenti a danno degli stessi. Infine, la S.C. si sofferma sulla configurabilità del concorso di persone in un’ipotesi – come quella in esame – in cui solo alcuni degli imputati avevano realizzato la condotta di sottrazione degli animali, essendosi gli altri limitati ad atti di protesta privi di rilevanza causale rispetto al furto. La questione più interessante attiene – lo si anticipa – alla nozione di profitto, alla cui realizzazione la condotta dell’agente dovrebbe essere rivolta, perché possa risultare integrato il reato di furto: la Cassazione ne dà qui una lettura restrittiva, abbracciando le posizioni di quanti, in dottrina, da tempo sottolineano il rischio che una lettura estensiva di tale concetto possa portare a una sostanziale abrogazione del requisito del dolo specifico, con illimitata espansione dell’area applicativa del furto.

 

2. I fatti: il 28 aprile 2012 dodici animalisti si introducevano nell’allevamento di cani beagle Green Hill di Montichiari, nel Bresciano, i cui responsabili sarebbero stati in seguito (sent. 6 marzo 2018, n. 10163) irrevocabilmente condannati per uccisione e maltrattamento di animali, e sottraevano sessantasette cani. Il Tribunale di Brescia, con sentenza del 9 novembre 2015, condannava gli animalisti per il delitto di furto in abitazione in concorso pluriaggravato (art. 624-bis c.p.), pur ritenendo prevalente sulle aggravanti l’attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale. La sentenza veniva confermata dalla Corte d’Appello di Brescia con sentenza del 24 maggio 2018. Gli imputati ricorrevano quindi per Cassazione.

 

3. Le censure dei ricorrenti prese in esame dalla S.C. riguardano essenzialmente quattro punti.

a) In primo luogo, si dubita che gli animali, in quanto esseri senzienti meritevoli di tutela quanto alla salvaguardia del loro benessere, possano essere equiparati alle cose mobili oggetto del diritto di proprietà, e quindi costituire oggetto materiale del delitto di furto.

b) In secondo luogo, si contesta che il capannone destinato ad ospitare cagne gravide e fattrici, l’unico preso d’assalto dai ricorrenti, possa essere considerato un luogo, interdetto agli estranei, nel quale si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e quindi che esso possa ricadere nella nozione di “privata dimora” rilevante ai sensi dell’art. 624-bis c.p.

c) La terza censura attiene alla configurabilità del dolo specifico richiesto ai fini dell’integrazione del delitto di furto: l’impossessamento dei cani non sarebbe stato animato dal fine di conseguire dagli animali un’utilità, neppure di ordine morale, bensì da quello di sottrarli da un luogo di prigionia; dilatare la nozione di profitto fino a ricomprendervi “l’interesse alla concretizzazione della manifestazione e all’affermazione dei propri principi” significa renderla indistinguibile dal movente dell’azione, sostanzialmente abrogando il requisito del dolo specifico di profitto.

d) Infine, alcuni dei ricorrenti contestavano che le condotte da loro poste in essere – consistenti nella partecipazione alla manifestazione di protesta, nell’introduzione all’interno dello stabilimento della Green Hill, nell’opposizione alle Forze dell’Ordine e nella presa in carico dei cani – potessero costituire condotte atipiche rilevanti ai fini del concorso nel reato di furto: mancherebbero infatti sia la prova relativa alla previa concertazione sulle modalità dell’azione, sia la motivazione in relazione al tipo di contributo causale posto in essere da ciascun partecipe, alla sua efficacia eziologica rispetto all’evento e alla consapevolezza, in capo a ciascun agente, di agevolare il fatto di reato posto in essere dagli autori principali.

 

4. Per quanto attiene anzitutto alla configurabilità degli animali come oggetto materiale del delitto di furto, la Corte, richiamando la sentenza n. 22728 del 25 settembre 2018 della Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione, rigetta le censure dei ricorrenti. Nonostante gli animali abbiano sempre suscitato nell’uomo un senso di protezione e finanche di affetto, e siano per questo stati destinatari di precetti di natura pubblicistica volti alla loro salvaguardia, essi sono privi della capacità giuridica che l’ordinamento riconosce solo alle persone fisiche e giuridiche; essi sono beneficiari della tutela apprestata dal diritto e non i titolari di un diritto alla tutela giuridica e devono, pertanto, essere considerati cose mobili, beni che possono costituire l’oggetto di diritti reali, e quindi essere oggetto del delitto di furto.

 

5. La Corte si occupa, poi, della possibilità di qualificare lo stabilimento della Green Hill come “privata dimora”. Sul punto, la Corte accoglie le censure dei ricorrenti: la sentenza di Appello aveva desunto la natura di “privata dimora” dello stabulario della Green Hill – adibito a ospitare le cagne gravide e i cuccioli – dal fatto che tale luogo era interdetto agli estranei e protetto da misure di sicurezza, omettendo, tuttavia, di motivare in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 31345 del 23 marzo 2017) ai fini dell’attribuzione della qualifica di “privata dimora”: essere il luogo stabilmente destinato allo svolgimento della vita privata, al riparo da intrusioni dei terzi, che non possono avere accesso al luogo in assenza del consenso del titolare dello ius excludendi. La Corte ammette la possibilità di estendere la nozione di privata dimora fino a ricomprendervi i luoghi di lavoro, purché essi abbiano i caratteri dell’abitazione, la persona svolgendo in essi atti della vita privata in modo riservato, ma riconosce che nessuna motivazione è stata fornita dalla sentenza di merito in ordine al concreto utilizzo del capannone adibito a stabulario per finalità abitative o comunque riservate. Di conseguenza, la Cassazione riqualifica il fatto da furto in abitazione a furto semplice.

 

6. Il profilo di maggior rilievo affrontato dalla sentenza in esame riguarda il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice del furto, la quale richiede notoriamente che il fatto sia commesso al fine di trarne profitto. Occorre premettere che sulla nozione di “profitto” si riscontrano, in dottrina come in giurisprudenza, contrasti: la giurisprudenza consolidata ne accoglie un’interpretazione estensiva, che ricomprende in tale concetto ogni utilità, anche di natura morale, che l’agente si proponga di ritrarre dall’illecito; la dottrina maggioritaria, al contrario, sottolinea che una tale dilatazione della nozione di profitto equivarrebbe a una sostanziale abrogazione del requisito del dolo specifico, che verrebbe sempre ritenuto sussistente, in quanto il profitto verrebbe a coincidere col movente dell’azione (a sua volta sempre esistente, essendo ogni azione umana sorretta da un motivo)[1]. In dottrina si sono così fatte strada interpretazioni maggiormente restrittive, che assegnano al profitto natura intrinsecamente patrimoniale, o quanto meno economicamente valutabile: un primo filone di studiosi esclude dalla nozione di profitto qualsiasi utilità di natura non patrimoniale, mentre un secondo orientamento, c.d. “intermedio”, ricomprende entro tale nozione “ogni incremento della capacità strumentale del patrimonio di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale”. La sentenza qui in commento, discostandosi dai precedenti più numerosi, accoglie l’interpretazione intermedia, invero già condivisa dalla Quinta Sezione, con la sentenza 30073 del 23 gennaio 2018: il profitto si identifica, ad avviso della Corte, nella “finalità di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale, eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione”. Tale interpretazione è corroborata dall’inserimento della norma sul furto nel catalogo dei reati contro il patrimonio, nonché dalla stessa previsione del dolo specifico, che non avrebbe più alcuna funzione qualora si intendesse il profitto in un’accezione tanto ampia da comprendere ogni utilità, anche di natura morale; un’interpretazione onnicomprensiva della nozione di profitto amplierebbe a dismisura la sfera applicativa della norma sul furto, la cui ratio è, invece, quella di scoraggiare l’arricchimento parassitario dell’agente a discapito di altri: l’azione di colui che s’impossessi del bene altrui per scopi diversi dall’arricchimento, si caratterizzerà per un minor disvalore, o comunque per la lesione di beni giuridici diversi dal patrimonio[2]. La Corte annulla, così, la sentenza impugnata, demandando al giudice del rinvio l’individuazione dell’utilità che gli agenti si prefiggevano di realizzare attraverso il furto dei cani: secondo quanto emerge dalla lettura della motivazione della sentenza di secondo grado, infatti, i manifestanti non si ripromettevano di trarre dagli animali nemmeno un’utilità morale, di natura affettiva (non avevano agito con l’intenzione di tenerli con sé); ciò che si proponevano era, invece, di dimostrare il proprio sdegno per le condizioni in cui i cani venivano costretti a vivere; tale proposito si identifica, secondo la Corte, non nel dolo specifico dell’azione, bensì nel suo movente.

 

7. La S.C. conclude con la questione relativa alla responsabilità concorsuale. Ai fini del concorso di persone nel reato, come è noto, è sufficiente: a) che il concorrente ponga in essere una condotta atipica che acceda a un fatto tipico: si tratterà di una qualsiasi condotta di agevolazione alla preparazione o alla consumazione del fatto tipico; b) che la condotta atipica contribuisca causalmente alla realizzazione del fatto concreto tipico realizzato dall’autore principale; c) che il partecipe versi in dolo sia rispetto alla realizzazione del fatto tipico, sia rispetto al contributo causale della sua azione rispetto a quel fatto. È onere del giudice precisare in cosa sia consistita la condotta atipica, in quale modo essa sia stata condizione necessaria al realizzarsi del fatto tipico di reato, da quali indici sia possibile dedurre che il concorrente si era rappresentato e voleva contribuire alla realizzazione del fatto tipico; tale onere probatorio non è stato, ad avviso della Cassazione, assolto dalla sentenza d’Appello, la quale ha presunto una “comune volontà di sottrarre gli animali”, senza preoccuparsi di specificare attraverso quali indici fosse possibile affermare “la responsabilità di ciascuno degli imputati senza operare un netto distinguo tra chi abbia materialmente preso i cani dai box e chi abbia sostenuto tale azione mediante la presenza all’interno dell’allevamento”.

La Corte conclude quindi con l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio a diversa sezione della Corte d’Appello, perché siano colmati i vizi e le lacune di motivazione.

  

[1] È la tesi di F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, CEDAM, 2018

[2] Per un caso nel quale invece, sulla base di una nozione estensiva di ‘profitto’, è stato ritenuto responsabile di rapina l’uomo che si era appropriato del cellulare della ex amante al fine di far leggere al padre di lei gli sms ivi memorizzati, v. Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015 (19 marzo 2015), n. 11467, Est. Gallo, Imp. Carbone,  in Dir. Pen. Cont., 22 maggio 2015 con nota di F. SALVATORE, Risponde di rapina il soggetto che s'impossessa del telefono della fidanzata allo scopo di leggere gli sms. Riflessioni sulla nozione di profitto.