Nota a Cass., Sez. I, 30 marzo 2022 (dep. 21 settembre 2022), n. 34895, Pres. Tardio, Rel. Casa, ric. Di Lorenzo e altri
Pubblichiamo in allegato, con a seguire una nota della dott.ssa Gaia Tessitore, la sentenza della Prima Sezione penale della Cassazione della quale molto si è parlato sulla stampa, nei giorni scorsi, per via di un annuncio dato in apertura del Consiglio dei Ministri del 17 luglio 2023, che qui riportiamo testualmente dal relativo comunicato stampa, pubblicato sul sito del Governo: "In apertura del Consiglio dei Ministri, il Presidente Giorgia Meloni ha sottolineato l’importanza delle implicazioni della sentenza della Corte di Cassazione n. 34895 del 2022, relativa al regime delle intercettazioni ambientali nei delitti di criminalità organizzata, e alle conseguenze che l’applicazione generalizzata dei principi dettati da tale sentenza potrebbe avere sui procedimenti penali già in corso per reati di tipo associativo. In alcuni casi, ciò potrebbe comportare l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente, che consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo. Pertanto, anche in considerazione delle richieste pervenute in tal senso da alcuni tribunali, il Governo ritiene necessaria e urgente l’adozione di una norma d’interpretazione autentica, che chiarisca cosa debba intendersi per “reati di criminalità organizzata” e che eviti l’applicabilità in senso generalizzato dell’interpretazione di recente avanzata dalla Corte di Cassazione. L’intenzione, d’intesa col Ministro della giustizia, è di inserire questa norma in un decreto legge di prossima approvazione".
Nell'offrire ai lettori un primo contributo di approfondimento, relativo alla sentenza della Prima Sezione della Cassazione e alla sottesa questione di diritto, non si può sin d'ora non segnalare quanto susciti perplessità intervenire con un decreto-legge per superare l'interpretazione di una sentenza di una sezione semplice della Cassazione - non delle Sezioni Unite -, pubblicata quasi un anno fa. L'annunciato intervento normativo, se realizzato, darebbe luogo a un rilevante dibattito sul rapporto tra legge e giudice. Una mancata rimessione alle Sezioni Unite - necessaria/opportuna o meno che sia - può dar luogo a un intervento del Governo per introdurre una norma di interpretazione autentica, scavalcando così l'ordinario processo nomofilattico della Cassazione? (Gian Luigi Gatta).
1. La questione sottoposta alla Corte di cassazione. - L’ordinamento penale si è progressivamente dotato di strumenti processuali differenziati per adattarsi alle esigenze sottese all’accertamento di particolari fenomeni criminali, assegnando rilievo di categoria ai delitti di “criminalità organizzata”. Le politiche legislative del cd. doppio binario processuale hanno riservato ai delitti di mafia e di terrorismo e, in genere, ai delitti appunto di “criminalità organizzata”, uno statuto in gran parte derogatorio rispetto alla ordinaria disciplina, tenendo soprattutto conto delle peculiari difficoltà, in termini di raccolta della prova, che si sperimentano nel contrasto di tali forme criminali. L’ambito applicativo delle relative disposizioni non è agilmente definibile, giacché la nozione di “criminalità organizzata” non è di facile individuazione anche per il fatto che, nel tempo, si è avvertita l’esigenza di ricondurre ad essa un ventaglio alquanto composito di manifestazioni criminali.
Ad oggi, dopo rilevanti pronunce anche delle Sezioni unite della Corte di cassazione[1] e un significativo lavoro dottrinale, la definizione è circoscritta a quelle ipotesi che riguardano attività criminose di varia natura – pure non incluse in norme del codice di rito che contengono elencazioni di reati – commesse da una pluralità di soggetti organizzati in un apposito apparato, ad esclusione del mero concorso di persone.
In questo contesto ricostruttivo del significato di una formula dai contorni non tassativamente definiti, la Prima sezione della Corte di cassazione è stata richiesta di dare conto se un reato non associativo, un omicidio, ma aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991[2], oggi art. 416-bis.1 c.p.[3], potesse essere ricondotto alla categoria, al fine dell’applicazione della disciplina speciale in tema di intercettazioni di conversazioni contenuta nell’art. 13 del menzionato d. l. n. 152 del 1991[4], e se dunque fosse fondata o meno la deduzione di inutilizzabilità dei risultati delle operazioni che, altrimenti, sarebbero risultate difformi rispetto a precise prescrizioni poste, appunto, a pena di inutilizzabilità.
La Corte di cassazione ha censurato la decisione della Corte di appello di rigetto dell’eccezione di inutilizzabilità, rilevando che essa si fondava su una erronea interpretazione del principio di diritto della nota pronuncia delle Sezioni unite, cd. sentenza Scurato; in particolare non ha condiviso l’assunto per il quale tutti i delitti inclusi nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p. (e dunque anche delitti, non associativi, commessi avvalendosi delle condizioni dell’art. 416-bis c.p.p. ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dalla medesima disposizione) siano di “criminalità organizzata” al pari di quelli, sì inseriti in quell’elenco, ma riconducibili a paradigmi associativi.
La Corte di appello aveva ravvisato un contrasto tra la menzionata sentenza Scurato e la precedente sentenza, sempre delle Sezioni unite, cd. sentenza Donadio, nella quale si è detto (con riferimento alla disciplina della sospensione feriale dei termini di cui all’art. 2, comma secondo, della l. 7 ottobre 1969, n. 742[5]) che il solo fatto che un reato (in quel caso erano stati contestati una serie di episodi di omicidio, ricettazione e di porto d’armi) sia aggravato dalla circostanza di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 non può comportarne l’inclusione nella categoria della criminalità organizzata.
La Corte di cassazione ha di contro rilevato l’assenza di contrasti nella giurisprudenza delle Sezioni unite ed ha annullato la sentenza dando mandato al giudice del rinvio di verificare se, correttamente interpretando la nozione di delitti di “criminalità organizzata”, fosse possibile ritenere, anche sulla base degli atti prodromici alla emissione del decreto autorizzativo, che il procedimento avesse comunque ad oggetto un procedimento di criminalità organizzata.
2. I precedenti giurisprudenziali e il difficile punto di equilibrio tra le diverse interpretazioni. La questione ha origini lontane. La legge-delega per il vigente codice di procedura penale – art. 2 n. 48 della l. n. 81 del 1987[6] – fece riferimento ai ‘processi di criminalità organizzata’ al fine di prevedere per essi una durata delle indagini preliminari fino a due anni, così come poi disposto dall’art. 407, comma 2 lett. a), c.p.p. nel quale sono elencati i delitti previsti dagli artt. 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, 416-bis, 422, 630 c.p. e poi dall’art. 75 della l. 22 dicembre 1975 n. 685 (poi sostituito dall’art. 74 del d.P.R. del 9 ottobre 1990). La disposizione di delega fece propendere, in un primo momento, per l’interpretazione secondo cui il legislatore aveva qualificato procedimenti di criminalità organizzata solo quelli aventi ad oggetto contestazioni di quelle specifiche ipotesi di reato.
A pochi anni di distanza dall’entrata in vigore del codice intervenne il d.l. n. 152 del 1991 che, con il suo art. 13, pose il problema della effettiva portata precettiva delle disposizioni derogatorie in punto di intercettazioni[7] introdotte in una stagione legislativa connotata dal chiaro obiettivo di perseguire fenomeni di criminalità organizzata tendenzialmente di tipo mafioso[8].
Da allora si sono delineati due percorsi per individuare le ipotesi da poter ricondurre a quel concetto.
All’inizio ci si concentrò nella ricognizione delle disposizioni processuali che contenessero espressamente la locuzione criminalità organizzata (art. 54-ter c.p.p.; art. 274, comma 1 lett. c), c.p.p.; art. 371-bis, comma 3 lett. c), c.p.p.) ovvero che elencassero comunque un catalogo di fattispecie (art. 51, comma 3-bis, c.p.p.; 372, comma 1-bis, c.p.p.; art. 407, comma 2 lett. a), c.p.p.).
Successivamente, facendo leva su un approccio criminologico-teleologico, si è preferito attribuire un significato meno rigido alla nozione, valorizzando le finalità dell’impianto legislativo che deroga (o modifica per le singole ipotesi) la disciplina processuale, con la conseguenza che ad essere comprese nella categoria sono le condotte più eterogenee, tutte però caratterizzate da un apparato organizzativo, dovendosi escludere il mero concorso di persone nel reato.
Quest’indirizzo è stato confermato nel 2005 quando, con riferimento alla sospensione dei termini feriali, la Sezioni unite spiegarono che la nozione di criminalità organizzata identifica non solo i reati di criminalità mafiosa o quelli ad essa assimilabili, ma anche i delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, nonché qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., correlata ai programmi più diversi, con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale, appunto, manca il requisito dell’organizzazione[9].
Il concetto, che pure lascia spazio a qualche zona grigia, è stato utilizzato anche nei successivi arresti che, nel tentativo di esplicitare meglio il significato della formula, si sono premurati di specificare che un reato che non abbia quelle caratteristiche strutturali, anche se aggravato dal ‘metodo’ mafioso, non può considerarsi un reato di criminalità organizzata, con la conseguenza che può considerarsi tale solo quello che si sostanzia in una fattispecie di reato caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di più reati[10].
Poco prima di quest’ultimo approdo, però, le Sezioni unite, pronunciandosi sulla compatibilità dell’aggravante di cui al citato art. 7 con i delitti punibili con la pena dell’ergastolo, affermarono con nettezza, sia pure, sul punto, senza adeguata motivazione, che la contestazione dell’aggravante fa sì che il relativo procedimento debba aver riguardo, per l’individuazione della disciplina delle intercettazioni, alle previsioni derogatorie di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, quale che sia il reato, la struttura del reato, qualificato dall’aggravante. L’unica notazione che può essere ora di qualche rilievo, contenuta in questa pronuncia, attiene alla individuazione della finalità che mosse il legislatore del decreto n. 152 del 1991, “di privilegiare una strategia trasversale e complessiva di contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, assai più ampia e articolata … e destinata a dispiegare una serie … cospicua di effetti giuridici, ben oltre il momento applicativo della pena … mediante l’instaurazione di un regime processuale differenziato e di meccanismi di esecuzione della pena in termini di più severa effettività”[11].
Da ultimo, le Sezioni unite sono tornate a pronunciarsi sui confini applicativi della nozione. Il quesito posto alla loro attenzione verteva sulla possibilità di disporre intercettazioni ambientali attraverso il malware inserito in dispositivi elettronici – cd. trojan horse –, nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. in procedimenti per delitti di criminalità organizzata. Hanno così chiarito che, in quei procedimenti, quel meccanismo intercettivo può essere impiegato poiché l’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991 introduce, appunto, un’esplicita deroga alla disposizione di cui all’art. 266, comma 2, c.p.p., e ciò esime dall’obbligo di indicazione, ai fini del provvedimento autorizzativo, di uno specifico luogo per le operazioni di intercettazione attraverso l’utilizzo del captatore informatico.
La normativa derogatoria consente le intercettazioni nei luoghi di privata dimora senza necessità di ipotizzare lo svolgimento in atto di attività criminosa. Ma, appunto, cosa deve intendersi per delitti di criminalità organizzata?
Le Sezioni unite, dopo una ricognizione della materia, hanno concluso che la nozione fa riferimento “non solo ai reati elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. ma anche a quelli facenti capo ad un’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.
La conclusione, a dispetto di una impressione a prima lettura, non è di univoca lettura, e del resto la sentenza in commento né è attestazione. Queste in breve le ragioni.
Le Sezioni unite, per dare sostegno all’assunto appena richiamato, hanno ricordato, al fine di condividerne impostazione e soluzione, i contenuti della cd. sentenza Petrarca, in particolare il passaggio argomentativo in cui si è ritenuta “condizione sufficiente e necessaria, ai fini dell’integrazione di una fattispecie di criminalità organizzata, la sussistenza del requisito della stabile organizzazione programmaticamente ispirata alla commissione di più reati, e ciò in considerazione del particolare allarme sociale che qualsiasi struttura associativa criminale suscita nell’opinione pubblica”. E hanno richiamato la sentenza Donadio per la parte in cui in essa è stato affermato che sono delitti di criminalità organizzata quelli che si identificano in “una qualsiasi fattispecie caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di più reati”.
Con queste precisazioni hanno reso meno chiaro il dispositivo finale e specificamente il richiamo ai cataloghi dei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 c.p.p., in cui sono compresi reati che ben possono essere, nella concretezza delle specifiche vicende, del tutto estranei ad una stabile organizzazione, ad una struttura associativa, appunto perché semplicemente aggravati per l’impiego del cd. metodo mafioso o per la finalità di agevolazione mafiosa. Del resto, e il dato potrebbe essere significativo, le Sezioni unite non hanno richiamato tra i propri precedenti la sentenza Antonucci che, come si è detto, aveva invece ricondotto senza alcuna incertezza tutti i reati menzionati nell’art. 51 c.p.p. alla nozione in esame.
Si tratta, è bene precisare, di manifestazioni aggravatrici che, come affermato in giurisprudenza, non si risolvono per necessità, e quindi sempre, nel riconoscimento di legami di alcun tipo tra il reato e un contesto di stabile organizzazione programmaticamente diretta alla commissione di più reati, per dirla, ancora una volta, con la sentenza Donadio delle Sezioni unite.
Conviene dare conto, sia pure sommariamente, di quali siano le condizioni che giustificano il riconoscimento della menzionata aggravante per comprendere, come prima si è avvertito, se il richiamo fatto dalla cd. sentenza Scurato al catalogo dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. debba essere inteso alla luce delle pur chiare indicazioni di premessa in ordine alla individuazione dei reati di criminalità organizzata come manifestazione di una stabile organizzazione programmaticamente diretta alla commissione di plurimi fatti delittuosi, facendo in tal modo operare questa indicazione all’interno del catalogo in funzione di una migliore e più appropriata selezione dei reati riconducibili alla categoria. O se, di contro, sia un richiamo del tutto autosufficiente, capace di giustapporre i reati ivi elencati a quelli “comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”. In modo che, non soltanto in assenza di fatti di concorso ma vieppiù di una organizzazione criminale di cui sia in qualche modo espressione, un singolo reato possa essere inteso e definito di criminalità organizzata.
Ancora una volta una decisione, questa volta più recente, delle Sezioni unite offre utili indicazioni a proposito. Il riferimento è alla sentenza con cui si è definita la natura soggettiva dell’aggravante della finalità di agevolazione mafiosa[12]. In quella occasione si è tratteggiata, sulla falsariga di una interpretazione consolidata, la duplice fisionomia dell’aggravante di cui ora all’art. 416-bis.1 c.p.
Per quel che attiene all’articolazione oggettiva, le Sezioni unite hanno puntualizzato che essa ricorre ogni qual volta vi sia l’utilizzazione della forza intimidatoria che – ed è questa la notazione di rilievo – “a prescindere da qualsiasi legame del suo autore con l’organizzazione mafiosa o con l’esistenza stessa di tale compagine in quel contesto, ne mutui le modalità di azione…, per proporre il clima di assoggettamento che le è caratteristico”.
Quanto poi all’articolazione soggettiva, le Sezioni unite hanno evidenziato che il dato essenziale è che “l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa…”; “…che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416-bis cod. pen….”; che vi sia l’“effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione”.
Le Sezioni unite hanno aggiunto che neanche nella forma dell’agevolazione mafiosa l’aggravante implica per necessità “un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo”.
Il discorso ha assunto maggiore chiarezza al momento della comparazione dell’autore di un qualunque fatto criminoso così aggravato con il cd. concorrente esterno, perché il Supremo Collegio ha specificato che soltanto il concorrente ha un rapporto effettivo e strutturale con il gruppo, della cui natura e funzione ha una conoscenza complessiva, che gli consente di cogliere l’assoluta funzionalità del proprio intervento, ancorché unico, alla sopravvivenza o vitalità del gruppo”; con l’ulteriore e conseguente aggiunta che soltanto nel caso dell’apporto concorsuale “si richiede che si verifichi il risultato positivo per l’organizzazione illecita, conseguente a tale intervento esterno, che si caratterizza per la sua infungibilità”.
Si tratta, allora, di situazioni di aggravamento del fatto criminoso che ben possono prescindere da legami effettivi con organizzazioni stabili dedite programmaticamente alla commissione di una pluralità indefinita di delitti, con la conseguente conclusione che la mera contestazione dell’aggravante non è indice inequivoco della riconducibilità dei fatti ai fenomeni di “criminalità organizzata”.
3. La definizione di criminalità organizzata: necessario un progresso in termini di determinatezza. Come è stato condivisibilmente notato, in ambito di intercettazioni telefoniche il diritto vivente assume un ruolo ambivalente nell’evoluzione del sistema processuale, nel senso che la prassi rappresenta un’utile chiave di lettura della norma e può avere la funzione ora di lente correttiva ora di lente deformante rispetto al dato normativo.
Alcuni interventi giurisprudenziali hanno, in passato, provato a modellare le disposizioni secondo le esigenze delle prassi. Ciò è avvenuto, ad esempio, in materia di cd. udienza stralcio, che per molto tempo è stata marginalizzata nella realtà giudiziaria, e rispetto alla quale le prassi sono state assecondate, financo dalla Corte costituzionale, con interpretazioni largheggianti, del tipo di quella che ne ha consentito la ricollocazione in fase dibattimentale[13].
In riferimento al tema ora in esame, invece, la decisione con cui la Corte di cassazione ha letto il principio di diritto della sentenza Scurato delle Sezioni unite in senso restrittivo, al di là della condivisibilità dell’assunto, mostra una certa resistenza a recepire prassi interpretative probabilmente abbastanza diffuse.
Proprio per arginare estensioni della deroga al regime ordinario, ha negato, come detto, valore dirimente alla contestata aggravante e ha chiesto al giudice del rinvio di verificare, sulla base degli ‘atti prodromici’ all’emissione del decreto autorizzativo e del decreto stesso, la sussistenza di dati indiziari significativi della riconducibilità di quello specifico fatto di omicidio alla categoria dei delitti di criminalità organizzata. Non è secondario qui ricordare che il decreto era stato emesso in altro procedimento iscritto contro ignoti.
In tal modo, la Corte di cassazione ha spostato la questione dalla descrizione dell’imputazione alla individuazione del contesto nel quale era stato consumato quel reato, in linea con quanto specificato dalla sentenza Donadio del 2010[14].
Epperò, vien da osservare, se l’indirizzo fatto proprio dalla Corte di cassazione è stato di ritenere valido l’approccio teleologico o finalistico (che, è utile ricordare, considera dirimente l’individuazione delle finalità specifiche della singola disciplina che deroga alle regole processuali generali), non sembra del tutto corretto il rinvio teso a riscontrare se, prescindendo dalla qualificazione giuridica dei fatti, le indagini avessero ad oggetto un procedimento di criminalità organizzata.
Se in tema di sospensione dei termini feriali la finalità era ed è di evitare che vi possa essere una frammentazione delle indagini o che queste possano subire in qualche modo pause o decelerazioni pregiudizievoli a seconda che si possa applicare o meno quella sospensione, ed è quindi corretto il richiamo al “contesto” o alla collocazione della singola posizione nell’ambito di un procedimento di criminalità organizzata, non altrettanto può valere una volta che si abbia una diversa ratio della disciplina derogatoria.
Il riferimento alla criminalità organizzata giova, nella materia in esame, a giustificare, in ragione della gravità e dell’allarme sociale di contestazioni – come chiarito dalla Scurato – una compressione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni.
E allora, se si considera valida quest’ultima impostazione, sarebbe stato forse maggiormente conforme all’esigenza di garanzia che la Corte di cassazione non desse l’idea, ricorrendo ad un annullamento con rinvio per sostanziale difetto di motivazione, di privare di forza la sua interpretazione.
Né, probabilmente, potrebbe dirsi utile – in quella prospettiva di ‘delimitazione’ del contenuto della formula normativa – verificare l’adeguatezza della motivazione del decreto autorizzativo alla luce dei presupposti ‘ordinari’ degli articoli 266 e 267 c.p.p., come richiesto in via gradata al giudice del rinvio, in quanto la verifica avrebbe dovuto avere ad oggetto, per necessità, anche i termini delle successive, se pur eventuali, proroghe degli ascolti.
L’impressione è che la trasposizione del vizio di inutilizzabilità sul terreno della sufficienza ed adeguatezza motivazionale possa aver ridimensionato la portata del tentativo di ‘specificare’ l’ambito di applicazione del principio di diritto della sentenza Scurato, con effetto diverso, se non opposto, rispetto a quello con ogni probabilità avuto di mira.
D’altronde, la più grave delle sanzioni prevista in ambito probatorio è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento e, quindi, sarebbe stata soluzione accessibile alla Corte rilevarla, per il noto principio che il giudice di legittimità è giudice del fatto processuale e non ha preclusioni a conoscere direttamente dei fatti che sostanziano presupposti applicativi di sanzioni processuali.
Ciò dal momento che, trattandosi di un’ipotesi di omicidio aggravato ex art. 7, il principio di diritto sancito dalla Scurato aveva chiarito che non sarebbe stato possibile applicare la deroga prevista in tema di intercettazioni.
Forse, soluzione migliore sarebbe stata la rimessione del ricorso alle Sezioni unite perché queste specificassero e chiarissero il senso del principio di diritto del loro precedente, e non negare in radice, come la sentenza in commento ha fatto in premessa, l’esistenza di un contrasto tra la sentenza Scurato e quanto affermato dalle precedenti decisioni (Petrarca e Donadio), tenendo conto che, pur definendo la nozione processuale di ‘criminalità organizzata’, queste riguardavano questioni relative alla sospensione feriale dei termini processuali e, dunque, avevano ad oggetto una disciplina con finalità diverse rispetto a quella oggetto del caso in esame.
La rimessione, poi, avrebbe potuto essere occasione per verificare se quell’approccio, che consente di tenere conto del generale ‘contesto’ in cui è stata effettuata la contestazione, sia applicabile anche alle intercettazioni, dove gli equilibri degli interessi in gioco sono più fragili ed esigono previsioni derogatorie tassative.
[1] Il riferimento è ai noti arresti Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 17706, Petrarca ed altri, in CED Cass., n. 230895; Cass., Sez. Un., 15 luglio 2010, n. 37501, Donadio, in CED Cass., n. 247994, e, più di recente, Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato, in CED Cass., n. 266905.
[2] Recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, in Gazz. Uff., 13 maggio 1991, n. 110.
[3] Introdotto dall’art. 5 del d.lgs. dell’1 marzo 2018, n. 21 concernente “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, in Gazz. Uff., 22 marzo 2018, n. 68.
[4] … che prevede la possibilità, in deroga alle previsioni dell’art. 267 c.p.p., di poter disporre le operazioni di intercettazione quando è necessaria per lo svolgimento delle indagini (relative ad un delitto di criminalità organizzata) quando sussistano «sufficienti indizi».
[5] Recante la “Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale”, in Gazz. Uff., 6 novembre 1969, n. 281.
[6] Recante “Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale”, in Gazz. Uff., 16 marzo 1987, n. 62.
[7] Il riferimento è a Cass., Sez. VI, 7 gennaio 1997, n. 7, Pacini Battaglia, in CED Cass., n. 207363, secondo cui «la nozione di “criminalità organizzata” cui si richiama l’art. 13 del d.l. 8 luglio 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356, nel consentire le intercettazioni ambientali nei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen., anche a prescindere da fondato timore di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa deve essere intesa con riguardo alla finalità della norma “de qua”. In tale concetto rientrano pertanto le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo: nei reati, quindi, in cui la struttura organizzata assume ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti». Secondo G. Melillo, La ricerca della prova tra clausole generali e garanzie costituzionali: il caso della disciplina delle intercettazioni nei procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1997, p. 3520, «l’inclusione sicura nell’area dei reati di criminalità organizzata dei delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991 n. 152 (ovvero in modo corrispondente qualificati ex art. 51 comma 3-bis c.p.p.) consente di precisare che, ai fini del riconoscimento delle condizioni di applicazione della disciplina speciale di cui all’art. 13 del decreto appena citato … ciò che conta non sono le connotazioni strutturali della fattispecie riflettenti la complessità degli apporti concorsuali alla realizzazione del fine illecito, ma è il riconoscimento dell’appartenenza della fattispecie, anche in concreto monosoggettiva, alla dimensione di disvalore che permea la proiezione processualistica della formula «delitti di criminalità organizzata» – per effetto dell’ascrivibilità della condotta delittuosa specifica al modello di operatività tipico dell’associazionismo mafioso, secondo il duplice schema della ripetizione della metodologia tipica dell’agire mafioso ovvero della finalizzazione dell’agevolazione delle attività del sodalizio – giustificandosi l’equiparazione al delitto associativo a specifici fini di disciplina di diritto processuale».
[8] Cfr. il disegno di legge AS n. 2808 di conversione del decreto-legge n. 152 del 1991, in cui si faceva chiaramente riferimento, più volte, al fenomeno della criminalità organizzata qualificandola come ‘mafiosa’. Il testo è consultabile su https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/268392.pdf.
[9] Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 17706, Petrarca ed altri, cit. Il provvedimento è stato commentato da G. Leo, La nozione processuale di criminalità organizzata, in Il corriere del merito, 2005, p. 830, e da G. Melillo, Appunti in tema di sospensione feriale dei termini relativi a procedimenti per reati di criminalità organizzata, in Cass. pen., 2005, p. 2916.
[10] Cass., Sez. Un., 15 luglio 2010, n. 37501, Donadio, cit.
[11] Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 337, Antonucci ed altri, in CED Cass., n. 241578. La pronuncia è stata commentata da L. Tumminello, Ancora sui limiti del criterio letterale nell’interpretazione della legge penale: le Sezioni unite “contestualizzano” l’inapplicabilità dell’aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi ai delitti “punibili” con pena diversa dall’ergastolo, in Cass. pen., 2010, p. 1417.
[12] Sez. Un., 19 dicembre 2019, n. 8545, Chioccini, in CED Cass., n. 278734. La sentenza è stata oggetto di numerosi contributi di analisi. Tra i molti cfr. G. Amato, La Cassazione fa chiarezza sull'aggravante agevolatrice, in Guida al diritto, 2020, fasc. 18, p. 66; A. Apollonio, Le Sezioni Unite rivisitano istituti generali per definire lo statuto applicativo dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416-bis.1 c.p., in Cass. pen., 2020, p. 2232; P. Bartolo, L’aggravante della agevolazione mafiosa si “applica” anche al concorrente che ha agito con dolo eventuale?, in Cass. pen., 2021, p. 933; F. Calabrese, La sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione a proposito della natura della aggravante della finalità di agevolazione mafiosa, in Arch. pen., 25 agosto 2020; J. Criscuolo, La natura soggettiva della circostanza aggravante della “agevolazione mafiosa” ed il suo regime di estensione ai concorrenti nel reato. Le Sezioni unite in equilibrio tra motivi a delinquere e principio di offensività, in Arch. pen., 24 giugno 2021; S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e sulla sua estensione ai concorrenti: tra punti fermi e criticità irrisolte, in Sist. pen., 16 marzo 2020; T. Guerini, Le Sezioni Unite si pronunciano sulla natura soggettiva dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul regime di comunicabilità ai correi, in Dir. pen. proc., 2020, p. 763; I. Merenda, Concorso di persone e aggravante dell’agevolazione mafiosa: riflessioni a margine della pronuncia delle Sezioni unite, ivi, 27 aprile 2020; A. Merlo-G. Fiandaca, L’aggravante dell’agevolazione mafiosa è estensibile ai concorrenti? Un aggrovigliato problema applicativo che le sezioni unite tentano di sciogliere, in Foro it., 2020, c. 463, nonché da D. Perrone, La natura “ambivalente” dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e l’applicabilità ai concorrenti, in Giur. it., 2020, p. 1485.
[13] In questi termini, E.M. Catalano, Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazioni, in Proc. pen. giust, 2016, p. 1.
[14] Cass., Sez. Un., 15 luglio 2010, n. 37501, Donadio, cit.