Cass. Sez. II, sent. 28 settembre 2023 (dep. 28 novembre 2023), n. 47643, Pres. Rosi, rel. Di Paola
1. Ai sensi dell’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, così come riscritto, in sede di conversione, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, «1. In deroga a quanto disposto dall’articolo 267 del codice di procedura penale, l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’articolo 266 dello stesso codice è data, con decreto motivato, quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono in ordine ai quali sussistano sufficienti indizi. Quando si tratta di intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa. 2. Nei casi di cui al comma 1, la durata delle operazioni non può superare i quaranta giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di venti giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1. Nei casi di urgenza, alla proroga provvede direttamente il pubblico ministero; in tal caso si osservano le disposizioni del comma 2 dell’articolo 267 del codice di procedura penale»[1].
La norma rese più agevoli e penetranti le indagini per delitti di criminalità organizzata e per i reati di minaccia col mezzo del telefono, prevedendo una significativa riduzione del quantum di prova indiziaria richiesto per l’autorizzazione alle captazioni (indizi di reato non «gravi», come ordinariamente preteso dall’art. 266 cod. proc. pen., ma semplicemente «sufficienti»), un rilevante aumento tanto dei casi quanto dei luoghi nei quali era possibile procedere all’intercettazione (sostituendosi l’assoluta indispensabilità di cui all’art. 266 cod. proc. pen. con la semplice necessità, e concedendosi di controllare le comunicazioni tra presenti in svolgimento nei luoghi di privata dimora indipendentemente dalla circostanza, ordinariamente richiesta dall’art. 266 cod. proc. pen., che ivi fosse in corso di svolgimento l’attività criminosa), ed una estensione dei termini di durata delle captazioni (40 giorni, più ulteriori 20 giorni per ognuna delle proroghe, in luogo dei 15 giorni più 15 previsti in via generale dall’art. 267, comma 3, cod. proc. pen.).
Si tratta di una delle numerose norme che, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, introdussero disposizioni ispirate dalla impellente necessità di contrastare con più incisiva efficacia l’azione delle consorterie criminali e mafiose, venendo a creare un doppio binario processuale, mediante l’introduzione di regole che delineavano per i delitti di più grave allarme sociale uno statuto dell’acquisizione e della valutazione della prova ed un regime di esecuzione della pena derogatori rispetto alla disciplina ordinaria[2].
Solo alcune delle norme fin qui elencate recano l’espressa indicazione del rispettivo campo di applicazione: si pensi, ad esempio, all’art. 1 del decreto legge n. 152 del 1991, che, nel riscrivere le norme relative ai benefici per i detenuti, indicò con precisione una prima più grave categoria di reati necessariamente collegati alla criminalità organizzata, in relazione ai quali i benefici potevano essere concessi «solo se sono stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva», ed una seconda categoria di reati solo potenzialmente collegati alla criminalità organizzata, in relazione ai quali i benefici potevano essere concessi «solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
In numerose altre occasioni, il legislatore si limitò a riferire l’applicabilità delle nuove disposizioni ai «delitti di criminalità organizzata», senza fornire ulteriori elementi descrittivi.
La norma relativa alle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni - pur inserendosi in un contesto delineato dal legislatore con meticolosa puntualità, attesa la particolare intrusività dello strumento, destinato ad incidere su diritti costituzionalmente garantiti - rientra, come si è visto, in questa seconda categoria.
2. Nonostante la sua progressiva diffusione nel linguaggio giuridico corrente, l’endiadi “criminalità organizzata” è sempre stata caratterizzata da «un ampio alone di genericità che contrasta con quel principio di determinatezza che dovrebbe sempre informare la legislazione penale», essendo astrattamente idonea a ricomprendere nel suo alveo ogni attività criminosa realizzata da più soggetti che concorrano, con un minimo di organizzazione, nella preparazione e nell’esecuzione di reati[3]: ci si trova, invero, in presenza di una formula sfornita di autonoma capacità descrittiva, priva di un contenuto concreto e riscontrabile, per giunta utilizzata dal legislatore nell’ambito di istituti eterogenei, sicché si è sempre convenuto sulla sostanziale impossibilità di ricavare dal quadro normativo criteri idonei alla costruzione di una definizione omnicomprensiva, e sulla conseguente «necessità di modulare l’operazione interpretativa in funzione del fine divisato dalla norma che ad essa dà rilievo»[4].
La prima, significativa, elaborazione giurisprudenziale in argomento si è formata intorno all’art. 2, comma 2, l. 7 ottobre 1969, n. 742, così come novellato dall’art. 21-bis d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, a mente del quale «La sospensione dei termini delle indagini preliminari [..] non opera nei procedimenti per reati di criminalità organizzata».
Nei primi anni di vigenza della norma si svilupparono, nella giurisprudenza di legittimità, orientamenti contrastanti:
* Cass. pen., Sez. 1, n. 622 del 31 gennaio 1994, ritenne la norma applicabile «non solo ai reati di criminalità di tipo mafioso o assimilato, ma anche a reati di criminalità organizzata di altra natura (nella specie trattavasi di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti), come pure a quelli che ad essi risultino connessi»;
* ad avviso di Cass. pen., Sez. 1, n. 5086 del 9 dicembre 1992, il tenore letterale della disposizione avrebbe dovuto precludere la sospensione dei termini nei «procedimenti aventi ad oggetto reati diversi (nella specie trattavasi di omicidio plurimo), ancorché gli stessi risultino comunque riferibili alle attività di associazioni criminose»;
* Cass. pen., Sez. 6, n. 5086 del 20 aprile 2004, statuì, invece, che «Ai fini della sospensione dei termini delle indagini durante il periodo feriale per reati in materia di criminalità organizzata, pur apparendo riduttivo circoscrivere tale concetto ai soli delitti di criminalità mafiosa, deve comunque farsi riferimento all’elencazione contenuta nella lett. a) del comma secondo dell’art. 407 cod. proc. pen., integrata con l’elencazione contenuta nel comma terzo bis dell’art. 51 e nel comma primo bis dell’art. 372 cod. proc. pen. (Fattispecie in cui è stata esclusa dalla nozione di criminalità organizzata una associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati di corruzione e truffa aggravata ai danni del Servizio sanitario nazionale)».
Si giunse, così, alla prima pronuncia delle Sezioni unite in argomento.
In un procedimento relativo ad un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più delitti di ricettazione, truffa e falso, diretti all’approvvigionamento ed alla cessione di farmaci ad azione dopante, il Tribunale del riesame, accogliendo l’appello del pubblico ministero avverso il provvedimento reiettivo del giudice per le indagini preliminari, aveva applicato misure cautelari personali ad alcuni degli indagati.
I difensori di questi ultimi si erano doluti, innanzi al giudice di legittimità, della tardività dell’appello del pubblico ministero, presentato il 12 settembre 2003, avverso l’ordinanza depositata dal giudice per le indagini preliminari il 30 luglio 2003: ed invero, procedendosi per il reato di associazione per delinquere, non avrebbe dovuto operare la sospensione dei termini durante il periodo feriale.
Le Sezioni unite Petrarca (sentenza n. 17706 del 22 marzo 2005) condivisero le doglianze dei ricorrenti, annullando l’ordinanza impugnata «previa declaratoria di inammissibilità dell’appello del p.m.»; fu, dunque, privilegiata l’interpretazione criminologica-teleologica della norma, che portò all’affermazione del seguente principio di diritto: «Ai fini dell’applicazione dell’art. 240 bis, comma secondo, disp. coord. cod. proc. pen., che prevede l’esclusione, operante anche per i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di cautela personale, della sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, quest’ultima nozione identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre i delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito dell’organizzazione»
Secondo l’orientamento sposato dalle Sezioni unite, la norma derogatoria avrebbe potuto trovare applicazione in relazione alle condotte illecite connesse alle attività di ogni tipo di associazione per delinquere, ivi comprese quelle «non qualificate» (poiché si tratta comunque di condotte idonee a suscitare elevato allarme sociale, in quanto favorite da apparati organizzativi e strutturali posti al servizio di progetti criminali orientati alla perpetrazione di una serie indefinita di reati), per un verso senza alcuna possibilità di fare riferimento ai cataloghi di reati introdotti, in altre norme e ad altri fini, dallo stesso legislatore del 1992 (cataloghi che, peraltro, comprendono anche fattispecie che ben difficilmente possono essere ricondotte, almeno sul piano generale, ad un contesto di criminalità organizzata: sicché una simile soluzione sarebbe in aperto ed irrisolvibile contrasto con il dato letterale dell’art. 2, comma 2, della legge n. 742 del 1969), e, per altro verso, senza alcuna possibilità di applicare la norma ad ipotesi delittuose caratterizzate dalla cooperazione organizzata di più persone, ma sganciate da fenomeni associativi.
L’orientamento si consolidò senza incertezze nella giurisprudenza di legittimità[5], trovando costante applicazione anche nei procedimenti in materia di misure cautelari reali[6], operando sia per l’indagato che per i soggetti terzi[7].
A distanza di pochi anni dalla sentenza Petrarca, le Sezioni unite furono chiamate a chiarire se la moratoria feriale fosse o meno applicabile anche agli incidenti cautelari aventi ad oggetto misure reali.
Prima di affrontare la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione, le Sezioni unite verificarono se quello sottoposto al loro scrutinio rientrasse tra i «procedimenti per reati di criminalità organizzata»: il ricorrente - che chiedeva dichiararsi la perdita di efficacia del sequestro preventivo, a cagione della tardiva pronuncia del Tribunale del riesame, innanzi al quale aveva impugnato il provvedimento ablativo - era, invero, sottoposto ad indagini per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203.
Le Sezioni unite Donadio (sentenza n. 37501 del 15 luglio2010) conclusero per l’inapplicabilità al caso di specie della sospensione dei termini delle indagini preliminari di cui all’art. 2, comma 2, l. 7 ottobre 1969, n. 742, ritenendo, tuttavia, decisivo - non che all’indagato fosse contestata la circostanza aggravante delle modalità mafiose, aspetto ritenuto di per sé irrilevante, ma - che in quello stesso procedimento fossero contestati, ad altri indagati, reati associativi.
Fu, dunque, data continuità al principio, affermato fin da subito dai giudici di legittimità, in base al quale «la sospensione dei termini procedurali [..] si applica all’intero procedimento interessato che può comprendere anche fatti i quali, allo stato delle indagini, sembrino non inquadrarsi nel reato associativo, ma che si rivelino oggettivamente collegati al reato di natura associativa, quanto meno in funzione dell’attività di ricerca delle prove, cosicché - stante l’unicità del procedimento e delle indagini aventi come punto di riferimento un’organizzazione criminosa - deve intendersi che il legislatore non abbia ragionevolmente ritenuto di separare i tempi delle indagini in relazione alla natura associativa, o meno, dei reati allo stato ipotizzati a carico di ciascun indagato, consentendone la prosecuzione, nella sua interezza, durante il periodo feriale»[8].
Quanto al delitto oggetto di contestazione, le Sezioni unite ritennero irrilevante la circostanza che all’indagato, al quale era ascritto un reato monosoggettivo (omicidio), fosse stata contestata l’aggravante mafiosa: «il concetto di criminalità organizzata - argomentò il massimo consesso nomofilattico, facendo proprio il dictum delle Sezioni unite Petrarca - [deve] intendersi riferito a ogni delitto associativo, correlato alle attività criminose più diverse, ideate “da una pluralità di soggetti” che, a tal fine, “abbiano costituito un apparato organizzativo”», con conseguente esclusione di ogni reato - monosoggettivo o concorsuale - nel quale «manchi il requisito rappresentato da una stabile organizzazione programmaticamente ispirata alla commissione di più reati. Dunque, un reato che non presenti tali elementi strutturali, pur se caratterizzato da un “metodo” idoneo a evocare dati comportamentali propri della criminalità mafiosa o pur se realizzato da un soggetto mosso dalla finalità di agevolazione di organismi mafiosi, non è, di per sé un reato “di criminalità organizzata”, almeno nell’economia della disciplina contenuta nell’art. 2, comma secondo, legge 7 ottobre 1969, n. 742»[9].
Può, conclusivamente, riassumersi l’elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi a proposito dell’art. 2, comma 2, della legge n. 742 del 1969, rilevando che, secondo i giudici di legittimità, i «procedimenti per reati di criminalità organizzata», per i quali non opera la sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari, sono quelli nei quali forma oggetto di contestazione (all’indagato ricorrente ovvero ad altri coindagati, stante l’unicità del procedimento e la conseguente necessità di non separare attività investigative che possono aggredire efficacemente le organizzazioni criminali solo se unitarie) una qualsiasi fattispecie associativa - quella di cui all’art. 416-bis cod. pen., quella di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ovvero anche, usando le parole della sentenza Petrarca, «qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse» - caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di una serie indefinita di reati; non rientrano, invece, nella categoria né le ipotesi di semplice concorso di persone nel reato, né i delitti - monosoggettivi o meramente concorsuali - aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.
3. Quanto all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, dopo iniziali pronunce che ritennero di poter riempire di contenuti l’evanescente categoria dei «delitti di criminalità organizzata» riferendosi - esclusivamente - ai reati indicati dagli artt. 407, comma 2, lett. a), 372, comma 1-bis, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.[10], la Corte sposò l’orientamento teleologico, facendovi rientrare ogni reato associativo, ed ogni ipotesi delittuosa concorsuale caratterizzata dalla predisposizione da parte dei correi di una struttura organizzativa capace di cementare e di rafforzare le singole condotte: dunque, «La nozione di “criminalità organizzata” cui si richiama l’art. 13 del D.L. 8 luglio 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356, nel consentire le intercettazioni ambientali nei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen., anche a prescindere da fondato timore di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa deve essere intesa con riguardo alla finalità della norma de qua. In tale concetto rientrano pertanto le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo: nei reati, quindi, in cui la struttura organizzata assume ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti»[11].
Nel 2016 si registrò, anche in questa materia, l’intervento del massimo consesso nomofilattico, che, chiamato a perimetrare le possibilità di utilizzo del captatore informatico, ritenne necessario un approfondimento della questione interpretativa in oggetto.
Le Sezioni unite Scurato (sentenza n. 26889 del 28 aprile 2016), dopo aver statuito che nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata «è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti - mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone, ecc.) - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa», vollero, dunque, «individuare in termini di certezza la categoria dei delitti di “criminalità organizzata”, per i quali - e solo per essi - può trovare applicazione il principio quale sopra enunciato».
Dopo aver dato conto delle diverse disposizioni del nostro ordinamento che fanno riferimento ai «delitti di criminalità organizzata», e dopo aver illustrato le posizioni espresse dalla dottrina e l’elaborazione della più recente giurisprudenza di legittimità, le Sezioni unite diedero continuità all’orientamento teleologico-finalistico prima delineato, argomentando che nella categoria in questione rientrano senz’altro, come già statuito dalle Sezioni unite Petrarca, e ribadito dalle Sezioni unite Donadio, «non solo i reati di criminalità mafiosa e quelli associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito dell’organizzazione»: questa definizione per un verso «consente di cogliere l’essenza di un delitto di “criminalità organizzata” e nel contempo di ricomprendere tutti i suoi molteplici aspetti, nell’ottica riconducibile alla ratio che ha ispirato gli interventi del legislatore in materia, tesi a contrastare nel modo più efficace quei reati che - per la struttura organizzativa che presuppongono e per le finalità perseguite - costituiscono fenomeni di elevata pericolosità sociale».
Tuttavia, il principio di diritto statuito dalla sentenza Scurato recita che «Per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., ma anche quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato».
Si tratta, in tutta evidenza, di un principio diverso da quello statuito dalla sentenza Petrarca (che aveva ritenuto «arbitrario» il riferimento ai cataloghi di reati contenuti «in contesti normativi diversificati e non sempre utili sul piano delle esigenze ermeneutiche specifiche») e da quello statuito dalla sentenza Donadio (che aveva espressamente escluso che un delitto aggravato a norma all’art. 7 del d.l. n.152 del 1991 - pur se rientrante nel catalogo dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. - potesse essere ritenuto “di criminalità organizzata”), poiché contiene l’espresso ed inedito riferimento - evidentemente ritenuto imprescindibile in ossequio ad una interpretazione tassativizzante della norma - ai cataloghi di reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.: è, tuttavia, facile notare che quegli elenchi, contenuti nella norma (l’art. 51 cod. proc. pen.) che individua la competenza della Procura distrettuale antimafia, fanno riferimento tanto a reati associativi (« [..] delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’articolo 12, commi 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, [..], 416-bis [..] del codice penale, [..] nonché per i delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall’articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43»), quanto a fattispecie che possono manifestarsi anche in forma monosoggettiva: il riferimento è ai delitti - indicati dal comma 3-bis - previsti dagli articoli 416-ter, 452-quaterdecies, 600, 601, 602 e 630 cod. pen. ed a quelli «commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo», nonché ai delitti - indicati dal comma 3-quater - commessi «con finalità di terrorismo».
Questa combinazione tra criteri non perfettamente sovrapponibili[12] è stata la fonte d’innesco dei problemi applicativi che hanno, come si sta per illustrare, condotto all’emissione del decreto legge 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni nella legge 9 ottobre 2023, n. 137, al quale ha per la prima volta dato applicazione, nella giurisprudenza di legittimità, la sentenza che qui si commenta.
4. La giurisprudenza successiva alla sentenza Scurato ha dato continuità al principio di diritto da essa statuito: non si è, dunque, dubitato dell’applicabilità dell’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991 nei procedimenti aventi ad oggetto delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del medesimo decreto legge.
Il principio in base al quale la contestazione della circostanza aggravante del metodo mafioso o dell’agevolazione mafiosa fa rientrare il procedimento tra quelli aventi ad oggetto «delitti di criminalità organizzata» è stato, in particolare, sostenuto da:
* Cass. pen., Sez. 1, n. 29169 del 28 giugno 2016, n. 38038 del 22 marzo 2017 e n. 17647 del 19 febbraio 2020, che hanno ritenuto legittime le intercettazioni a mezzo captatore informatico disposte nell’ambito del procedimento relativo all’omicidio premeditato del Procuratore della Repubblica di Torino, dottor Bruno Caccia, avvenuto nel giugno del 1983;
* Cass. pen., Sez. 1, n. 50927 del 19 luglio 2018 e n. 57542 del 14 settembre 2018, relative a reati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n.152/1991;
* Cass. pen., Sez. 1, n. 26666 del 13 febbraio 2019, relativa a reato “comune” (ricettazione e detenzione illegale di armi comuni da sparo, armi clandestine e armi da guerra) contestato al ricorrente nell’ambito di un procedimento «avente ad oggetto le indagini relative a diversi reati di omicidio volontario, aggravati ai sensi dell’art. 7 legge n. 203/1991»;
* Cass. pen., Sez. 2, n. 25612 del 4 maggio 2022, relativa ad un’ipotesi di danneggiamento aggravato dal metodo mafioso;
* Cass. pen., Sez. 1, n. 6606 del 15 luglio 2022, dep. 2023, relativa al ricorso del soggetto che aveva riportato condanna per il delitto di cui all’art. 2 l. 2 ottobre 1967, n. 895, al quale, nel corso delle indagini, era stata contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., poi esclusa dai giudici di merito.
In tutte le pronunce appena citate, la Corte ha, dunque, ritenuto che la contestazione dell’aggravante mafiosa, facendo rientrare il delitto nel novero di quelli previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., consenta le più intrusive captazioni previste per i delitti di criminalità organizzata[13].
A sostegno di questo orientamento, si può ulteriormente notare che il richiamo all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. appare, da un punto di vista sistematico, coerente ed anzi quasi ineccepibile: ed invero, non può trascurarsi che l’art. 54-ter cod. proc. pen., inserito nel codice di rito dal decreto legge n. 367 del 1991 (dunque appena sei mesi dopo l’emanazione del decreto legge n. 152 del 1991) per disciplinare i «contrasti tra pubblici ministeri in materia di criminalità organizzata», circoscrisse espressamente il proprio campo di applicazione ai contrasti riguardanti «taluno dei reati indicati nell’articolo 51, comma 3-bis»[14], norma che, peraltro, a quell’epoca faceva riferimento esclusivamente ai delitti di cui agli articoli 416-bis cod. pen. e 74 d.P.R. 30 ottobre 1990, n. 309, ed a quelli aggravati dalle modalità o dall’agevolazione mafiose; per quanto si tratti di norma emessa in altro contesto e ad altri fini, pare altamente significativo tanto che il legislatore dell’emergenza abbia individuato proprio nell’articolo 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. il riferimento normativo idoneo a riempire di contenuti la locuzione, quanto che all’epoca il catalogo di reati previsto da quest’ultima norma - pur se enormemente più scarno rispetto all’attuale - già annoverasse quelli aggravati ai sensi dell’art. 7 del decreto legge n. 152 del 1991[15].
5. Nel marzo del 2022 una sentenza della Corte di Cassazione ha rimeditato le conclusioni della sentenza Scurato.
Per vero, già nel 2018 vi era stata una pronuncia di legittimità che - pur occupandosi del diverso tema della sospensione dei termini delle indagini preliminari durante il periodo feriale - aveva messo in dubbio la linearità del principio di diritto statuito con la sentenza Scurato.
In particolare, Cass. pen., Sez. 2, n. 12863 del 13 febbraio 2018, valutando il ricorso con il quale gli indagati invocavano, tra l’altro, la cessazione di efficacia della misura coercitiva, poiché il tribunale della libertà si era pronunciato ben oltre dieci giorni dopo la presentazione della richiesta di riesame, ha fornito una sorta di interpretazione autentica del principio di diritto espresso dalle Sezioni unite, circoscrivendolo nei medesimi termini successivamente ripresi dalla sentenza n. 34895 del 2022, della quale si dirà a breve: si è, in quella occasione, rilevato che le Sezioni unite hanno inequivocabilmente inteso ricollegare la nozione di «reato di criminalità organizzata .. alla esistenza di una stabile struttura organizzativa, rimanendovi dunque estranea, come ribadito esplicitamente nella sentenza Donadio, la ipotesi di reati (meramente) aggravati ai sensi dell’art. 7 del DL 152 del 1991 sia nella ipotesi della utilizzazione del “metodo” mafioso che, anche, in quella della agevolazione di sodalizi mafiosi».
La sentenza n. 12863/2018 ha, dunque, ritenuto che il riferimento delle Sezioni unite ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. debba, per coerenza, necessariamente intendersi limitato ai reati ivi elencati che si siano manifestati in forma associativa, con esclusione, dunque, dei reati monosoggettivi e concorsuali, quand’anche se aggravati dalle modalità o dall’agevolazione mafiose.
Ad identiche conclusioni, come si accennava, è pervenuta Cass. pen., Sez. 1, n. 34895 del 30 marzo 2022.
La Corte era chiamata a valutare, tra gli altri, il ricorso di un’imputata avverso la sentenza di condanna che aveva utilizzato a suo carico conversazioni intercettate nell’ambito di altro procedimento; l’imputata si era, in particolare, doluta del fatto che si trattasse di intercettazione ambientale disposta ai sensi dell’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, nell’ambito di un procedimento che, essendo stato iscritto per un omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 del medesimo decreto, non aveva ad oggetto un delitto di criminalità organizzata: il giudice per le indagini preliminari avrebbe, dunque, dovuto autorizzare le intercettazioni sulla base dei presupposti ordinari previsti dagli artt. 266 e 267 cod. proc. pen., presupposti che, nella specie, non sussistevano.
La sentenza n. 34895/2022 ha ritenuto fondata la doglianza, reputando in ogni caso indefettibile - perché possa trovare applicazione la speciale disciplina di cui all’art. 13 cit. - la contestazione di una fattispecie associativa, anche comune: ed invero, se la sentenza Scurato ha ritenuto che possano rientrare nel novero dei delitti di “criminalità organizzata” solo fattispecie criminose associative, comuni e non, ne deve necessariamente conseguire che il richiamo ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., non può che intendersi riferito ai delitti associativi annoverati in quell’elenco, e non, anche, ai delitti non associativi, per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo.
Il principio di diritto espresso dalla sentenza in oggetto è stato così massimato: «In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, per delitti di “criminalità organizzata”, di cui all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, devono intendersi tutti i reati di tipo associativo, anche comuni, correlati ad attività criminose più diverse, ai quali è riferito il richiamo ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., con esclusione delle ipotesi di mero concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolarne l’attività»[16].
6. Le incertezze interpretative sorte all’indomani della sentenza n. 34895 del 2022 hanno indotto il Governo a porre in essere, in via di urgenza, un nuovo intervento normativo in materia di intercettazioni: con il comunicato diffuso all’indomani del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 2023 si è, invero, evidenziato che l’applicazione generalizzata dei principi affermati nella citata pronuncia avrebbe comportato il rischio della «inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente, che consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo»: dunque, «Al fine di rafforzare gli strumenti di contrasto a reati di particolare gravità, si stabilisce espressamente che la disciplina speciale in materia di intercettazioni per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono, che prevede condizioni meno stringenti per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse, si applichi anche a fattispecie di reato che esprimono un’offensività omogenea rispetto a quelle di criminalità organizzata».
Questo è il testo dell’art. 1 del d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2023, n. 137, recante «Disposizioni in materia di intercettazioni».
«1. Le disposizioni di cui all'articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
2. La disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Nella relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, si è rappresentato che la nuova disciplina «realizza un allineamento di sistema, in quanto relativo ad istituti comuni alle investigazioni in materia di criminalità organizzata. L’inclusione dei reati di criminalità organizzata e di quelli indicati dall’articolo 1 in esame nel catalogo previsto dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. rende irragionevole il disallineamento della disciplina in materia di intercettazioni, determinando la necessità di introdurre senza ritardo la norma in commento, per garantire un’efficace azione di contrasto a gravi forme di criminalità e rendere più organico il sistema processuale, anche in ragione dei numerosi procedimenti in corso in cui si registrano indirizzi non univoci».
L’entrata in vigore del decreto legge è stata immediatamente seguita da voci critiche che hanno investito tanto le sue stesse ragioni giustificative ed i modi dell’intervento, quanto i suoi contenuti.
Sotto il primo punto di vista, si è rilevato che la ravvisata distonia ermeneutica riguarda il contrasto tra una singola sentenza di una Sezione semplice ed una sentenza del 2016 delle Sezioni unite, il cui principio di diritto ha peraltro trovato pedissequa applicazione in numerose successive sentenze delle Sezioni semplici: una situazione nella quale, dunque, ci si sarebbe potuti affidare all’evoluzione giurisprudenziale, che avrebbe portato o al rinnovato consolidarsi del principio di diritto della sentenza Scurato, ovvero alla progressiva affermazione dell’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 34895/2022, con conseguente, inevitabile, nuova rimessione della questione alle Sezioni unite[17].
Si è, altresì, dubitato della sussistenza dei presupposti che la Costituzione pretende per ricorrere alla decretazione d’urgenza, perché, a distanza di quasi un anno e mezzo dalla sentenza n. 34895/2022, non risulta che alcuna altra pronuncia della Suprema Corte abbia dato continuità ai principi in essa statuiti: allo stato, dunque, si è in presenza di un indirizzo giurisprudenziale largamente minoritario, se non proprio isolato, che contrasta con un indirizzo giurisprudenziale consolidato ed avallato da una pronuncia delle Sezioni unite, sicché la necessità e l’urgenza dell’intervento normativo chiarificatore e definitivo riposano su basi quanto meno discutibili[18].
Sono state, infine, sollevate argomentate perplessità in merito alla scelta governativa di emettere un decreto-legge cd. omnibus, che contiene, cioè, una pluralità di disposizioni eterogenee, non riconducibili ad una matrice razionalmente unitaria quanto all’oggetto o quanto allo scopo, poiché destinate ad incidere sul processo penale, su quello civile, sulla disciplina degli incendi boschivi, sulla salute e sul recupero dalle tossicodipendenze, sulla cultura, sul personale della magistratura e della pubblica amministrazione: come si è immediatamente rilevato in dottrina[19], sembra esser stato trascurato quanto in plurime occasioni statuito dalla Corte costituzionale, ad avviso della quale «La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare»[20], dovendo, dunque, le norme di un decreto legge, per quanto eterogenee, necessariamente esibire una «intrinseca coerenza»[21] dal punto di vista oggettivo e materiale, ovvero dal punto di vista funzionale e finalistico.
Quanto al merito della disposizione in esame, si deve innanzitutto osservare che, nonostante le sollecitazioni formulate nel corso dell’esame in sede referente da parte della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati[22], la legge di conversione ha lasciato inalterato il testo dei primi due commi dell’art. 1 del decreto legge n. 105 del 2023, limitandosi ad aggiungere alla norma i commi 2-bis, 2-ter, 2-quater e 2-quinquies, destinati ad innovare, rispettivamente, le modalità di redazione del decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari autorizza le operazioni di intercettazione a mezzo del captatore informatico, le modalità di redazione dei verbali delle operazioni compiute da parte della polizia giudiziaria, e la disciplina dei casi nei quali i risultati delle operazioni di intercettazione possono essere utilizzati in procedimenti diversi.
Occorre, dunque, chiedersi se la disposizione in commento abbia o meno natura di norma di interpretazione autentica: questione di nevralgica importanza ove dovesse concludersi nel senso che - come ritenuto dalla sentenza n. 34895 del 2022 - il pregresso assetto normativo consentisse di applicare il particolare regime previsto dall’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991 ai soli procedimenti nei quali fossero in contestazione reati associativi[23].
7. A questo quesito ha, per la prima volta, risposto la Corte di Cassazione, con Sez. 2, n. 47643 del 28 settembre 2023, depositata lo scorso 28 novembre.
La Corte era chiamata a valutare il ricorso del soggetto attinto da misura custodiale carceraria per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. aggravato dalle modalità mafiose, avverso il provvedimento del tribunale del riesame che aveva confermato l’ordinanza genetica.
Il ricorrente invocava, come già aveva vanamente fatto innanzi ai giudici della libertà, l’applicazione al caso di specie del principio statuito dalla sentenza n. 34895 del 2022, evidenziando che i gravi indizi di colpevolezza erano stati tratti da conversazioni intercettate ai sensi dell'art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, pur essendo in contestazione - non reati di criminalità organizzata, ma - unicamente reati concorsuali aggravati ai sensi dell'art. 416-bis.1 cod. pen.
Nell’analizzare il motivo di ricorso, la Corte ha ritenuto ineludibile l’indagine sulla natura della disposizione introdotta dal decreto legge n. 105 del 2023, rilevando che «ove essa possieda carattere interpretativo, saldandosi con quella interpretata (secondo l'immagine utilizzata dal Giudice delle leggi: Corte cost., n. 424 del 3/12/1993), delinea il contenuto che la norma aveva sin dall'origine e, per questa ragione, può dirsi retroattiva; se, al contrario, deve essere qualificata come norma innovativa, operano gli ordinari criteri di efficacia nel tempo della legge, e in particolare delle norme processuali, valendo esse solo per l'avvenire, con le criticità discendenti in tale ipotesi dall'inserimento di norme transitorie dirette ad estenderne l'applicazione anche per il passato (potendosi profilare dubbi di legittimità costituzionale, per contrasto con parametri nazionali - gli artt. 3 e 15 Cost. - ovvero sovranazionali - art. 8 CEDU -)».
In assenza di «una formale attribuzione del carattere interpretativo della norma (che in altri testi legislativi è testimoniato dal ricorso alla tecnica redazionale mediante incisi esplicativi in questo senso, come quando la norma esordisce con il richiamo alla norma anteriore, precisando che essa "deve essere interpretata nel senso che")», la sentenza in commento ha messo in luce che «la funzione propria della norma interpretativa è quella di “chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative (sentenze n. 163 del 1991 e 413 del 1988), sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta dal legislatore (sentenze n. 6 del 1994; 424 e 402 del 1993; 455 e 454 del 1992; 205 del 1991; 380 e 155 del 1990; 233 del 1988; 178 del 1987)” (Corte cost. n. 397 del 23/11/1994)»: dette norme, dunque, selezionano il significato normativo di una precedente disposizione «originariamente connotata da un certo tasso di polisemia e quindi sia potenzialmente suscettibile di esprimere più significati secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge», chiarendone il significato preciso, con l’unico, invalicabile, limite costituito dalla circostanza che «la scelta "imposta" dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario (così, da ultimo, Corte cost. n. 133 del 6/7/2020)».
Poste tali coordinate, la Corte ha ritenuto quella in esame una norma di interpretazione autentica, valorizzando «la volontà legislativa alla base dell'intervento» (evidenziata nei passaggi della relazione illustrativa del disegni di legge di conversione del decreto legge che si sono già innanzi illustrati: essi, evidenzia la Corte, testimoniano «la volontà legislativa di attribuire alla nozione racchiusa nell'espressione adottata dal legislatore del 1991 .. un perimetro applicativo ispirato al tratto che accomuna i reati caratterizzati dal legame, anche solo fattuale, con realtà criminali organizzate e, allo stesso tempo, alla funzionalità dello strumento investigativo delle intercettazioni, in contesti ove la ricerca degli elementi di prova è resa maggiormente difficoltosa dalle caratteristiche dei fenomeni criminali»), «l'esistenza di difformità interpretative all'interno della giurisprudenza di legittimità» (rese evidenti dalle contrastanti pronunce delle quali si è innanzi dato atto, che la Corte ripercorre nel paragrafo 2.4 della sentenza), e da ultimo «la comparazione tra gli obiettivi originari perseguiti dal legislatore del 1991 e quelli presi in considerazione dalla previsione normativa di nuovo conio».
A tale ultimo proposito, la Corte ha evidenziato che «Nel contesto storico dei primi anni '90 in cui si registrò un allarmante attacco allo Stato e alle sue istituzioni, in grado di condizionare lo sviluppo civile e sociale del paese, da parte delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, fu scelta la strada di assicurare le esigenze di tutela dell'ordinamento dalle aggressioni al tessuto sociale ed economico messe in atto da organizzazioni criminali di elevata pericolosità, quali quelle mafiose, con una pluralità di strumenti, tra cui spiccava l'introduzione della speciale circostanza aggravante dell'art. 7 del d.l. 152/1991, idonea a "ricomprendere tutti gli illeciti realizzati con modalità mafiose al fine di sviluppare e accrescere l'attività dei sodalizi criminali, anche se posti in funzione di mero supporto di tali attività" (così il testo della reazione illustrativa n. 2808 AC del disegno di legge di conversione in legge del decreto legge 13 maggio 1991, pag. 11). Inoltre, nel testo del decreto legge citato, l'art. 13 relativo alla disciplina delle intercettazioni era formulato in termini ancor più generali, prevedendo per qualsivoglia reato, quale presupposto legittimante l'avvio delle operazioni di intercettazione, anche il solo ricorrere dei sufficienti indizi e della mera necessità delle captazioni, con le modifiche in punto di durata delle operazioni e del regime delle proroghe; solo in sede di conversione fu introdotto il tenore della norma attualmente in vigore, con la definizione dell'ambito applicativo delle norme derogatrici attraverso il riferimento ai delitti di criminalità organizzata che si ricollegava, logicamente e in sintonia con l'impianto complessivo del provvedimento, ad una lettura ampia della categoria. Il decreto legge 105/2023 riprende e conferma quella opzione legislativa, volta a considerare la categoria dei delitti di criminalità organizzata alla luce dei dati convergenti del profilo organizzativo e, al tempo stesso, della particolare gravità di reati che, pur in difetto del carattere organizzato, si collocano nell'ambito dei fenomeni criminali in grado di alimentare e supportare lo sviluppo di organizzazioni delinquenziali».
Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha concluso nel senso che la norma introdotta dal decreto legge n. 105 del 2023 abbia «contenuto interpretativo» e, dunque, efficacia retroattiva, «dovendo applicarsi anche nella materia processuale la possibilità di specificare, ora per allora, l'ambito applicativo delle norme destinate a regolare i criteri legittimanti il ricorso a specifici mezzi di ricerca della prova».
Ulteriore conferma alla correttezza delle proprie conclusioni la Corte ha ricavato dal tenore del secondo comma dell'art. 1 del decreto legge n. 105 del 2023: «a dispetto della sua superfluità in presenza di una norma a carattere interpretativo (e dell'impropria qualificazione quale norma transitoria riportata nella relazione illustrativa, indicazione che non può evidentemente superare la volontà del legislatore così come ricostruita attraverso gli indici su evidenziati: Sez. unite, n. 8 del 27/03/1992, Di Marco, Rv. 190246 — 01, nella motivazione), la disposizione traduce l'intento del legislatore di emanare una norma che fosse immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, effetto naturale - come si è detto - già in conseguenza dell'accertata natura interpretativa della norma».
Infine, la Corte non ha ravvisato tensioni con i principi costituzionali, ricordando che, secondo il consolidato orientamento del Giudice delle leggi, la portata retroattiva della legge, ivi compresa di quella che introduca norme di interpretazione autentica, «incontra limiti che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali tra cui rilevano i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, oltre che quello della tutela dell'affidamento legittimamente posto sulla certezza dell'ordinamento giuridico e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario».
Nel caso di specie non viene in rilievo alcuno di questi profili: non la compromissione dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, «non potendosi ipotizzare, nell'ambito di indagini penali e dell'acquisizione di elementi di prova, l'insorgere di oneri processuali con effetti pregiudizievoli per l'indagato, ovvero pregiudizi al legittimo affidamento delle parti stesse nello svolgimento del giudizio, secondo le regole vigenti all'epoca del compimento degli atti processuali»; non il diritto all'inviolabilità delle comunicazioni, che «è soggetto a limitazioni purché disposte “per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”» e può, pertanto, «subire limitazioni o restrizioni “in ragione dell'inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l'intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell'interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione (sentenza n. 366 del 1991)” (Corte cost. n. 20 del 24/1/2017)»; non il principio di ragionevolezza, poiché «l'interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio gli autori delle condotte criminose, specie in relazione ai reati di maggior allarme sociale e di maggiore complessità quanto al loro accertamento, quali quelli relativi ai procedimenti di criminalità organizzata, rappresenta “interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile” (Corte cost. n. 366 del 23/7/1991)».
8. Si ritiene, a prima lettura, di poter concordare con le conclusioni alle quali è giunta la sentenza in commento.
La legge di interpretazione autentica - riflesso del principio in base al quale cuius est condere, eius est interpretari - viene, di regola, adottata quando vi è la necessità di ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali, ovvero quando il legislatore ritenga necessario selezionare uno dei possibili significati che possono ricavarsi dalla disposizione interpretata[24]; ad essa si è, in sporadici casi, fatto ricorso per contrastare un orientamento giurisprudenziale sgradito, pur comunque rinvenendo nella cornice della norma interpretata l’opzione ermeneutica ritenuta preferibile[25].
In assenza di espresse previsioni nel dettato costituzionale[26], la Consulta non ha mai dubitato della legittimità delle leggi di interpretazione autentica, chiarendo che il legislatore può adottarle «non soltanto in presenza di incertezze nell’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore»[27].
Una legge di interpretazione autentica non introduce elementi di novità nell’ordinamento, ma ha una portata meramente ricognitiva di un significato già incluso nell’originario enunciato normativo, ed è destinata ad operare ex tunc, trovando applicazione fin dal momento in cui è entrata in vigore la disposizione autenticamente interpretata.
Orbene, non può revocarsi in dubbio che il tenore testuale della disposizione in commento - pur occupandosi esclusivamente di definire, a seguito di un contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, il campo di applicazione di una norma preesistente (siamo, dunque, nel terreno d’elezione delle norme di interpretazione autentica) - rimandi prima facie al lessico tipico delle norme innovative.
Ed invero:
* in nessuna parte del testo dell’art. 1, della sua rubrica, della rubrica del decreto legge e della legge di conversione si fa mai riferimento alla disposizione in commento come ad una norma di interpretazione autentica;
* nella disposizione in commento manca la formula che è solito trovare nell’incipit di ogni legge di interpretazione autentica («l’art. … deve essere interpretato nel senso che …»);
* il tenore letterale della norma («Le disposizioni [..] si applicano anche nei procedimenti [..]») pare lasciar intendere che fino a quel momento non fosse possibile applicare quelle disposizioni «anche» a quei procedimenti, e, dunque, che con la decretazione di urgenza si sia permesso di fare ciò che prima non era possibile fare;
* il secondo comma dispone espressamente che la nuova norma trovi applicazione «anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto»: se si fosse in presenza di una norma di interpretazione autentica, non vi sarebbe stato alcun bisogno di prescriverne espressamente l’applicabilità anche nei procedimenti pendenti; se è stata avvertita la necessità di inserire la norma transitoria, derogatoria del generale principio in base al quale la legge dispone solo per l’avvenire, è perché il legislatore ha inteso introdurre una disposizione innovativa.
Deve, tuttavia, rilevarsi che una riflessione più approfondita suggerisce di non assegnare ad alcuno degli argomenti appena illustrati rilievo decisivo:
* l’assenza di riferimenti espliciti ed il ricorso ad una formulazione letterale diversa da quella che ordinariamente caratterizza le leggi di interpretazione autentica non possono ritenersi determinanti, non essendo certo imposto al legislatore di affidarsi ad immodificabili formule sacramentali;
* il tenore letterale della norma può senz’altro essere inteso nel senso che, con il decreto legge n. 105 del 2023, il legislatore ha voluto chiarire che la disciplina derogatoria prevista dall’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991 deve trovare applicazione - proprio come affermato dalle Sezioni unite Scurato e dalla quasi univoca giurisprudenza di legittimità - anche quando si proceda per i reati di cui agli artt. 452-quaterdecies e 630 cod. pen., e per i reati aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.; dunque, nulla di innovativo, ma, semplicemente, il manifestarsi dell’intenzione del legislatore d’urgenza - all’indomani di un contrasto giurisprudenziale sorto intorno ad una norma strategica per l’efficacia delle investigazioni relative al crimine organizzato - di privilegiare una delle possibili interpretazioni della norma, consacrando l’opzione ermeneutica già fatta propria dalla giurisprudenza largamente maggioritaria: un modus operandi in nulla dissimile da quello che caratterizza le leggi di interpretazione autentica;
* l’inserimento di una norma transitoria non può avere, di per sé, alcun valore dirimente ai fini che qui rilevano: ed invero, come ha ineccepibilmente rilevato il Consiglio Superiore della Magistratura nel suo parere, approvato dal plenum nella seduta del 21 settembre 2023[28], «se risponde al vero che la regola posta dall’art. 1, comma 2, sarebbe inutiliter data ove la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 1 avesse natura interpretativa, ad analoga conclusione occorrerebbe, però, pervenire anche se tale disciplina, qualificata come “transitoria”, si ritenesse riferita alla modifica di una norma processuale di carattere innovativo […] Tali considerazioni inducono a ritenere possibile che il legislatore, nel formulare il comma 2 dell’art. 1, abbia inteso non già esplicitare (inutilmente) l’obiettivo di assoggettare le intercettazioni nei procedimenti pendenti alla nuova disciplina, ma piuttosto regolare il regime di intercettazioni in corso o già effettuate alla data di entrata in vigore del decreto, disponendo che la loro legittimità e utilizzabilità (con riguardo ai presupposti applicativi ed alle modalità di esecuzione) debba essere vagliata alla stregua del comma 1 dell’art. 1. In questa prospettiva ermeneutica, il comma 2 finirebbe col riconoscere alle disposizioni del comma 1 dell’art. 1 stesso quell’effetto retroattivo proprio di ogni norma di interpretazione autentica».
Vi sono, dunque, margini per sostenere che l’art. 1, comma 1, d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2023, n. 137, abbia introdotto una norma di interpretazione autentica, come tale retroattiva ed applicabile a tutti i procedimenti in corso di svolgimento, sì da divenire il parametro di riferimento per valutare la legittimità delle autorizzazioni concesse anche in epoca antecedente alla sua entrata in vigore.
Deve, conseguenzialmente, concludersi per la piena utilizzabilità delle captazioni autorizzate in base alla disciplina derogatoria dettata dall’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991 nei procedimenti per il delitto di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., in quelli per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen., e, soprattutto, in quelli per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., quand’anche il giudice per le indagini preliminari le avesse autorizzate prima dell’11 agosto 2023: ed invero, la piena legittimità di queste captazioni, già ricavabile dal testo delle norme di riferimento, e già sancita dalla giurisprudenza di legittimità anche a Sezioni unite, è stata semplicemente confermata da una norma di interpretazione autentica[29].
Come rilevato dalla sentenza in commento, infine, appaiono senz’altro rispettati, nel caso di specie, i principi di ragionevolezza, certezza del diritto e legittimo affidamento, che la Corte costituzionale ha in più occasioni individuato quali parametri per valutare la legittimità dell’intervento normativo con effetti retroattivi[30], non potendo revocarsi in dubbio che il legislatore - onde eliminare qualsiasi incertezza applicativa - si sia qui limitato a ribadire che la norma interpretata ha il medesimo ambito operativo già individuato dalla quasi univoca giurisprudenza di legittimità.
[1] Nella sua originaria formulazione, l’art. 13 introduceva maglie più larghe per le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ma senza fare alcun riferimento ai delitti di criminalità organizzata: «1. L’articolo 267 del codice di procedura penale è così modificato: a) il comma 1 è sostituito dal seguente: "1. Il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’articolo 266. L’autorizzazione è data con decreto motivato quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione a un reato in ordine al quale sussistono sufficienti indizi."; b) il comma 3 è sostituito dal seguente: "3. Il decreto del pubblico ministero che dispone l’intercettazione indica le modalità e la durata delle operazioni. Tale durata non può superare i quaranta giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di venti giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1. Nei casi di urgenza, alla proroga provvede direttamente il pubblico ministero; in tal caso si osservano le disposizioni del comma 2."; c) nel comma 4 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "Il pubblico ministero e l’ufficiale di polizia giudiziaria possono farsi coadiuvare da agenti di polizia giudiziaria."».
[2] Cfr., oltre agli artt. 51, commi 3-bis e 3-quater, 274, comma 1, lett. c), 371-bis, 372, comma 1-bis e 407 cod. proc. pen., l’art. 13 l. 19 marzo 1990, n. 55, che modificò l’art. 30-ter ord. pen. in tema di permessi premio; l’art. 1 del medesimo d.l. n. 152 del 1991 in tema di benefici penitenziari; l’art. 21-bis d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in tema di sospensione dei termini delle indagini preliminari nel periodo feriale.
[3] FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in L’indice penale, 1991, 10. Parla di «parametro di carattere generico che, attraverso il succedersi di applicazioni concrete, va riempito di esperienze e di verifiche» CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., 1992, III, 385.
[4] MELILLO, La ricerca della prova tra clausole generali e garanzie costituzionali: il caso della disciplina delle intercettazioni nei procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1997, 12, 3500.
[5] Cfr. Sez. 2, n. 6321 del 25 novembre 2015, dep. 2016: «La deroga alla sospensione nel periodo feriale dei termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, prevista dall’art. 240 bis, comma secondo, disp. coord. cod. proc. pen., per i reati di criminalità organizzata, [..] riguarda non solo i procedimenti aventi ad oggetto reati di criminalità mafiosa ed i delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche qualsiasi tipo di associazione per delinquere ex art. 416 bis cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, aventi il requisito dell’organizzazione». In termini anche Cass. pen., Sez. 3, n. 19437 dell’8 febbraio 2022 e Cass. pen., Sez. 2, ord. n. 11657 del 10 marzo 2023.
[6] Cfr. Cass. pen., Sez. 3, n. 36927 del 18 giugno 2015: «Ai fini dell’applicazione dell’art. 240-bis, comma secondo, disp. coord. cod. proc. pen., che prevede l’esclusione anche per i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di cautela reale della sospensione feriale dei termini procedurali nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, quest’ultima nozione identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre i delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato.(Fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva rigettato la richiesta di riesame di sequestro preventivo disposto nell’ambito di un procedimento relativo al reato previsto dall’art. 416 cod. pen., provvedendo oltre i dieci giorni previsti dall’art. 324, comma settimo, cod. proc. pen., per aver considerato "sterilizzato" il periodo di tempo decorso durante il termine di sospensione feriale)»
[7] Cfr. Cass. pen., Sez. 3, n. 11632 del 2 febbraio 2022: «La deroga alla sospensione nel periodo feriale dei termini relativi alle indagini preliminari, prevista dall’art. 240-bis, comma 2, disp. coord. cod. proc. pen., per i procedimenti di criminalità organizzata, opera sia per l’indagato che per i soggetti terzi. (In motivazione, la Corte ha precisato che la ratio di tale disciplina è quella di evitare che le indagini preliminari subiscano pause potenzialmente pregiudizievoli del risultato dell’attività investigativa, sicché, ai fini dell’esclusione della sospensione feriale, rileva la sola circostanza che la contestazione si inserisca nell’ambito di un procedimento di criminalità organizzata)».
[8] Così, tra le prime, Cass. pen., Sez. 1, n. 617 del 31 gennaio 1994.
[9] Negli stessi termini, di recente, Cass. pen., Sez. 2, n. 6996 del 14 aprile 2020, Mango: «La deroga prevista dall’art. 240-bis, comma secondo, disp. coord. cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’esclusione, operante anche per i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di cautela personale, della sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità organizzata - nozione che identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre i delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma qualsiasi tipo di associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse - non è applicabile al mero concorso di persone nel reato, ancorché aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma primo, cod. pen., nel quale manca il requisito dell’organizzazione (Fattispecie in tema di concorso in omicidio e tentato omicidio aggravati dal fine di agevolare un clan mafioso)».
[10] Cass. pen., Sez. 6, n. 6159 del 24 febbraio 1995, sentenza che, altresì, statuì il principio, ancora oggi univocamente applicato dai giudici di legittimità, in base al quale la legittimità dell’autorizzazione va valutata con riferimento al momento procedimentale in cui l’intercettazione è richiesta e concessa, rimanendo, dunque, indifferente all’esito delle indagini, quand’anche queste ultime impongano di dare ai fatti una qualificazione giuridica diversa ed estranea a contesti di criminalità organizzata: «l’intercettazione deve ritenersi legittimamente disposta e perciò utilizzabile a fine di prova quando sia stata autorizzata con riferimento ad una ipotesi delittuosa rientrante nella categoria dei reati di criminalità organizzata ed all’esito dell’istruttoria l’azione penale venga esercitata per la violazione dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309». Cfr., in termini, Cass. pen., Sez. 6, n. 7 del 7 gennaio 1997, nonché Cass. pen., Sez. 6, n. 21740 dell’1 marzo 2016.
[11] Cass. pen., Sez. 6, n. 7 del 7 gennaio 1997. In temini sostanzialmente sovrapponibili si espressero, successivamente, Cass. pen., Sez. 6, n. 1972 del 16 maggio 1997, a proposito dei delitti di associazione per delinquere e traffico internazionale di armi; Cass. pen., Sez. 1, n. 3972 del 2 luglio 1998, a proposito del delitto di associazione per delinquere; Cass. pen., Sez. 1, n. 23424 del 19 dicembre 2002, dep. 2003, a proposito del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; Cass. pen., Sez. 5, n. 46221 del 20 ottobre 2003, a proposito del delitto di associazione mafiosa; Cass. pen., Sez. 1, n. 2612 del 20 dicembre 2004, dep. 2005, a proposito dei delitti di cui agli artt. 416-bis cod. pen. e 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; Cass. pen., Sez. 1, n. 28602 del 19 marzo 2013, che ritenne utilizzabili le captazioni già disposte per il delitto di associazione per delinquere, pur se il procedimento si era concluso con la condanna degli imputati per il solo delitto di corruzione.
[12] Come ben evidenziato da TESSITORE, Sulla nozione di criminalità organizzata ai fini della disciplina in deroga delle intercettazioni, in questa Rivista, 21 luglio 2023, il principio di diritto affermato dalla sentenza Scurato, «a dispetto di una impressione a prima lettura, non è di univoca lettura», poiché la pronuncia, dopo aver mostrato convinta adesione ai principi già statuiti dalle sentenze Petrarca e Donadio, imperniati sulla indispensabile presenza di una «stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di più reati», ha richiamato i cataloghi dei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cod. proc. pen., «in cui sono compresi reati che ben possono essere, nella concretezza delle specifiche vicende, del tutto estranei ad una stabile organizzazione, ad una struttura associativa, appunto perché semplicemente aggravati per l’impiego del cd. metodo mafioso o per la finalità di agevolazione mafiosa», trattandosi di «manifestazioni aggravatrici che, come affermato in giurisprudenza, non si risolvono per necessità, e quindi sempre, nel riconoscimento di legami di alcun tipo tra il reato e un contesto di stabile organizzazione programmaticamente diretta alla commissione di più reati, per dirla, ancora una volta, con la sentenza Donadio delle Sezioni unite».
[13] In questo senso, in dottrina, AMATO, Un intervento forse non necessario che spettava alle Sezioni Unite, in Guida dir., 32-33, 22. L’Autore evidenzia che, in ossequio al principio di diritto della sentenza Scurato «non sembra dubitabile che già dovessero rientrare nella nozione di criminalità organizzata, oltre alle fattispecie tipicamente associative», anche i delitti indicati dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., sottolineando che si tratta di una «pacifica lettura interpretativa, coerente del resto con l’empirico rilievo che trattasi dei delitti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale e, per ciò, ricompresi nei compiti di impulso e di coordinamento del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo».
[14] Il riferimento ai reati di cui all’art. 51, comma 3-quater, cod. proc. pen. fu successivamente aggiunto dall’art. 9 d.l. 18 febbraio 2005, n. 7, convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43.
[15] Analoghe considerazioni sono sviluppate, ed ulteriormente arricchite, da AMATO, op. cit.: «il codice di rito, in altre disposizioni, fornisce una nozione di criminalità organizzata che rende incomprensibili ed infondate le decisioni dissonanti. Basti pensare, decisivamente, al disposto dell’articolo 54-ter del cpp, la cui rubrica recita “contrasti tra pubblici ministeri in materia di criminalità organizzata”, laddove la nozione di “criminalità organizzata” è chiaramente individuata ricomprendendovi i reati (tutti i reati, associativi e no) “indicati nell’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater» del cpp. Basti pensare, ancora, al disposto dell’articolo 371-bis, comma 3, lettera c), del Cpp, in tema di attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, laddove si correla tale attività ai procedimenti di criminalità organizzata, che il comma 1 dello stesso articolo declina richiamando proprio i procedimenti per i delitti “indicati nell’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater”, del Cpp. Non solo. Una conferma del logico inquadramento di tutti i delitti “indicati nell’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater”, del Cpp nella nozione di criminalità organizzata, senza che fosse necessaria una specifica puntualizzazione, già lo si poteva, e lo si può, ricavare dalla disciplina vigente in tema di captatore elettronico, laddove l’articolo 266, comma 2-bis del Cpp, detta, per l’applicabilità del trojan, una disciplina unitaria nei procedimenti per (tutti) i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del Cpp, prevedendo che, in tale evenienza, l’utilizzo del captatore è consentito “sempre”, anche senza la previa predeterminazione da parte del giudice, in sede di autorizzazione, dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono (articolo 267, comma 1, terzo periodo, del Cpp), e ciò perché in tali situazioni l’intercettazione è legittima anche nei luoghi di privata dimora di cui all’articolo 614 del Cp, e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa. Trattasi di una importante conferma, proprio nella materia delle intercettazioni, di reati che già in precedenza dovevano, e devono, avere il medesimo regime giuridico, proprio perché dovevano, e devono, essere ricompresi nella nozione di “criminalità organizzata”».
[16] Condivide le conclusioni della sentenza in oggetto AMARELLI, “Reati di criminalità organizzata” ed intercettazioni: è davvero utile un decreto-legge di interpretazione autentica?, in questa Rivista, 25 luglio 2023: ad avviso dell’Autore, la sentenza n. 34895/2022 «non ha introdotto ex abrupto un principio di diritto innovativo [..] Anzi, esattamente al contrario, ribadisce un principio di diritto più che consolidato in giurisprudenza», riducendo «in coerenza con i principi generali del nostro ordinamento e all’esito di un bilanciamento ponderato tra i confliggenti interessi in gioco, vale a dire l’acquisizione agevolata di materiale probatorio per reati mafiosi e il diritto alla riservatezza delle comunicazioni e conversazioni del singolo, il concetto di criminalità organizzata ai soli contesti associativi stabili e duraturi finalizzati alla commissione di delitti o attività mafiose».
[17] In questo senso PARODI, D.l. n. 105/2023: ancora una volta, novità in tema di intercettazioni, ne Il penalista, 11 agosto 2023; AMARELLI, op. cit.: ad avviso di quest’ultimo Autore, «nel pieno rispetto del principio di separazione dei poteri, si potrebbe lasciare la questione nelle mani della stessa giurisprudenza evitando intrusioni del legislatore, magari immaginando una assegnazione d’ufficio da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 610, comma 2, c.p.p., trattandosi di questione di speciale importanza, pur non sussistendo un contrasto giurisprudenziale. Certamente i tempi sarebbero più lunghi di quelli di un decreto-legge e, forse, anche di una legge parlamentare, ma gli esiti molto probabilmente sarebbero più ragionevoli e meno bruschi». In termini anche AMATO, op. cit.: «Vi è piuttosto da chiedersi, alla luce della strada percorsa con il decreto legge, se l’intervento fosse realmente necessario o se, invece, nella fisiologia della funzione nomofilattica della Cassazione, non sarebbe stato sufficiente un nuovo (magari urgente) intervento delle sezioni Unite della Cassazione, con il quale si fosse composto il contrasto o, meglio, si fosse superata la non piena comprensione del portato della decisione Scurato da parte di alcune (poche) decisioni successive». Infine, ad avviso di CELOTTO, Sulla conversione in legge del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105 (disposizioni urgenti in materia di processo penale), in Giur. pen. web, 2023, 9, «Per quanto avente portata innovativa rispetto all’orientamento precedente, non è detto che in futuro il principio di diritto enunciato» dalla sentenza n. 34895 del 2022 «prevarrà come interpretazione dominante: in via prospettica, laddove il contrasto ermeneutico persistesse, onde superare gravi incertezze in sede applicativa, la strada “naturale” sarebbe quella della rimessione della questione alle Sezioni Unite, in linea con il ruolo nomofilattico dell’istituzione rafforzato dalle più recenti riforme. Si può dubitare, dunque, dell’effettiva necessità di introdurre, tramite decreto-legge, una norma di interpretazione, anche al fine di salvaguardare l’equilibrio e il rispetto dei ruoli fra legge e organo giudiziario».
[18] In questo senso GATTA, Intercettazioni e criminalità organizzata: quando a voler precisare si finisce per complicare, in questa Rivista, 8-11 agosto 2023: «Ecco allora il cuore del problema: una sentenza di una sezione semplice che ha reinterpretato un principio affermato da una sentenza delle Sezioni Unite. È qualcosa di normale, di fisiologico nei processi di formazione della giurisprudenza. Se di interpretazione sbagliata si tratta – come parrebbe leggendo il principio di diritto della sentenza Scurato –, essa vincola per le legge solo il giudice del rinvio [..]. Perché allora si è intervenuti con un decreto-legge? Le perplessità sono legittime, perché non si tratta di superare un principio affermato dalle Sezioni Unite e che, pertanto, è diritto vivente. Si tratta di superare un principio affermato un anno fa da una singola sentenza di una sezione semplice, che vincola un solo giudice. Certo, il rischio è che quella sentenza faccia giurisprudenza e inauguri un nuovo orientamento. Ed è un rischio che, nella fisiologia dei processi di formazione della giurisprudenza, viene normalmente affrontato dalla Cassazione, attraverso le riunioni di sezione o tra i presidenti di sezione e il ricorso eventualmente alle Sezioni Unite. Se si tratta di precisare un principio già affermato dalle Sezioni Unite è proprio necessario ricorrere a un decreto-legge? Non basta, nella logica e nelle dinamiche del sistema, sollecitare un nuovo intervento delle Sezioni Unite?». In termini anche PARODI, op. cit., nonché AMARELLI, op. cit.: ad avviso di quest’ultimo Autore, «Appare difficile, invero, ritenere che nell’ipotesi in parola, in cui ci si trova al cospetto di un indirizzo giurisprudenziale non nuovo, imprevisto e distonico rispetto alle intenzioni politiche del legislatore, ma di un consolidatissimo orientamento ratificato a più riprese dalla Corte di Cassazione, peraltro rispetto ad una disposizione che è in vigore da oltre trent’anni, sussista effettivamente il requisito della necessità e dell’urgenza, anche perché non è dato sapere il numero di procedimenti penali a serio rischio per la inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito con malware o trojan utilizzati illegittimamente, considerato il fatto che è ius receptum tale regolae, quindi, difficilmente ci potrebbero essere tante altre vicende giudiziarie aperte in cui si sostiene la soluzione avallata dalla corte territoriale napoletana e cassata dalla Suprema Corte. Il rischio di una declaratoria di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 77 Cost. sarebbe tutt’altro che remoto, con non poche ricadute problematiche sul versante proprio dei procedimenti penali in corso rispetto ai quali si riespanderebbe nuovamente la disciplina pregressa».
[19] Cfr. CELOTTO, op. cit.
[20] Corte cost., sent. 23 maggio 2017, n. 170.
[21] Corte cost., sent. 5 ottobre 2016, n. 244. In altra pronuncia la Corte ha sottolineato che «in mancanza di omogeneità, il decreto-legge degraderebbe in una congerie di norme assemblate soltanto da mera causalità temporale. L’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 [..] - là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge “deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo” - pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti a questa Corte, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento»: Corte cost., sent. 13 febbraio 2012, n. 22.
[22] Nel dossier realizzato dal Servizio Studi della Camera dei Deputati si era, tra l’altro, evidenziato che «[..] in linea generale, in riferimento alla successione di leggi nel tempo, alla disciplina di carattere processuale si applica di norma il principio generale del tempus regit actum, in forza del quale le nuove disposizioni processuali possono essere applicate anche a fatti commessi in precedenza purché riguardino atti processuali non già conclusi ed esauriti negli effetti. A tal proposito, la disposizione in esame, prevedendo che tale nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso, non specifica in quale fase tali procedimenti debbano trovarsi affinché essa possa trovare applicazione, e cioè se essa, ad esempio, trovi applicazione solo per i procedimenti in cui non sia ancora stata chiesta l’autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni o per quelli nei quali non si sia ancora deciso sulla utilizzabilità del materiale probatorio acquisito».
[23] Ed invero, ove dovesse, al contrario, ritenersi - in armonia con quanto statuito dalla sentenza Scurato e dalla già illustrata giurisprudenza di legittimità - che della categoria dei «delitti di criminalità organizzata» hanno sempre fatto parte anche tutti quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., assegnare alla nuova disposizione natura di norma innovativa ovvero di norma di interpretazione autentica sarebbe operazione priva di significative ripercussioni di ordine pratico, dovendosi necessariamente concludere nel senso che ciò che prima era consentito sulla base del diritto vivente, oggi è consentito perché espressamente previsto dall’art. 1 d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2023, n. 137.
[24] Evidenzia ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, I, Torino, 1990, 91, che è corretto parlare di interpretazione autentica solo in presenza di «concreti dubbi e oscillazioni interpretative», in mancanza dei quali si avrebbe, piuttosto, la sostituzione di una norma ad un’altra.
[25] PUGIOTTO, Una vicenda esemplare (in tema di interpretazione autentica e materia tributaria), in Giur. cost., 1999, 2093.
[26] Al contrario di quanto accadeva nell’ordinamento pre-repubblicano: l’art. 73 dello Statuto albertino prevedeva, infatti, che «L’interpretazione della legge in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo».
[27] Corte cost., sent. 17 ottobre 2011, n. 271. Per un caso di legge di interpretazione autentica dichiarata costituzionalmente illegittima, cfr. Corte cost., sent. 19 marzo 1990, n. 155: «[..] con la l. n. 67 del 1987 il legislatore ha notevolmente modificato la disciplina precedente (l. n. 416 del 1981), illegittimamente disponendo peraltro che quello era il significato della suindicata normativa preesistente. Cade così con la qualifica arbitrariamente attribuita la conseguente efficacia retroattiva, e pertanto la nuova disciplina ex l. n. 67 del 1987 è applicabile secondo la disciplina generale della legge nel tempo».
[28] Consultabile sul sito web www.csm.it.
[29] Va segnalato che in questo senso si è pronunciato qualche settimana fa il Tribunale di Velletri, con l’ordinanza dell’8 novembre 2023 consultabile a questo link: nel rigettare l’eccezione di inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni formulata dal difensore dell’imputato, il Tribunale ha rilevato che “l’art. 1 d.l. 105/23 non costituisce un novum, ma cristallizza sul piano normativo un principio di diritto già espresso dalle SS. UU. C. Cass. fin dal 2016 con la sentenza Scurato, che aveva già fornito una risposta al problema della individuazione delle fattispecie rientranti nel concetto di criminalità organizzata ricomprese nell’ambito della disciplina derogatoria delle intercettazioni”. Dunque, “esclusa la portata novativa dell’art. 1 del decreto legge 105/2023, la disposizione transitoria di cui al secondo comma ... non si pone in contrasto con il principio del tempus regit actum, ma anzi lo ribadisce”.
[30] Cfr., ex plurimis, Corte cost., ord. 20 aprile 2011, n. 161.