Cass., sez. II, sent. 26 giugno 2019 (dep. 16 luglio 2019), n. 31281, Pres. Verga, rel. Pazienza
1. La Suprema Corte, con la sentenza in rassegna, interviene su una questione particolarmente controversa nella giurisprudenza di legittimità: a seguito dell’introduzione del comma 5-bis nell’art. 311 c.p.p.[1], infatti, si è radicato un contrasto nell'interpretazione della formula con la quale tale previsione impone che, qualora a seguito di un ricorso dell’imputato sia annullata un’ordinanza che ha disposto o confermato una misura coercitiva, il giudice del rinvio deve pronunciarsi entro dieci giorni dalla ricezione degli atti e depositare la motivazione entro i successivi trenta giorni.
L’introduzione di un simile meccanismo, che ha l’indiscutibile pregio di collegare anche la celebrazione del giudizio di rinvio cautelare a tempi ben precisi[2], è stata salutata con favore dalla dottrina, che ha evidenziato come la previsione abbia colmato un vuoto normativo che, anche a causa della lettura elaborata dalla giurisprudenza di legittimità[3], riverberava effetti pregiudizievoli in danno dell’imputato[4]. Accadeva, infatti, che quest’ultimo, nonostante fosse uscito vittorioso dal giudizio di legittimità, in assenza di precise prescrizioni, continuasse a rimanere in vinculis per un periodo indeterminato in attesa della fissazione di una nuova udienza dinanzi al Tribunale della libertà[5].
L’importanza strategica della previsione e, di conseguenza, anche della definizione del suo campo di applicazione, è confermata dalla circostanza che il mancato rispetto delle scadenze fissate per la celebrazione del giudizio di rinvio è sanzionato con la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare e con l’ulteriore preclusione alla rinnovazione del titolo coercitivo perento («conseguenza dirompente», come la definisce in sentenza la Suprema Corte), qualora non ricorrano eccezionali esigenze cautelari, che devono essere oggetto di una specifica indicazione[6].
2. Ineccepibile in linea di principio, la previsione non è tuttavia ben rifinita sotto il profilo procedimentale: manca, infatti, una disciplina della trasmissione degli atti tra la Suprema Corte e il giudice del rinvio o, per usare altre parole, una compiuta regolamentazione delle modalità di riassunzione del procedimento di impugnazione cautelare.
Tale lacuna ha reso problematica l’individuazione del momento in cui inizia a decorrere il termine di dieci giorni entro i quali deve pronunciarsi il giudice del rinvio, al punto che nella giurisprudenza di legittimità si sono formati due differenti orientamenti.
Un primo indirizzo individua il dies a quo nella ricezione da parte della cancelleria del tribunale del fascicolo relativo al giudizio di cassazione, contenente la sentenza rescindente[7].
Altro orientamento, invece, afferma che per la decorrenza del termine non è sufficiente la ricezione di tale incartamento, ma è necessario che pervengano tutti gli atti presentati a norma dell’art. 291, comma 1, c.p.p. ed eventualmente anche gli altri elementi sopravvenuti nelle more della celebrazione del giudizio di legittimità in favore della persona sottoposta alle indagini[8]. Si è osservato, in quest’ultima prospettiva, che la ricezione del solo fascicolo restituito dalla Corte di cassazione non garantisce la disponibilità di tutti i dati necessari, non coincidendo la composizione di quest’ultimo, delineata dall’art. 100 disp. att. c.p.p., con quella del più voluminoso compendio utilizzato dal giudice del riesame[9].
La sentenza in rassegna, come accennato, interviene proprio su questo aspetto, elaborando una lettura che scandisce il raccordo tra giudizio rescindente e giudizio rescissorio e, pur condividendo il secondo orientamento, aggiunge alcune precisazioni tese a delineare compiutamente l’iter procedimentale che origina dall’annullamento con rinvio di un titolo cautelare.
La Suprema Corte, alla luce dei consolidati principi che governano il giudizio di rinvio[10], ha posto l’accento sulla necessità che il giudice della libertà, per pronunciarsi nuovamente e sanare i vizi rilevati nel giudizio di legittimità, disponga di tutti gli atti sulla base dei quali è stata assunta la precedente decisione.
È nella gestione di questo passaggio che si addensano gli aspetti problematici.
Il tribunale, infatti, adotta la propria decisione sull’istanza di riesame dopo aver ricevuto, ai sensi dell’art. 309, comma 5, c.p.p. tutti gli atti posti a fondamento dell’ordinanza impugnata, insieme agli altri elementi sopravvenuti a favore dell’indagato.
A seguito del ricorso per cassazione, tuttavia, si determina uno “spacchettamento” del fascicolo: alla Suprema Corte, in ossequio all’art. 100 disp. att. c.p.p., sono trasmessi soltanto gli atti necessari per decidere sull’impugnazione, mentre all’autorità procedente sono restituiti gli altri. Fatta eccezione per i casi in cui alla Suprema Corte sia trasmesso l’intero incartamento, accade - il più delle volte e soprattutto quando il fascicolo della cautela è particolarmente voluminoso - che il tribunale del riesame non trattiene gli atti del procedimento cautelare in attesa di conoscere l’esito del giudizio di cassazione, ma li restituisce, appunto, alla autorità procedente. Pertanto, qualora il provvedimento impugnato sia annullato con rinvio, l’adempimento fondamentale in vista della nuova deliberazione è rappresentato dalla tempestiva “ricostituzione” del fascicolo cautelare che deve essere identico, fatte salve successive integrazioni da parte della difesa, a quello utilizzato per adottare l’ordinanza cassata.
Tale assetto - prosegue la sentenza in rassegna - impedisce di fissare il dies a quo nel momento in cui la cancelleria del tribunale del riesame riceve il fascicolo proveniente dalla Suprema Corte: se si accogliesse una simile interpretazione, infatti, sarebbe altissimo il rischio di costringere il giudice del rinvio a decidere su un compendio lacunoso pur di rispettare le serrate - ed esiziali - cadenze della procedura.
È preferibile, allora, individuare nella trasmissione del fascicolo e della sentenza da parte della Suprema Corte il momento nel quale il presidente del tribunale della libertà, in applicazione dell’art. 309, comma 5, c.p.p. deve dare avviso alla autorità procedente, tenuta a trasmettere nuovamente gli atti nei cinque giorni successivi. Così, soltanto dalla tempestiva ricezione del fascicolo cautelare inizia finalmente a decorrere il termine fissato dall’art. 311, comma 5-bis, c.p.p.
3. Lo schema descritto dalla Suprema Corte colma una grave lacuna normativa e riesce a conciliare le esigenze di speditezza della procedura con la necessità di consentire al tribunale di decidere causa cognita.
Resta inesplorato, tuttavia, un altro passaggio strategico, nel quale l’assenza di puntuali previsioni rischia ancora di compromettere la tempestività del controllo dinanzi al giudice del rinvio.
Il meccanismo progettato dalla Suprema Corte, invero, prende in considerazione soltanto il segmento che ha inizio con la ricezione della sentenza di annullamento da parte della cancelleria del tribunale della libertà. Soltanto da questo momento, quindi, riprendono vigore le norme che garantiscono la celerità della procedura.
C’è, tuttavia, un momento che precede tale segmento e che, nonostante ne costituisca il presupposto, è svincolato dal rispetto di qualsiasi termine o, quantomeno, non è regolato da termini di natura perentoria[11]. A ben vedere, infatti, non è previsto nè un termine entro il quale deve essere depositata la motivazione del provvedimento della Suprema Corte, al quale il giudice del rinvio deve uniformarsi[12], nè il termine entro il quale la Suprema Corte è tenuta alla trasmissione del provvedimento.
Neppure dalle disposizioni di carattere generale che regolano il giudizio di cassazione possono trarsi spunti utili: l’art. 625 c.p.p., prescrive che, in caso di annullamento con rinvio, gli atti devono essere inviati “senza ritardo”[13] e, allo stesso modo, non si rivela di alcuna utilità l’art. 617 c.p.p. che fissa in trenta giorni il termine massimo per il deposito della motivazione[14].
Dunque, al di là del vago invito alla speditezza che traspare dalle espressioni utilizzate, il problema della natura ordinatoria dei termini resta, e rischia di determinare, nonostante le prassi virtuose della Suprema Corte, una protrazione indeterminata del vincolo restrittivo nei confronti di una persona che - qui è il punto - ha visto riconosciuta in sede di legittimità la fondatezza delle censure articolate avverso il titolo cautelare.
4. La situazione appena descritta appare identica a quella che si verificava prima della modifica dell’art. 309 c.p.p. ad opera della l. 8 agosto 1995, n. 532, allorquando la decorrenza del termine perentorio per la decisione sull’istanza di riesame, ai sensi del comma 10, era collegato a un termine ritenuto di natura ordinatoria per la trasmissione degli atti, contemplato dal comma 5[15].
Il problema, tuttavia, non è superabile in via interpretativa per un duplice ordine di ragioni. Per un verso, le norme che regolano il giudizio di legittimità de libertate non permettono manovre ermeneutiche tanto ampie; per altro verso, una soluzione in via esegetica non escluderebbe il rischio di letture di segno contrario, foriere di ulteriori incertezze e di possibili disparità di trattamento, intollerabili quando si discute della libertà personale e della sua limitazione in via provvisoria.
La strada maestra, dunque, è un nuovo intervento normativo, che àncori anche la fase prodromica alla trasmissione degli atti al giudice del rinvio a un termine ben preciso.
L’intervento, poi, potrebbe estendersi fino a considerare l’intero giudizio di legittimità: sarebbe opportuna, in effetti, una rivisitazione integrale dell’impugnazione sotto il profilo cronologico, che, sulla falsariga dell’art. 309 c.p.p., attribuisca il connotato della perentorietà a tutti i termini contemplati dall’art. 311 c.p.p. e ne introduca altri laddove attualmente non sono previsti.
Una innovazione simile, considerata la ritrosia che il legislatore e la giurisprudenza[16] hanno mostrato nei decenni passati nei riguardi dell’introduzione di termini perentori nel giudizio di legittimità, segnerebbe un notevole progresso nel solco del graduale rafforzamento delle tutele difensive, e risulterebbe anche coerente con la storia delle impugnazioni cautelari. Nell'ordinamento processuale italiano, sin dalla modifica dell'art. 190 del Codice Rocco, ma soprattutto con l’introduzione dell’istituto del riesame[17], la cui vita normativa si approssima al mezzo secolo[18], lo stimolo per l’attività legislativa, d’accordo anche con le più autorevoli correnti dottrinarie[19] e con le sollecitazioni di matrice sovranazionale[20], è stato la costante - e ancora attuale - ricerca di soluzioni tese a perfezionare la disciplina dei rimedi accordati alla persona in vinculis e a scongiurare letture non coincidenti con la vocazione difensiva che deve prevalere in questo settore delle impugnazioni[21].
In questo contesto, il congegno sanzionatorio collegato al mancato rispetto dei termini fissati per la celebrazione del procedimento dinanzi al tribunale della libertà - prendendo in prestito le parole utilizzate nella sentenza in rassegna - mira a realizzare il rispetto del minimo sacrificio necessario della libertà personale.
La tutela di tale principio, pertanto, merita di essere ulteriormente valorizzata attraverso l’implementazione di rigorose cadenze temporali anche nel giudizio di legittimità. Una modifica in questo senso, tuttavia, dovrebbe essere calibrata con le peculiarità del giudizio di cassazione, che impongono un bilanciamento tra la determinazione dei tempi del controllo e la complessità del controllo affidato alla Suprema Corte. In questa ottica, la circostanza che un primo controllo sul provvedimento coercitivo sia già avvenuto ad opera del tribunale delle libertà consente di dilatare le cadenze procedimentali e renderle meno stringenti di quelle dettate per il giudizio di riesame.
[1] Si tratta di una disposizione che costituisce parte di un ampio compendio normativo inserito nel codice di rito dalla più recente riforma in materia cautelare, attuata con la l. 16 aprile 2015, n. 47. Il legislatore, infatti, è intervenuto non soltanto sull’istituto del riesame, modificando i poteri del giudice e gli snodi procedurali del rimedio, ma anche sulle disposizioni che regolano la valutazione delle esigenze cautelari, sul principio di adeguatezza (per ribadire il principio di residualità della custodia in carcere), sulle presunzioni e sugli altri automatismi che governano il sistema (per una esaustiva panoramica del provvedimento in parola, ex plurimis, L. Giuliani (a cura di), La riforma delle misure cautelari personali, Giappichelli, 2015 e N. La Rocca, Misure cautelari (profili innovativi), in Dig. d. pen., Aggiornamento, vol. IX, Utet, 2016, p. 462).
[2] Sulla assenza di termini perentori nella precedente disciplina del giudizio di rinvio, anche P. Spagnolo, Il tribunale della libertà, Giuffrè, 2008, p. 389.
[3] Il riferimento è, in particolare, a Cass., sez. un., 17 aprile 1996, n. 5, D’Avino, in Giust. pen., 1997, p. III, c. 93, che ha escluso l’applicabilità al giudizio di rinvio dell’art. 309, comma 10, c.p.p. Sul punto, in senso critico, E. Marzaduri, Diritto di difesa e tempi del procedimento dinanzi al tribunale della libertà, in L. Giuliani (cura di), La riforma, cit., p. 245, secondo il quale tale impostazione si fondava «su una inaccettabile esclusione dell’urgenza di provvedere nel giudizio di rinvio, conseguente al fatto che tale giudizio si colloca a valle di due provvedimenti cautelari, il che indicherebbe “chiaramente come non si versasse in ipotesi di radicale insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, ipotesi per la quale, invece, avrebbe dovuto intervenire la decisione di annullamento senza rinvio, conclusiva in via definitiva del corso del procedimento”».
[4] Secondo N. La Rocca, Misure cautelari, cit., p. 495, «la modifica è significativa, soprattutto nella prospettiva rimediale delle vecchie consuetudini arbitrarie e dilatorie che, nonostante le continue censure caratterizzavano in negativo il giudizio di rinvio».
[5] In termini critici, pur apprezzandosi l’innovazione, si è osservato che, a ben vedere, una lettura rispettosa del principio di inviolabilità della libertà personale non sembra conciliabile con il mantenimento di un vincolo cautelare dopo l’annullamento, anche se con rinvio, del provvedimento restrittivo, dovendosi considerare che comunque viene a mancare un titolo valido atto a giustificare la limitazione della libertà personale (E. Marzaduri, Diritto di difesa, p. 247).
[6] Sulle origini della limitazione all’emissione di un nuovo titolo cautelare, E. Marzaduri, Diritto di difesa, cit., p. 235.
[7] Così, Cass., sez. I, 29 gennaio 2018, n. 23707, in C.E.D. Cass., n. 273114.
[8] Cass., sez. VI, 1 marzo 2017, n. 27093, in C.E.D. Cass., n. 270410, e Cass., sez. II, 8 gennaio 2016, n. 15695, ivi, n. 266729.
[9] In questo senso, Cass., sez. II, 19 dicembre 2018, n. 15622, e Cass., sez. II, 8 marzo 2019, n. 21716.
[10] Sul punto, il richiamo è alle statuizioni compendiate nelle decisioni di Cass., sez. VI, 24 gennaio 2018, n. 8902, in Cass. pen., 2018, p. 3328; Cass., sez. III, 19 maggio 2017, n. 34794, ivi, 2018, p. 1686; Cass., sez. IV, 24 settembre 2013, n. 41388, in C.E.D. Cass., n. 256893.
[11] La questione, dunque, è parte del più ampio tema della mancanza di termini perentori nel giudizio de libertate dinanzi alla Suprema Corte.
[12] Sul rapporto tra dispositivo e motivazione nella dinamica del giudizio di rinvio, si veda tuttavia Cass., sez. I, marzo 2013, n. 38707, in C.E.D. Cass., n. 257108, secondo la quale per la fissazione dell'udienza del giudizio di rinvio è sufficiente la ricezione del dispositivo della sentenza di annullamento.
[13] Sul punto, P. Maggio, Le impugnazioni delle misure cautelari personali, Giuffrè, 2018, p. 497.
[14] Sul punto, P. Maggio, Le impugnazioni delle misure cautelari personali, Giuffrè, 2018, p. 497.
[15] Sul punto, G. Spangher, Le misure cautelari personali, in G. Spangher - A. Marandola - G. Garuti - L. Kalb, Procedura penale. Teoria e pratica del processo, vol. II, Misure cautelari. Indagini preliminari. Giudizio, Utet, 2015, p. 150.
[16] Ex plurimis, Cass., sez. VI, 30 settembre 1996, n. 2924, in Cass. pen., 1998, p. 162, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311 c.p.p. nella misura in cui non contempla termini perentori perla decisione.
[17] La possibilità di un controllo anche nel merito è, insieme alla previsione di tempi rapidissimi, uno degli aspetti peculiari dell’istituto che ha permesso di superare l’angusto rimedio del ricorso per cassazione esperibile all’epoca soltanto per censurare violazioni di legge. Per l’inquadramento del tema delle impugnazioni cautelari nella prospettiva storica e costituzionale e, soprattutto, per la disamina dei profili critici della disciplina precedente all’introduzione del riesame, per tutti, V. Grevi, Libertà personale, cit., p. 232 e ss.
[18] Invero, un primo tentativo di normazione risale alla legge-delega 3 aprile 1974, n. 108 per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale: tra le direttive contenute nell’art. 2, n. 54, figurava proprio l’impugnabilità, anche nel merito, del provvedimento coercitivo (sul punto, V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Giuffrè, 1976, p. 367, e anche per ulteriori riferimenti, P. Maggio, Le impugnazioni, cit., p. 9).
[19] V. Grevi, Libertà personale, cit., p. 232 e ss.
[20] Sul rapporto tra l’istituto del riesame e l’art. 5, paragrafo 4 C.E.D.U., M. Chiavario, Processo e garanzie della persona, III ed., vol. II, Le garanzie fondamentali, Giuffrè, 1984, p. 358, e, più di recente, P. Spagnolo, Il tribunale, cit., p. 36; P. Maggio, Le impugnazioni, cit., p. 13 e ss.; N. La Rocca, Coercizione cautelare e poteri del collegio nel riesame riformato, Cedam, 2017, p. 59 e ss.
[21] Come si è visto, un esempio lampante è proprio l’introduzione del comma 5-bis nel testo dell’art. 311 c.p.p. attraverso il quale è stato superato in via legislativa il granitico indirizzo della giurisprudenza di legittimità che escludeva termini perentori nel giudizio di rinvio (supra, nota 3).