Trib. Bari, sent. 9 giugno 2021, Giud. Guerra, proc. SIRTI S.p.A.
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1. Quando una condotta colposa, che provoca un infortunio mortale, può dirsi effettivamente realizzata “nell’interesse o a vantaggio” di una impresa, e come tale radicare – almeno sul piano oggettivo – la responsabilità dell’ente ai sensi del D.lgs 231/2001?
A questo interrogativo, la cui risposta resta alquanto controversa, in dottrina quanto in giurisprudenza, è stato chiamato a rispondere di recente anche il Tribunale di Bari, in composizione monocratica, in una vicenda che val forse la pena di ripercorrere, sia pure a larghe pennellate.
Alcuni dipendenti della società SIRTI S.p.A., grande azienda italiana attiva nel mercato della progettazione e realizzazione di reti infrastrutturali, decidono unilateralmente di stoccare temporaneamente alcuni materiali, che avrebbero utilizzato in un cantiere vicino, presso un’area nel comune di Gravina in Puglia di proprietà di un fornitore della stessa SIRTI (una carpenteria metallica), a cui viene chiesta la “cortesia” di ospitare il materiale per qualche giorno in attesa del suo successivo impiego in zona.
Alla luce di quanto è emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale, tale decisione non viene comunicata né al datore di lavoro responsabile dell’“unità produttiva” (in questo caso, denominata SOR – struttura operativa regionale), né all’RSPP competente per la medesima SOR, e men che meno ad altre funzioni apicali della società.
D’altra parte, per quanto qui preme osservare, dall’istruttoria emerge la mancanza di un formale contratto con la carpenteria che accetta di ospitare per qualche giorno materiale di SIRTI, e che la stessa SIRTI in Puglia ha due depositi regolari (uno a Bari, l’altro a Nardò), che vengono però ritenuti meno comodi rispetto a quello sito in Gravina in Puglia, più vicino al cantiere, a cui i dipendenti in questione ricorrono con le modalità di cui si è detto.
Dal momento che questa decisione viene presa in modo informale, al di fuori delle procedure aziendali, e, come si è visto, all’insaputa dello stesso datore di lavoro e dell’RSPP, non vi è alcuna valutazione del rischio sul deposito preso in prestito né viene di conseguenza disposta alcuna specifica misura di sicurezza, a differenza di quanto accade per i depositi “regolari” di SIRTI.
L’epilogo di questa vicenda è immaginabile. In questo deposito estemporaneo di Gravina in Puglia un operaio, dipendente di SIRTI, mentre è in attesa dell’arrivo di altro materiale da stoccare, viene accidentalmente investito dal carrello appendice di un camion guidato da un collega, intento in una manovra. L’operaio purtroppo decede sul posto, schiacciato dalle ruote del carrello.
2. Il Pubblico Ministero chiama a rispondere penalmente non soltanto i dipendenti che avevano optato autonomamente per la soluzione di ricorrere al deposito temporaneo, ma anche i datori di lavoro di SIRTI (l’Amministratore Delegato e il datore di lavoro responsabile dell’“unità produttiva”), e la stessa SIRTI, ai sensi del D.lgs 231/2001.
Il Pubblico Ministero, nel capo d’imputazione, contesta infatti a SIRTI non soltanto una colpa di organizzazione, per non aver asseritamente valutato, nel proprio Modello organizzativo – pure presente ed implementato – i rischi di questo specifico deposito e di conseguenza per non aver adottato misure idonee a prevenire eventuali infortuni nello stessi, ma anche – e ancor prima, a rigore – che il delitto di omicidio colposo contestato agli imputati persone fisiche sia stato commesso nell’interesse della società, in ragione di un asserito risparmio di spesa legato al mancato sopralluogo di sicurezza e all’adozione delle cautele necessarie.
3. Il Giudice di primo grado, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, condanna i dipendenti che avevano cooperato (colposamente) nell’individuazione del deposito “temporaneo” di Gravina in Puglia, ma assolve i datori di lavoro, l’RSPP e la stessa SIRTI dall’imputazione ai sensi del D.lgs 231/2001.
3.1. Sull’assoluzione delle persone fisiche non ci soffermeremo a lungo, per non correre il rischio di andare fuori dal fuoco di questo breve contributo. È però appena il caso di osservare che il Giudice dimostra di fare buon governo dei principi che dovrebbero disciplinare la responsabilità di chi ricopre posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse, quale è senz’altro la società SIRTI, che – ricorda lo stesso Giudice – impiega circa 4 mila dipendenti.
Sul punto, al fine di escludere la responsabilità dell’Amministratore Delegato di SIRTI, il Giudice ricorda che “la diffusione di organizzazioni aziendali complesse, con suddivisione di compiti e responsabilità fra più soggetti, ha indotto il pensiero giuridico ad uno sforzo di conciliazione fra l’obbligo di protezione imposto al datore di lavoro (principio di rango costituzionale) ed il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, che esclude che taluno risponda penalmente di eventi causati da azioni od omissioni di altri. Ossia il dato formale che un soggetto rivesta il ruolo di amministratore di una società di capitali non può automaticamente addossare a tale soggetto la responsabilità penale per tutti i reati commessi nell’esercizio dell’impresa, altrimenti ricorrerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva vietata dalla vigente Costituzione”.
Il Giudice ricorda inoltre che, naturalmente, occorrerà pur sempre valutare se i “delegati”, o comunque chi ricopra posizioni di garanzia all’interno dell’impresa, abbiano gli effettivi poteri, anche di spesa, per poter adempiere concretamente alle funzioni che gli sono state affidate: circostanza che il Giudice ritiene ampiamente provata nel processo con riferimento al datore di lavoro della SOR/unità produttiva, al punto da concludere che “la semplice lettura della documentazione aziendale, in uno con i dettami normativi e gli orientamenti giurisprudenziali, avrebbero dovuto escludere del tutto la riconducibilità della morte” del lavoratore all’Amministratore Delegato “sin dalla prima fase”, in quanto non vi era dubbio per il Giudice che il datore di lavoro in questo caso fosse il responsabile dell’unità produttiva, e non il vertice dell’impresa.
In quel “sin dalla prima fase” si scorge peraltro un garbato rimprovero alla disinvoltura – purtroppo frequente – con la quale la Pubblica Accusa, in presenza di un grave infortunio (o, verrebbe da aggiungere, di casi di malattia professionale), chiama a rispondere penalmente tutta la “catena” di garanti della sicurezza di una impresa, abdicando al fondamentale dovere di ricostruire l’effettiva e concreta distribuzione di poteri e relative responsabilità all’interno dell’impresa stessa, già nella fase di indagini. Si tratta di imputazioni che la Cassazione a ragione, e da tempo, ha definito illegittime in quanto “indiscriminate”[1], e che giustamente dovrebbero essere censurate, come è accaduto nel caso in esame. La scelta di mandare a giudizio un indagato dovrebbe essere infatti decisione attentamente ponderata, anche soltanto per l’impatto personale e professionale che deriva dall’assumere lo status di imputato in un procedimento penale.
Sull’assoluzione del datore di lavoro dell’unità produttiva/SOR e dell’RSPP possiamo essere ancora più sintetici: il Giudice ha preso atto che dall’istruttoria dibattimentale fosse stato provato che entrambi fossero del tutto ignari della scelta unilaterale dei dipendenti condannati di ricorrere al deposito di Gravina in Puglia, e che peraltro non vi era alcuna prova che tale mancata conoscenza fosse in qualche misura a loro rimproverabile per colpa.
3.2. Ancor più interessanti, nella sentenza in esame, sono le motivazioni che hanno condotto all’assoluzione della società.
Il Giudice affronta innanzitutto, e a ragione, la questione se il reato commesso dai dipendenti, o “sottoposti”, per usare l’espressione di cui al D.lgs 231/2001, sia stato effettivamente commesso – o meno – nell’interesse o a vantaggio della SIRTI: si tratta infatti dell’accertamento di uno degli elementi essenziali di ascrizione, sul piano oggettivo, del reato all’ente, e che logicamente viene prima di ogni eventuale accertamento di una possibile colpa di organizzazione della società.
In proposito, il Giudice, con una raffinata ricostruzione, ricorda quale fondamentale questione si agiti attorno all’estensione del D.lgs 231/2001 ai reati colposi, accanto a quelli – che sono tuttora la più parte – dolosi: e cioè, come si possa affermare che un delitto di omicidio colposo o di lesioni colpose gravi, nell’ambito di una impresa, possa essere commesso “nell’interesse o a vantaggio” dell’impresa stessa.
La dottrina più attenta evidenzia infatti che un infortunio sul lavoro non è mai, a rigore, né può essere ontologicamente, nell’interesse di una impresa: ed anzi, a ben guardare, un infortunio rappresenta un evidente pregiudizio per l’impresa, in termini di danni d’immagine, costi per i risarcimenti, spese legali etc.[2]
Tant’è che una parte della dottrina, ancorché rimasta al momento isolata[3], ha concluso che si dovrebbe prendere atto che il D.lgs 231/2001, concepito sulla struttura dei reati dolosi, risulterebbe attualmente inapplicabile in presenza di reati colposi, proprio perché non sarebbe possibile affermare che l’autore del reato ha agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente quando accade un infortunio ascrivibile a titolo di colpa.
Questa tesi radicale, come meglio si dirà, non ha però attecchito in giurisprudenza, che invece applica il D.lgs 231/2001 anche in presenza di reati colposi connessi ad infortuni sul lavoro.
E allora resta la domanda: come coniugare la presenza di questi reati colposi nel catalogo dei reati presupposto (e di altri reati colposi, a ben vedere, ad esempio in materia ambientale) con l’esigenza che gli stessi siano commessi “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente?
Su questo interrogativo, il Giudice osserva che “sul punto si sono succedute numerose teorie atte a determinare una plausibile congiunzione tra l’art. 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e l’art. 25-septies del medesimo decreto, e la più corretta è sicuramente quella che facendo leva su un’interpretazione puramente oggettiva della norma, si è soffermata esclusivamente sull’analisi della condotta dell’agente poiché considerata unico elemento idoneo a integrare un beneficio in favore dell’ente. Viene così abbandonato ogni aspetto “soggettivo” che invece è tipico dei reati dolosi.
Tale tesi è sicuramente quella che ha trovato il maggior numero di consensi sia in dottrina che in giurisprudenza, in quanto riconosce effettivamente come il vantaggio ottenuto dall’ente sia esclusivamente di carattere oggettivo, consentendo pacificamente di incardinare il percorso di ascrizione della responsabilità della persona giuridica in piena conformità con l’art. 5, Decreto Legislativo n. 231 del 2001”
Nella sentenza si legge inoltre che “l’interpretazione complessiva delle norme citate (art. 25-septies e art. 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001) richiede necessariamente all’interprete di concentrarsi sul vantaggio che l’ente ha tratto, non dall’evento lesioni o morte, bensì dalla violazione della disciplina antinfortunistica che ha dato causa all’evento”.
Chiarito dunque che l’interesse o vantaggio, in presenza di reati colposi, va parametrato non già sul delitto nel suo complesso – incluso dunque l’evento – ma soltanto sulla condotta dell’agente, il Giudice aggiunge che è nell’esame della condotta che andrebbe isolata la sua proiezione finalistica volta ad avvantaggiare l’ente.
Il Giudice, sul punto, sostiene infatti che l’unica condotta colposa rilevante per poter implicare la responsabilità dell’ente sarebbe quella consistente nella “volontaria violazione delle norme antinfortunistiche (o perché espressione di una politica d’impresa o perché ha comportato un risparmio di spesa)”.
Nella sentenza si afferma che “i delitti colposi delle persone giuridiche si connot[a]no per una commistione fra dolo e colpa. Infatti, la violazione delle norme antinfortunistic[he] deve essere sempre cosciente e volontaria (in caso contrario non si potrebbe determinare il perseguimento di un interesse o di un vantaggio), ma l’evento non può mai essere voluto (altrimenti il delitto sarebbe doloso)”.
E ancora, sulla stessa linea: “È, dunque, necessario che le persone fisiche che hanno causalmente contribuito al verificarsi dell’evento lo abbiano fatto per assicurare un vantaggio all’ente, mentre nel caso in cui la violazione della normativa antinfortunistica nasca dal comportamento negligente di un dipendente che non persegua alcun obiettivo identificabile nel profitto o nel risparmio di spesa per la società, la persona fisica potrà essere ritenuta responsabile di omicidio colposo, ma ciò non determinerà una conseguente responsabilità amministrativa dell’Ente”.
A fronte di queste premesse teoriche, il Giudice ha dunque concluso che nel caso di specie la condotta dei dipendenti imputati, e poi condannati, fosse da ascrivere ad un comportamento animato da esclusive finalità personali (e cioè una “questione di ‘comodità’” rispetto all’utilizzo dei depositi autorizzati), senza peraltro che vi fosse stato alcun effettivo risparmio di spesa per la SIRTI, e dunque alcun concreto interesse o vantaggio per la società.
A quest’ultimo proposito, il Giudice ha infatti evidenziato che “è lo stesso consulente del P.M. – il quale ha più volte spiegato che la morte si sarebbe evitata posizionando uno o più uomini a terra in quanto si era in presenza di un mezzo meccanico trainante un veicolo a causa della ridotta visibilità posteriore – ad affermare che l’adozione di tale misura ‘non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la società, perché l’utilizzo degli uomini della squadra presenti, il […] e il […] a terra e il […] sull’autocarro, sarebbe stata sufficiente’.
Ne consegue che la previsione di manovratori a terra non avrebbe avuto per la Sirti alcun aggravio di spese e, dunque, non si registra alcun tipo di vantaggio o di interesse in quanto gli uomini che avrebbero potuto guidare il […] da terra erano presenti”.
Chiarita l’insussistenza dell’elemento oggetto dell’illecito da reato, per la mancanza di un interesse o di un vantaggio dell’ente nella condotta dei dipendenti, il Giudice ha peraltro – ad abundantiam – escluso in ogni caso la colpa di organizzazione di SIRTI, le cui procedure non sarebbero state attivate non già per un difetto del Modello organizzativo, ma per la decisione dei dipendenti autori della condotta illecita di non informare il datore di lavoro né altra funzione aziendale preposta dell’utilizzo estemporaneo dell’area di un fornitore.
In proposito, chiosa la sentenza: “tra l’altro, come diffusamente detto, la Sirti aveva predisposto un valido modello organizzativo, di gestione e di controllo ex d.lgs. 231/2001 il quale non si è attivato per un difetto di comunicazione dei dipendenti Sirti con il […] il quale, probabilmente ignaro di tutto, non procedeva a contattare e a coinvolgere, come da procedura aziendale né la funzione Lo-Gi per l’attivazione di un potenziale contratto di utilizzo (locazione o comodato), così come previsto dalla procedura aziendale, né la funzione prevenzione e protezione rischi per l’eventuale adeguamento di tale area agli standard di sicurezza previsti”.
4. La sentenza in esame si colloca, pur con qualche differenza, sulla quale torneremo a breve, nel solco della più recente giurisprudenza della Suprema Corte in tema di responsabilità dell’ente in presenza di infortuni sul lavoro, in merito alla quale è forse oggi possibile ricavarne alcuni tratti comuni, dopo un iniziale tentennamento, che aveva fatto parlare di “disorientante discordanza”[4].
4.1. In primo luogo, val la pena di ribadire che la giurisprudenza ha ripudiato la tesi secondo la quale la presenza dei requisiti dell’interesse e del vantaggio risultino in definiva incompatibili con i reati colposi.
In merito, le stesse Sezioni Unite del 2014, nella sentenza relativa alla nota vicenda ThyssenKrupp[5], hanno osservato che i dubbi relativi alla “compatibilità logica tra la non volontà dell’evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse” e le sue asserite “estreme conseguenze” sono “infondati”, in quanto “essi condurrebbero alla radicale caducazione di un’innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, con il quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali”.
La soluzione, secondo la giurisprudenza, va infatti trovata in via interpretativa, ancorando i concetti di interesse e di vantaggio non già all’evento lesione o morte del lavoratore, ma alla condotta.
Sul punto, hanno osservato le Sezioni Unite nella medesima pronuncia, con un concetto più volte ribadito dalla giurisprudenza successiva, che:
“Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: e concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di tipo logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio”.
4.2. Coerentemente con questo approccio, la giurisprudenza successiva[6] ha dunque rimarcato il concetto che le nozioni di interesse e vantaggio non devono essere trattati come un’endiadi, e cioè come l’uso di due espressioni lessicali per indicare nella sostanza un concetto unitario, ma comportino la necessità, anche in presenza di reati colposi, di compiere sul piano oggettivo un duplice accertamento, e cioè valutare:
a) se l’autore materiale abbia consapevolmente violato norme cautelari nell’interesse della società, in una prospettiva ex ante (interesse dell’ente);
b) se, pur in mancanza di questa proiezione finalistica iniziale, la condotta colposa si sia concretamente riverberata in un vantaggio per l’impresa (infortunio escluso, ovviamente), secondo una valutazione ex post (vantaggio dell’ente).
La giurisprudenza della Suprema Corte valorizza pertanto, a ben vedere, non soltanto ipotesi nelle quali vi è una consapevole violazione delle norme antinfortunistiche finalizzate a perseguire l’interesse della società, ipotesi che viene ricondotta dalla stessa giurisprudenza allo schema della colpa “cosciente”[7], ma anche ad ipotesi di colpa c.d. “incosciente”, quando in ogni caso la condotta colposa produce un vantaggio per l’impresa.
In questo senso, la tesi sostenuta dal Giudice di Bari, secondo la quale “i delitti colposi delle persone giuridiche si connot[a]no da un dolo misto a colpa”, nel senso che “la violazione delle norme antinfortunistiche deve essere sempre cosciente e volontaria”, appare più restrittiva di quanto non ammetta la giurisprudenza della Suprema Corte, che ritiene viceversa perseguibile astrattamente anche l’impresa in presenza di colpa semplice, se di fatto sullo sfondo vi è un oggettivo interesse dell’impresa stessa.
Dall’esame della giurisprudenza degli ultimi anni già citata, emerge del resto, proprio in questa prospettiva, che la Suprema Corte ha in particolare valorizzato il risparmio di costi in materia di misure prevenzionistiche (nel cui genus entrano anche, a ben vedere, le soluzioni funzionali ad accelerare i processi produttivi a scapito della sicurezza, così come le c.d. “politiche d’impresa” connotate dalla scarsa attenzione verso l’incolumità dei lavoratori) come un elemento essenziale per ravvisare un qualche interesse o vantaggio dell’ente, e dunque per ancorare una condotta colposa di un dipendente, sul piano oggettivo, alla possibile responsabilità dell’impresa, e ciò ancor prima di valutare la sussistenza di un’eventuale colpa di organizzazione, in termini di adeguatezza del Modello organizzativo.
Si tratta di una interpretazione che, con qualche forzatura, ampiamente evidenziata in dottrina[8], ha quantomeno il pregio di provare ad attribuire un qualche significato ad una disciplina che, anche per i reati colposi, richiede pur sempre che il reato sia “ascrivibile” all’impresa, già sul piano oggettivo, in quanto tale ascrivibilità rappresenta il fondamento e il limite della responsabilità da reato dell’ente.
In filigrana sembra peraltro scorgersi, in questa giurisprudenza, la volontà di cogliere le istanze di natura politico-criminale sottese allo stesso D.lgs 231/2001: e cioè incentivare le imprese ad investire nella prevenzione, che non può che valere anche e soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro, con la prospettiva che proprio le risorse economiche dedicate dall’impresa alla sicurezza possano essere il discrimine per valutare se una condotta colposa sia oggettivamente un reato “dell’impresa” stessa, piuttosto che un reato commesso “nell’impresa”, e dunque rimproverabile al singolo dirigente/dipendente.
D’altra parte l’alternativa, pure auspicata in dottrina[9], è che l’impresa possa essere chiamata a rispondere per ogni condotta commessa con violazione delle regole cautelari dai dipendenti nell’esecuzione delle mansioni – secondo uno schema che ricalca il concetto di “occasionalità necessaria” della responsabilità dei “padroni e dei committenti” di cui all’art. 2049 c.c. –, salvo poi poter dimostrare la mancanza, sul mero piano soggettivo, di una colpa di organizzazione dell’impresa stessa.
Ma un simile criterio di ascrizione della responsabilità all’ente potrebbe risultare eccessivamente rigoroso, ad esempio, proprio in una vicenda quale quella affrontata dal Tribunale di Bari, in cui ad ogni buon conto è risultato evidente che non soltanto non vi è stata, sul piano soggettivo, una colpa di organizzazione della società, ma che la violazione delle regolare cautelari dei dipendenti non ha mai avuto sullo sfondo, e dunque già sul piano oggettivo, alcun vantaggio per la SIRTI, né perseguito ex ante, né conseguito ex post.
[1] V. in questo senso, Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 (ThyssenKrupp) e così anche Cass. pen., Sez. IV, 10 novembre 2017, n. 55005 (Franco Tosi).
[2] In questo senso, v. di recente, per tutti, Sgubbi-Astrologo, Commento all’art. 5, in Levis-Perini (a cura di), Il 231 nella dottrina e nella giurisprudenza a vent’anni dalla sua promulgazione, Zanichelli, 2021, pag. 222.
[3] Così De Simone, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) di imputazione, in Dir. pen. cont., pag. 44.
[4] Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia si sicurezza sul lavoro, in Dir. pen. cont., 19 aprile 2013, pag. 26.
[5] Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343.
[6] Si vedano, di recente, anche per un ampio riferimento alla giurisprudenza precedente, Cass. pen., Sez. IV, 7 novembre 2019, n. 3731; Cass. pen., Sez. IV, 23 maggio 2018, n. 38363; Cass. pen., Sez. IV, 13 settembre 2017, n. 16713.
[7] In dottrina c’è chi ha peraltro osservato che la scelta consapevole di risparmiare costi a scapito della sicurezza sembrerebbe più vicina al dolo eventuale che alla colpa cosciente, e che dunque l’unico criterio che potrebbe ancorare una responsabilità colposa a quella dell’ente sarebbe quello del “vantaggio”. Così Trinchera, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti ex D.lgs. n. 231/2001: un’altra sentenza di assoluzione. Disorientamento interpretativo o rigoroso garantismo?, in Dir. pen. cont., 31 maggio 2013.
[8] Sul punto v., per tutti, Cappellini, La responsabilità dell’ente per omicidio e lesioni colpose in materia di sicurezza sul lavoro, pag. 3464, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Diritto penale dell’economia, Vol. II, Utet, 2019, e l’ampia letteratura ivi citata.
[9] De Simone, La responsabilità da reato degli enti, cit., pag. 47, proponeva che si richiedesse “che il reato colposo sia commesso nello svolgimento dell’attività della persona giuridica e magari specificare anche che ciò deve avvenire con inosservanza delle disposizioni pertinenti a tale attività”. Favorevole a questa soluzione sembrerebbero anche Sgubbi-Astrologo, Commento all’art. 5, cit., pag. 226. Questi ultimi in particolare ricordano che la stessa Commissione ministeriale per la riforma del codice penale del 1998, presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso, proprio al fine di disciplinare la responsabilità dell’ente per i reati colposi aveva previsto che l’ente rispondesse anche “per i reati realizzati nello svolgimento dell’attività della persona giuridica, con inosservanza delle disposizioni pertinenti a tale attività, da persone che ricoprono una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 22, co. 2”.