Trib. Padova, ud. 20 giugno 2019, dep. 9 settembre 2019, Giud. Ventura
1. La sentenza in commento, pronunciata dal Tribunale di Padova, definisce con un provvedimento di condanna una vicenda tragica che impone allo studioso di diritto penale di confrontarsi con molteplici interrogativi, taluni dei quali riguardanti la funzione stessa della pena in situazioni tanto dolorose.
Più nel dettaglio, la decisione che si annota condanna a due anni di reclusione (pena sospesa) i due imputati, genitori della vittima, responsabili del delitto di omicidio colposo della figlia minorenne (art. 589 c.p.) per aver impedito che le fosse somministrata la chemioterapia, unica cura medica adeguata al trattamento della malattia che le era stata diagnosticata, ossia la leucemia linfoblastica acuta.
Trattasi, come è evidente, di un caso di responsabilità penale omissiva, in cui i genitori della vittima vengono chiamati a rispondere sul piano penale per l’inadempimento degli obblighi di protezione della figlia correlati alla propria posizione di garanzia, la cui fonte è da identificarsi negli artt. 30 Cost., 147 e 330 c.c.[1].
In tale prospettiva, dunque, il giudice enuclea, nella motivazione della sentenza, due questioni ritenute meritevoli di autonomo approfondimento concettuale: la prima attiene alla sussistenza del nesso di causalità tra l’inottemperanza di tali doveri e il decesso della ragazza, mentre la seconda riguarda i profili di colpa che possono essere rinvenuti nelle condotte dei due imputati. In verità, però, il reale punctum dolens della vicenda è rappresentato dalla liceità o meno del rifiuto, da parte dei genitori di una paziente minorenne, di una terapia che con elevata probabilità potrebbe condurre alla guarigione della figlia, altrimenti destinata a morte certa. A nostro avviso, infatti, è questa la chiave di volta dell’architettura argomentativa che sorregge la decisione, per quanto tale problematica non sia stata trattata distintamente nella motivazione.
2. Prioritariamente occorre, però, rammentare brevemente i fatti. La pronuncia, come accennato, riguarda la morte di una ragazza, minorenne fino a due settimane prima del decesso, determinata dal decorso infausto di una grave patologia, ossia la leucemia linfoblastica acuta, diagnosticata circa sette mesi prima dell’esito esiziale. Agli imputati, genitori della vittima, viene contestato dall’accusa di aver impedito la somministrazione della chemioterapia, unico trattamento adeguato alla cura di tale malattia, cagionando così, mediante l’inadempimento colposo dei propri obblighi di garanzia verso la figlia, la sua morte.
Nel provvedimento in epigrafe, il giudice ricostruisce con dovizia le condotte degli imputati dal momento della diagnosi della patologia sino al decesso della ragazza. Si richiamano, innanzitutto, le ritrosie dei genitori all’esecuzione di accertamenti diagnostici sulla figlia pur a fronte di un suo evidente stato di grave malessere, ottenuti infine solo in virtù dell’intervento dei suoi insegnanti e del medico di base della famiglia.
Sono poi rievocate le resistenze dei genitori all’immediata ospedalizzazione della ragazza, con peculiare attenzione rivolta alle argomentazioni utilizzate “per prendere tempo ed eludere le cure”, definite dal giudice “pretestuose” (p. 4).
Si ripercorrono, in seguito, i numerosi ricoveri subiti dalla giovane vittima, in più occasioni costretta a cambiare luogo di degenza in ragione dell’opposizione propria e dei genitori alla chemioterapia. Tale trattamento viene infatti identificato, univocamente da tutti gli specialisti a vario titolo coinvolti nella vicenda, quale unica cura disponibile per la patologia della minore, tale da garantirle una probabilità di guarigione assai elevata, pari “almeno all’80%” (p. 10), a fronte della certezza di morte laddove essa non fosse stata somministrata. Ma innanzi a tali categoriche indicazioni terapeutiche, i genitori della minore, secondo la sentenza annotata, assunsero un “atteggiamento minimizzante, oppositivo e temporeggiatore”, manifestando “tutta la loro sfiducia verso qualunque intervento medico” (p. 7): emerge, infatti, la convinzione del padre secondo la quale la leucemia era “un processo di rigenerazione cellulare, quasi una fase obbligatoria dopo un trauma psicologico”, all’esito della quale la figlia “sarebbe non solo guarita ma quasi fortificata”, a condizione “che non le fosse somministrata la chemioterapia” (p. 8). L’attitudine acriticamente adesiva della ragazza a tali opinioni, evidentemente prive di qualsiasi fondamento scientifico, viene spiegata richiamando l’impossibilità dei medici a confrontarsi con lei a causa degli ostacoli a ciò frapposti dai genitori, i quali impedivano ai terapeuti di illustrarle “la gravità della situazione, passaggio fondamentale per costruire il consenso dei giovani pazienti ad accettare terapie dolorose” (p. 11). Come viene chiarito nel prosieguo della motivazione, peraltro, le convinzioni degli imputati si fondano sulla condivisione delle idee di Ryke Geerd Hamer, medico tedesco radiato “dall’ordine dei medici fin dal lontano 1986” per le sue teorie scientificamente implausibili (p. 35).
Il “rifiuto ideologico della chemioterapia” da parte dei genitori (p. 15) e la consapevolezza solo apparente della situazione da parte della minore, la quale riteneva di stare “già guarendo” da sola (p. 15), rappresentano due costanti di quei mesi tragici, sulle quali il giudice si sofferma ripetutamente. Viene peraltro rilevato come tutti i ricoveri subiti dalla ragazza vengono in varia guisa imposti ai genitori contro la loro volontà, risultando perciò strumentali al “fine di evitare interventi coercitivi e non di curare” la sua grave patologia (p. 19). Peraltro, tale “tecnica dilatoria” (p. 20) risulta inefficace in quanto, innanzi alla comunicazione dell’ennesimo rifiuto dei genitori alla somministrazione di chemioterapia, il Tribunale per i minorenni di Venezia sospende con decreto la loro responsabilità genitoriale e nomina un tutore.
Ciò nonostante, a seguito di un’ulteriore dimissione dovuta alla “impossibilità di passare alla fase di cura necessaria, cioè quella della chemioterapia” (p. 20), la famiglia continua a condurre la propria vita in una “apparenza di normalità” (p. 25), nell’assurda convinzione che la ragazza sarebbe guarita da sola. Trascorsi alcuni mesi, però, i genitori scelgono di ricoverare la figlia presso una clinica che, riferendosi alla c.d. “medicina olistica”, impiega metodi “classificati come non scientifici dalla medicina tradizionale e pertanto non ritenuti efficaci o non accettati” (p. 27). Tuttavia, “perfino in tale clinica”, gli imputati rifiutano analisi di laboratorio e terapie basilari (p. 27).
Si giunge in tal maniera all’ultimo ricovero, quando la ragazza viene ospedalizzata “in condizioni critiche” (p. 27). Il giudice ricostruisce puntualmente tale ultima fase della dolorosa vicenda: la giovane paziente “maschera” la propria sofferenza, mentre i genitori si oppongono persino alla terapia antibiotica e antipiretica. Il padre, in particolare, insiste affinché alla figlia siano somministrati “per via endovenosa altissimi dosaggi di vitamina C, perché a suo dire solo quello avrebbe sconfitto il tumore e i medici non adottavano invece tale terapia per le pressioni della lobby delle case farmaceutiche” (p. 28). Divenuta maggiorenne da poco più di una settimana, la ragazza firma le sue dimissioni e, dopo pochi giorni, muore.
3. Così brevemente ricostruita la vicenda in fatto – e rinviate per il momento le considerazioni in punto causalità e colpa (profili di minore complessità, nel caso di specie) – si può passare, sul terreno dell’antigiuridicità, all’esame della questione della liceità o meno del rifiuto, da parte dei genitori di una paziente minorenne, della chemioterapia quando questa sia identificata come l’unica cura scientificamente possibile per la patologia a lei diagnosticata.
Al fine di risolvere tale delicata questione, il giudice muove dall’affermazione secondo la quale i genitori, in quanto garanti dell’integrità psico-fisica della figlia ai sensi dell’art. 147 c.c., hanno “il preciso dovere di attivarsi” per garantirle “il diritto primario, quello di vivere” (p. 30). Con enfasi si afferma infatti che “l’ordinamento non pone il diritto di vita e di morte dei figli nelle mani dei genitori. Al contrario, i genitori sono custodi della vita dei figli, che hanno l’obbligo di proteggere” (p. 31). Al fine di argomentare tale conclusione viene richiamata la sentenza Oneda della Corte di Cassazione del 1983[2], ove si legge che “il libero esercizio dei diritti costituzionali dei genitori trova il suo limite nella concorrenza di altri diritti e interessi pure costituzionalmente tutelati e garantiti e che, in ogni caso, la inviolabilità dei diritti costituzionali e la libertà della loro estrinsecazione attiene al soggetto che ne è portatore e non può spingersi fino al sacrificio di altri, pure ragguardevoli se non preminenti, diritti” (p. 31). A tal proposito, si deve peraltro osservare come questa argomentazione valga a fortiori nella vicenda in esame, poiché, a differenza della controversia risolta dalla Suprema Corte quasi trent’anni fa, nel presente caso non si riscontra un conflitto tra libertà religiosa dei genitori e diritto alla vita della figlia. Al contrario, le convinzioni dei due imputati si fondano su una generica libertà di coscienza orientata verso posizioni di contrarietà alla scienza e alla medicina tradizionale fondate su un’attitudine diffidente e vagamente “complottista” (p. 28 e 38). In tale ottica, è evidente che a prevalere debba essere il diritto alla salute (e alla vita) della minore[3], come del resto sostiene anche la Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 262 del 2004 quando afferma che non si può ammettere “una totale libertà dei genitori di effettuare anche scelte che potrebbero essere gravemente pregiudizievoli al figlio”[4].
Nell’argomentazione del giudice padovano, peraltro, l’illiceità del rifiuto della chemioterapia da parte dei genitori della vittima è corroborata da due importanti constatazioni di fatto. La prima riguardante l’assenza di alternative terapeutiche “scientificamente accettabili” (p. 35): nel caso in esame non vi è, dunque, “una reale possibilità di scelta” (p. 32). La seconda consistente nella “elevata possibilità di successo” (p. 32) della cura univocamente proposta da tutti gli specialisti interpellati, come anticipato pari almeno all’80%. Ad esse consegue che, nel caso in esame, il best interest of the child, identificato nel diritto alla vita, non può che essere tutelato mediante la somministrazione della chemioterapia[5]: “la salute di un figlio”, afferma il giudice, “non può essere lasciata al mero arbitrio del genitore che, senza alcun vincolo, possa adottare qualunque scelta a suo piacimento – come se il figlio fosse una sua mera estensione, secondo una prospettiva che, dietro a un’apparente modernità, […] finisce in realtà per negare al figlio la sua natura di soggetto autonomo, portatore di propri diritti” (p. 36).
3.1. Le argomentazioni addotte dal Tribunale di Padova a fondamento dell’esito di condanna paiono, sin qui, condivisibili. Tuttavia, la conclusione in ordine all’illiceità del rifiuto, da parte dei genitori della giovane vittima, della chemioterapia necessita a nostro avviso di un’ulteriore riflessione in ordine al delicato profilo della titolarità e dell’esercizio del diritto di (auto)determinazione terapeutica con riguardo a minori capaci di discernimento. La motivazione del giudice a tal proposito si snoda attraverso due considerazioni: la prima consiste nell’affermazione secondo la quale spetta ai genitori la facoltà (e il dovere) di prestare il consenso al trattamento sanitario, mentre la seconda riguarda la constatazione dell’immaturità (colpevolmente indotta dagli imputati) della ragazza, non adeguata alle gravose scelte da assumere.
Dopo aver richiamato le Convenzioni internazionali rilevanti in materia, infatti, il giudice riconosce il diritto della minore ad esprimere, con riferimento al suo percorso terapeutico, un’opinione da tenere “in maggior conto quanto maggiore risulti” la sua maturità: tuttavia, ciò non equivale ad un “diritto di decidere” (p. 39), di cui titolari sono invece i genitori. Tale soluzione è coerente con la disciplina introdotta dall’art. 3 co. 2 della l. 219/2017, ove si sancisce che “il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”.
Considerata comunque la rilevanza della volontà della giovane paziente, l’argomentazione si focalizza poi sulla dimostrazione dell’inadeguatezza della sua capacità di discernimento rispetto “alle decisioni che erano da prendere relative alla sua situazione medica” (p. 39). Per giungere a tale esito, si richiama innanzitutto la celebre sentenza Englaro[6] ove, con riferimento al paziente maggiorenne, si richiede di verificare che il suo rifiuto alle cure indispensabili per la sopravvivenza sia “informato, autentico e attuale”. Ebbene, secondo il giudice, nella vicenda in esame la minore “non era una ragazza matura che aveva effettuato una scelta consapevole. […]. [La minore] non aveva scelto di morire pur di non sottoporsi alla chemioterapia. [Lei] era una diciassettenne che proprio perché tale non percepiva come realmente possibile la propria morte, forte di quel senso di immortalità che è proprio dell’età, ma forte anche di quello che le veniva detto dai genitori, sia esplicitamente che con i loro comportamenti” (p. 40). Nel prosieguo della motivazione ci si focalizza proprio sull’assenza di consapevolezza da parte della ragazza determinata dalla sua cieca fiducia nei genitori (p. 42) e dagli ostacoli posti da questi ultimi a qualsiasi reale colloquio con i medici, tali da porla in una “bolla” in cui essa è privata della “reale possibilità psicologica di arrivare a un consenso non viziato ma realmente informato” (p. 43). Si evidenzia, infatti, come la giovane paziente non volesse morire, bensì vivere, tanto da pervenire alla “conclusione totalmente assurda” (p. 47) di rifiutare la chemioterapia in quanto sarebbe stata la sua somministrazione, e non la malattia, a mettere a rischio la sua vita. Innanzi a questa convinzione, del tutto infondata sul piano logico e scientifico, i genitori, in quanto garanti della sua integrità psico-fisica, avrebbero dovuto impegnarsi a “convincerla a non lasciarsi morire” (con elevate probabilità di riuscirvi, data la “cieca” fiducia riposta dalla figlia in loro): “nessun tentativo in questo senso viene invece fatto” da loro (p. 48)[7]. Anche sotto tale profilo l’argomentazione del Tribunale di Padova è coerente con quanto previsto dall’art. 3 co. 1 della l. 219/2017, ove si dispone che alla minore siano trasmesse “informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità”, così da porla “nelle condizioni di esprimere la sua volontà”: il che, secondo il giudice, non è avvenuto nella vicenda in esame[8].
In definitiva, gli imputati vengono ritenuti penalmente responsabili in quanto “hanno fatto tutto quanto era in loro potere per sottrarre [la figlia] alle cure che la potevano guarire, sia direttamente, negando il consenso che giuridicamente spettava a loro esprimere, sia indirettamente, lasciando[la] in una falsa convinzione di guarigione che, per quanto dicevano, sarebbe arrivata solo a evitare la chemio che invece l’avrebbe uccisa” (p. 30).
4. Come si è potuto constatare, dunque, la sentenza di condanna si fonda sulla qualificazione come illecito del rifiuto, da parte dei genitori della vittima, della chemioterapia. È questo il fatto tipico degli imputati, la condotta omissiva ritenuta penalmente rilevante.
Dalla motivazione della sentenza del Tribunale di Padova, pertanto, si evince, in positivo, che, in presenza di una grave patologia di un minore la quale, se non trattata, condurrebbe con certezza alla sua morte, è obbligo giuridico dei genitori acconsentire alla somministrazione della chemioterapia laddove essa sia l’unica cura medica disponibile e sia tale da garantirgli una elevata probabilità di sopravvivenza. Inoltre, sebbene tale scelta terapeutica debba essere “imposta” al figlio anche contro la sua volontà (p. 48), è comunque obbligo giuridico dei genitori tentare di convincerlo della necessità del trattamento medico, data l’esigenza di coinvolgerlo, soprattutto se prossimo alla maggiore età, nella determinazione del percorso di cura.
Evidentemente, dunque, il giudice adotta un’impostazione connotata da un “paternalismo debole”[9], in cui la libertà di coscienza dei genitori soccombe innanzi al diritto alla vita della figlia e in cui la stessa facoltà di autodeterminazione terapeutica di quest’ultima è significativamente compressa entro i limiti in cui essa sia espressione di una adeguata capacità di scelta. In quest’ottica, pare che nel caso in esame sia l’assenza di qualsivoglia ragionevole (ossia scientificamente e logicamente plausibile) giustificazione al rifiuto della chemioterapia a determinare la condanna.
5. Le altre due questioni menzionate all’inizio del nostro commento sono risolte in modo esplicito dal giudice e possono, pertanto, essere sinteticamente ripercorse. Il nesso di causalità tra la condotta omissiva degli imputati e il decesso della ragazza viene, infatti, ritenuto sussistente sulla base di due considerazioni: la prima deriva dalla circostanza che, secondo “la totalità degli specialisti interpellati”, la somministrazione della chemioterapia avrebbe determinato la guarigione della giovane paziente con una “probabilità qualificata assai elevata, dell’80-85%” (p. 29); la seconda, invece, consiste nell’osservare che, quand’anche la figlia fosse diventata maggiorenne, i genitori, adempiendo a entrambi gli obblighi giuridici sopra identificati (ossia quello di acconsentire alle cure e quello di persuaderla ad accettarle), l’avrebbero “ragionevolmente” convinta dell’opportunità di proseguire con i protocolli terapeutici proposti (p. 48) e, anche laddove non vi fossero riusciti, avrebbero comunque ottenuto (in virtù del trattamento già somministrato per molti mesi) “un significativo aumento di chance di sopravvivenza” a fronte, altrimenti, della certezza di morte.
Quest’ultimo profilo risulta, ictu oculi, maggiormente problematico poiché risente della natura ipotetica dell’accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi: tuttavia, pur a fronte della ineliminabile opinabilità del giudizio eziologico in tale ambito, l’argomentazione del Tribunale di Padova pare condivisibile, soprattutto se considerata nella prospettiva del criterio della c.d. “probabilità logica”[10].
6. Per quanto attiene, invece, alla colpa degli imputati, essa viene fatta derivare dal giudice dalla considerazione della assoluta infondatezza delle loro convinzioni: “il genitore”, si afferma, “certamente viene meno ai suoi doveri di cura e tiene una condotta gravemente negligente, imprudente e imperita, quanto a una di queste ‘teorie’ prive del minimo valore scientifico affida la vita del figlio” (p. 36). Emergono, in questi passaggi argomentativi, “i punti di contatto e le reciproche interferenze” tra “obbligo di garanzia e dovere di diligenza”, ossia tra tipicità e colpa, che caratterizzano i reati omissivi impropri[11].
Inoltre, sebbene venga esclusa la presenza del dolo, essendo evidente che gli imputati “non volessero la morte della figlia” (p. 36), tuttavia si ritiene configurabile a loro carico l’aggravante della colpa cosciente (art. 61 n. 3 c.p.): il decesso della ragazza, infatti, è comunque previsto dai genitori in quanto essi “erano stati ripetutamente, continuamente, avvertiti dalla totalità dei medici con cui avevano parlato che senza chemioterapia [la figlia] sarebbe morta” (p. 50). La loro diversa intima convinzione, dunque, esclude soltanto la volontarietà dell’omicidio, ma non la sua natura colposa né l’aggravante appena menzionata.
Al fine di affermare la natura colposa delle condotte degli imputati, si valorizza, pertanto, il profilo volitivo (e non quello rappresentativo) della loro attitudine soggettiva: non si riscontra, infatti, nella vicenda in esame quella “intensa adesione interiore al fatto” (in questo caso, all’evento morte) “che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà” tale da determinare, secondo le indicazioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la configurazione del dolo (eventuale)[12].
* * *
7. Molteplici sono dunque i profili di interesse della sentenza in commento. Tra questi merita a nostro avviso una considerazione anche quello relativo al trattamento sanzionatorio riservato agli imputati. L’aggravante della colpa cosciente viene infatti ritenuta, ai sensi dell’art. 69 c.p., equivalente alle circostanze attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.) e la pena viene pertanto determinata (come “se non concorresse alcuna di dette circostanze”) in due anni di reclusione. Trattasi, come è evidente, di una “misura intermedia” tra il minimo e il massimo edittali previsti dall’art. 589 c.p., così quantificata anche in ragione del fatto che “la malattia della figlia e la sua perdita hanno già causato [ai genitori] una grande sofferenza”. In tal modo, agli imputati può essere riconosciuto il beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.).
Alla sentenza di condanna, pertanto, non segue l’esecuzione della sanzione detentiva. Si tratta, come è agevole intuire, di un esito intenzionalmente perseguito dal Tribunale di Padova, probabilmente nella consapevolezza che, innanzi al dolore già patito dagli imputati, l’esecuzione pena carceraria sarebbe risultata sproporzionata e inutilmente afflittiva, essendo al contrario “il mero svolgimento del processo, la pronuncia della condanna sospesa, congiunta all’incombente minaccia di dar corso all’esecuzione in caso di recidiva, […] una risposta sanzionatoria di per sé sufficiente, sia sul piano retributivo, sia su quello della prevenzione speciale”[13].
In quest’ottica, tuttavia, non sfugge il valore simbolico della condanna, ove affiora con nitidezza la funzione di convalida normativa del diritto penale, istituzione sociale volta (anche) al perseguimento di finalità educativo-moralizzanti tra le quali, nella prospettiva paternalista adottata dal giudice di Padova, rientra evidentemente la stigmatizzazione di pericolose teorie ascientifiche (rectius, antiscientifiche) quali la c.d. nuova medicina germanica di Hamer.
[1] Sulle fonti della posizione di garanzia dei genitori si rinvia, ex multis, a Cass., sez. III, 01 dicembre 2005, n. 3124, in Riv. pen., 2006, p. 684 ss.; Cass., sez. IV, 10 dicembre 2008, n. 2674, in CED Cass. pen., 2009; Cass., sez. III, 23 settembre 2015, n. 40663, in Cassazione Penale, 2017, p. 226 ss. con nota di F. Lombardi; Cass., sez. III, 28 febbraio 2017, n. 19603, in CED Cass. pen., 2017; Cass., sez. V, 08 novembre 2019, n. 6209, in Dir. & Giust., 18 febbraio 2020. In verità, ad eccezione della prima tra le sentenze richiamate, nella giurisprudenza di legittimità tradizionalmente si richiama solo l’art. 147 c.c.: a tale indirizzo aderisce anche la pronuncia in commento.
[2] Cass., sez. I, 13 dicembre 1983, n. 667.
[3] Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali e per alcune riflessioni critiche si rinvia a U. Nannucci, La rianimazione dei neonati prematuri, in Medicina e diritto penale, S. Canestrari, F. Giunta, R. Guerrini, T. Padovani (a cura di), 2009, p. da 384 a 387.
[4] Corte Cost., 8 luglio 2004, ord. n. 262. Conforme a tale orientamento è anche Corte Cost., 16 marzo 1992, n. 132, ove viene sancito che “la potestà dei genitori nei confronti del bambino è, infatti, riconosciuta dall'art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione non come loro libertà personale, ma come diritto-dovere che trova nell'interesse del figlio la sua funzione ed il suo limite. E la Costituzione ha rovesciato le concezioni che assoggettavano i figli ad un potere assoluto ed incontrollato, affermando il diritto del minore ad un pieno sviluppo della sua personalità e collegando funzionalmente a tale interesse i doveri che ineriscono, prima ancora dei diritti, all'esercizio della potestà genitoriale. É appunto questo il fondamento costituzionale degli artt. 330 e 333 cod. civ., che consentono al giudice - allorquando i genitori, venendo meno ai loro obblighi, pregiudicano beni fondamentali del minore, quali la salute e l'istruzione - di intervenire affinché a tali obblighi si provveda in sostituzione di chi non adempie”.
[5] Una diversa soluzione si sarebbe potuta argomentare laddove le probabilità di guarigione mediante chemioterapia fossero state minori, come evidenziano i casi della giurisprudenza anglosassone riportati in F. Venturi, Il principio dei best interests of the child nel caso Gard tra paternalismo, autonomia e indeterminatezza, in Federalismi.it, 29 dicembre 2017, o laddove fossero esistite cure alternative, come riconosce lo stesso Tribunale di Padova nel provvedimento in commento.
[6] Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Foro It., 2007, n. 11, p. 3025 ss., con nota di G. Casaburi.
[7] Si noti che il profilo della maturità e della consapevolezza della minore è trattato con peculiare accortezza nella pronuncia in esame in quanto era proprio sulla base della sua presunta capacità di autodeterminarsi adeguatamente sul piano terapeutico che il Gup di Padova aveva fondato la sua sentenza di non luogo a procedere, ritenendo gli imputati, in quanto meri esecutori della sua volontà, immuni da “colpa penale”. La sentenza è inedita ma alcuni passaggi di essa sono riportati da P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita in attesa della Corte Costituzionale nel caso Cappato, in Dir. pen. cont., 22 maggio 2018, nota 17.
[8] Insiste sulla necessità di valorizzare la volontà del minore capace di discernimento R. Provenzano, Il consenso informato ai trattamenti sanitari sui minori e decisioni di fine vita. Riflessioni comparatistiche, in Dir. fam. pers., 2019, p. 1307 ss., la quale riporta anche alcuni casi, apparentemente simili a quello in esame (ma un eventuale raffronto richiederebbe uno studio più approfondito di tali vicende), in cui taluni giudici tutelari hanno ritenuto ammissibile la scelta dei genitori, adottata con il consenso dei figli, di rifiutare la chemioterapia. Il riferimento è, in particolare, a Corte App. min. Ancona, 26 marzo 1999, in Dir. fam. pers, 1999, p. 659 ss., e a Trib. min. Venezia 7 ottobre 1998, in Dir. fam. pers, 1999, p. 689 ss.
[9] Il “paternalismo debole” è definito da U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, 2018, p. 214.
[10] Elaborato, come noto, nella sentenza Franzese, Cass., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, in Foro it., 2002, p. 601 ss. con nota di O. Di Giovine.
[11] Su cui, per alcune brevi riflessioni, si rinvia a V. Militello, La colpevolezza nell'omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo, in Cass. pen., 1998, p. 979 ss.
[12] Il riferimento è a Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343 in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1925 ss. con nota di G. Fiandaca e M. Ronco.
[13] Secondo la lezione di T. Padovani, L’utopia punitiva, 1981, p. 183.