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15 Gennaio 2021


Peculato dell’albergatore e nuovo illecito amministrativo in una recente sentenza di merito: alla base del riconoscimento dell’abolitio criminis una malintesa applicazione del criterio strutturale

Trib. Salerno, sent. 19 ottobre 2020 (dep. 21 dicembre 2020), Pres. Casale, est. Rossi



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1. Segnaliamo in allegato una sentenza di proscioglimento per intervenuta abolitio criminis nella quale il Tribunale di Salerno si è pronunciato, negandola, sulla persistente punibilità ai sensi del delitto di peculato delle condotte di omesso versamento dell’imposta di soggiorno realizzate dagli albergatori prima del 19 maggio 2020, data di entrata in vigore del decreto ristori.

La conclusione è motivata essenzialmente tramite il richiamo alla previsione da parte del d.l. 34/2020 di un nuovo illecito amministrativo che, sanzionando lo specifico fatto concreto sinora sussunto dalla giurisprudenza nell’art. 314 c.p., secondo il Tribunale si porrebbe in rapporto di specialità rispetto alla norma incriminatrice e determinerebbe la perdita di rilevanza penale della corrispondente sotto-classe di condotte ai sensi dell’art. 2 c. 2 c.p., configurando una abolitio criminis parziale.

La decisione va ad arricchire un quadro giurisprudenziale nel quale è possibile osservare – da un lato – l’indirizzo in via di consolidamento presso la Corte di cassazione, che nelle due pronunce sul tema (n. 30227/2020 e 36317/2020) ha fin qui escluso la possibilità di ricondurre la sopravvenienza normativa in esame al fenomeno dell’abolitio criminis, e – dall’altro lato – un orientamento diffuso tra i giudici di merito, propensi a sostenere l’operatività dell’art. 2 c. 2, con le relative conseguenze favorevoli per il reo, anche in caso di condanna definitiva. Pur iscrivendosi in quest’ultimo filone, la sentenza in esame si segnala per la peculiare impostazione argomentativa, che può accostarsi a quella che sembrava emergere dalle motivazioni di una sentenza di assoluzione del Tribunale di Perugia.

 

2. Qui il fatto concreto è, ancora una volta, l’omesso versamento nelle casse del Comune, da parte del legale rappresentante di una società gestrice di una struttura alberghiera, delle somme (circa 2.500€) che costui aveva ricevuto dagli ospiti a titolo di imposta di soggiorno.

I termini della questione giuridica sono noti, e già ampiamente ricostruiti in questa Rivista. In passato la giurisprudenza di legittimità riconduceva il fatto al delitto di peculato, sul presupposto per cui l’obbligazione tributaria intercorreva soltanto tra ospite ed ente locale e l’omesso versamento integrava una condotta appropriativa realizzata da un soggetto terzo che, riscuotendo l’imposta e trovandosi a maneggiare denaro pubblico (c.d. agente contabile), assumeva di fatto la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Il c.d. decreto rilancio, adottato nell’ambito dei provvedimenti di contrasto alle ripercussioni economiche dell’emergenza covid, ha invece qualificato espressamente il gestore della struttura ricettiva come “responsabile del pagamento” dell’imposta di soggiorno, in solido con il soggetto passivo (il cliente), verso il quale gode del diritto di rivalsa.

Per effetto della novella (c. 1-ter dell’art. 4 d.l. 23/2011, come modificato dall’art. 180 d.l. 34/2020) è pacifico che l’albergatore abbia perso la qualifica soggettiva pubblicistica, diventando lui stesso debitore di un’obbligazione tributaria. Di tale modifica è però dibattuta la rilevanza rispetto alle condotte pregresse. Le posizioni che si confrontano sono: quella di chi, come la giurisprudenza di merito, afferma che la sopravvenienza favorevole possa operare retroattivamente, in quanto riconducibile al fenomeno della successione, sia pure mediata, di leggi penali, data la rilevanza da attribuire ai fini dell’applicazione dell’art. 2 alla (non) punibilità del c.d. fatto concreto; e quella di chi, come la Cassazione e la dottrina prevalente, facendo leva sul c.d. criterio strutturale, esclude che la disciplina extra-penale del rapporto tributario integri la fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice, sicché le sue modifiche resterebbero al di fuori dell’ambito operativo dell’art. 2.

 

3. Ricostruite le tesi in campo, il Tribunale di Salerno (p. 13 ss.) sottolinea la necessità di valorizzare, quale aspetto più rilevante tra le novità normative, la circostanza che il decreto rilancio abbia introdotto un illecito amministrativo “ritagliato” su condotte di omesso versamento del tipo di cui ci si occupa. Si tratta della previsione di cui all’ultimo periodo del c. 1-ter dell’art. 4 d.l. 23/2011, ai sensi della quale «per l’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica la sanzione amministrativa di cui all’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471».

In quest’ottica, l’abolitio criminis dovrebbe essere riconosciuta non per effetto della successione di leggi che ha interessato la qualifica del soggetto attivo, facendo venire meno retroattivamente la natura di incaricato di pubblico servizio, ma «perché il legislatore avrebbe disciplinato per la prima volta in modo specifico la condotta del gestore della struttura ricettiva […] che omette, ritarda o versa solo parzialmente l’imposta di soggiorno all’ente comunale», vale a dire proprio quella «condotta materiale che in passato […] la giurisprudenza riconduceva nell’alveo della fattispecie criminosa di cui all’art. 314 c.p.».

Secondo il Tribunale, si verrebbe quindi a creare la situazione descritta dall’art. 2 c. 2, quella cioè in cui per una “legge posteriore” (l’art. 180 del decreto rilancio) “il fatto non costituisce reato” (ma, appunto, un illecito amministrativo).

In particolare, si sarebbe in presenza di una abolitio parziale, una riduzione dell’area del penalmente rilevante che si verifica qualora «una o più possibili sotto-fattispecie ricavabili dalla fattispecie base venga esclusa o eliminata a seguito di una novazione legislativa» che «ponga nel nulla l’originario disvalore astratto già espresso dalla legge precedente».

Questa conclusione sarebbe confermata adottando il criterio strutturale, che consentirebbe di ravvisare l’identità del “fatto” prima sussunto nella norma penale e ora descritto dalla norma amministrativa. Applicando il principio di specialità (ex artt. 15 c.p. e 9 l. 689/1981) ai rapporti tra le due disposizioni, a giudizio del Tribunale emerge infatti come il legislatore «abbia introdotto una fattispecie “speciale” rispetto al “generale” delitto di peculato»: nell’ambito dell’illecito amministrativo costituirebbero elementi di specialità per specificazione il soggetto attivo (l’albergatore), la condotta sanzionata (il versamento omesso, ritardato e adesso anche parziale) e la provenienza del denaro oggetto di appropriazione (la somma riscossa dagli ospiti della struttura a titolo di imposta di soggiorno).

Se quindi per il passato bisogna escludere il reato in base all’art. 2 c. 2 – né può operare la sanzione amministrativa, stante il divieto di retroattività ex art. 1 l. 689/1981 e la mancanza di una apposita disciplina transitoria – il rapporto di specialità tra il nuovo illecito e la norma incriminatrice consentirebbe anche di escludere l’applicazione del delitto di peculato anche per i fatti futuri.

Sul punto – aggiunge il Tribunale – emergerebbe invece un profilo di contraddizione nella tesi avversa, che pur dichiarandosi contraria all’abolitio criminis conviene sulla possibilità di applicare il solo illecito amministrativo alle condotte commesse dopo il decreto rilancio: ciò quando, al contrario, negare l’operatività dell’art. 2 c. 2 in base al criterio strutturale dovrebbe anche condurre a negare l’operatività pro futuro dell’art. 9 l. 689/1981, che dà rilievo a un affine criterio di specialità in astratto.

Per rafforzare la conclusione nel senso dell’abolitio, su questa linea argomentativa principale il Tribunale innesta poi un tentativo di distinzione rispetto alle ipotesi oggetto delle sentenze delle Sezioni unite Tuzet e Magera, in cui la sopravvenienza sarebbe costituita «da un mutamento della situazione di fatto […] e non, come nel caso che occupa, da una specifica innovazione normativa» (p. 23). Infine prospetta (p. 25 ss.), per l’ipotesi in cui fosse negata la depenalizzazione del fatto, la necessità di sollevare diverse questioni di legittimità costituzionale per contrasto con una pluralità di parametri, ora rappresentati dal canone di uguaglianza-ragionevolezza e dalla finalità rieducativa della pena (che si assumono violati dalla tesi che «considera penalmente rilevante una condotta che oggigiorno il legislatore ha inteso punire con una mera sanzione amministrativa»), ora dal principio di legalità-tassatività (con cui contrasterebbe, invece, l’interpretazione giurisprudenziale che per il passato ritiene «punibile l’albergatore ai sensi dell’art. 314 c.p. pur nella totale assenza di una esplicita disciplina normativa», così ponendosi «al limite dell’analogia»).

L’esito del giudizio è pertanto, come detto, l’assoluzione dell’imputato perché «il fatto non è previsto dalla legge come reato».

 

* * *

 

4. La sentenza rivela la complessità delle questioni di diritto intertemporale legate a ipotesi di successione di leggi in cui si assiste non solo alla modifica di una norma di natura apparentemente integratrice, ma anche alla contestuale introduzione di un illecito amministrativo che pure dà luogo a fenomeni di “interferenza” con la stessa norma incriminatrice.

Nello spazio ridotto di un primo commento, possiamo osservare che gli argomenti addotti dal Tribunale a sostegno della tesi dell’abolitio criminis, per quanto suggestivi, sembrano tuttavia esporsi a rilievi critici, nel metodo e nel merito, in ragione di alcuni possibili fraintendimenti nell’applicazione del criterio strutturale.

Anzitutto, in più passi le motivazioni generano l’impressione di una sovrapposizione almeno parziale tra il principio di specialità in astratto e il criterio del c.d. fatto concreto. Da un lato, infatti, viene spesso ribadita, quale elemento dirimente, la circostanza che le due norme in esame – il peculato e il nuovo illecito amministrativo – sanzionino la stessa “condotta materiale”; d’altra parte, poi, per tracciare la nozione di “fatto” rilevante ai sensi dell’art. 2 viene invocata la nozione di idem factum delineata dalla giurisprudenza ai fini del rispetto del divieto di bis in idem, la quale tuttavia – come emerge dagli estratti delle sentenze citate dallo stesso Tribunale – impone sì di considerare gli elementi costitutivi condotta-nesso causale-evento, ma nella loro “corrispondenza storico-naturalistica”.

Ora, la possibilità di ricondurre la condotta, nella sua materialità, anche alla fattispecie sanzionata in via amministrativa, la cui introduzione pure dimostrerebbe la «totale eliminazione del disvalore astratto di quel medesimo fatto» sul piano penalistico, non implica di per sé abolitio criminis – salvo appunto ritenere che questa si accerti in base al criterio del fatto concreto.

Occorre piuttosto, come poi riconosce lo stesso Tribunale, un raffronto tra le fattispecie astratte alla stregua del principio di specialità. È qui, tuttavia, che si registra una non condivisibile applicazione del criterio strutturale. Ad avviso di chi scrive, infatti, nel valutare se tra l’illecito amministrativo e il delitto di peculato intercorre un rapporto di specialità il Tribunale non considera adeguatamente il dato normativo finora al centro della riflessione, ossia la modifica della disciplina extra-penale e il mutamento del ruolo dell’albergatore nell’ambito del rapporto tributario.

La norma oggi vigente configura un illecito tributario che non sanziona il fatto dell’albergatore in quanto tale, ma la condotta di omesso versamento posta in essere dal soggetto tenuto insieme al cliente al pagamento in favore dell’ente comunale dell’imposta di soggiorno; accade poi che questa condotta possa essere realizzata dall’albergatore perché costui assume ormai la relativa qualifica, di c.d. responsabile d’imposta, per effetto delle modifiche apportate dal decreto rilancio.

Al contrario, il delitto di peculato – come già ben evidenziato dalla tesi contraria all’abolitio criminispuniva e tuttora punisce, in astratto, il fatto del soggetto che si appropria di denaro pubblico rivestendo anch’egli una qualifica pubblicistica; accadeva poi in passato che tale delitto potesse essere commesso dall’albergatore perché, in base al previgente regime tributario, costui svolgeva compiti di riscossione ausiliari all’attività impositiva dell’ente locale.

Se ne ricava che, anche a trascurare le differenze in termini di condotta – l’inadempimento di un’obbligazione nell’illecito amministrativo e un contegno appropriativo di denaro altrui nel delitto di peculato – le due norme sanzionatorie contemplano soggetti attivi del tutto eterogenei, sicché tra esse non può intercorrere un rapporto di specialità in senso proprio (unilaterale e in astratto).

È una conclusione cui in giurisprudenza era giunta già la Cassazione, che nella sent. 36317/2020 (pubblicata solo pochi giorni prima del deposito della motivazione in esame e non richiamata dal Tribunale), riprendendo letteralmente un’osservazione della dottrina, aveva negato l’“identità del fatto” previsto da peculato e illecito amministrativo, giudicate «fattispecie tra loro eterogenee: l’una destinata ad operare in rapporto al vecchio regime dell’imposta di soggiorno – e alla qualifica pubblicistica dell’albergatore (e del denaro incassato), l’altra in relazione al nuovo regime dell’imposta stessa – e alla qualifica privatistica dell’albergatore (e del denaro incassato)» (cfr. p. 13 della motivazione).

La circostanza che entrambe le norme convergano sul medesimo fatto materiale (quello dell’albergatore che omette di versare al comune l’imposta di soggiorno) dipende quindi soltanto dalla circostanza che, contestualmente all’introduzione dell’illecito amministrativo, sia mutata anche la disciplina tributaria di riferimento: ma, come chiarito dalla dottrina e dalla Cassazione, non è questa una circostanza sufficiente per ritenere configurabile una abolitio criminis, a meno di non ripudiare il criterio strutturale e non tornare ancora una volta alla tesi del fatto concreto.

Alla luce di questa impostazione, allora, si vede anche perché – contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale – non c’è contraddizione nel negare l’operatività dell’art. 2 c. 2, in ragione della eterogeneità delle fattispecie, e al tempo stesso ritenere che per il futuro trovi applicazione solo l’illecito amministrativo e non anche il peculato: il motivo non sta in una (inesistente) specialità tra le due norme, bensì nel dato per cui, a causa delle modifiche del decreto rilancio, oggi non può essere più integrato un presupposto di fatto indispensabile per ricondurre la condotta dell’albergatore all’art. 314 c.p., ossia la sua qualifica di incaricato di pubblico servizio.

Non sembrano neppure cogliere nel segno gli ulteriori argomenti spesi dal Tribunale: non il richiamo a contrario alle Sezioni unite Tuzet e Magera, posto che il mutamento della qualifica degli operatori bancari e l’ingresso della Romania nell’UE non sono meri mutamenti di fatto, ma presuppongono anch’essi evidentemente una “innovazione normativa”; non le questioni di costituzionalità prospettate, che – introducendo un ulteriore elemento di ambiguità – finiscono per rivelarsi una surrettizia censura della tesi che adotta il criterio strutturale (impiegato dallo stesso Tribunale) in funzione di accertamento dell’abolitio criminis.

Infine, può segnalarsi come sullo sfondo le motivazioni siano punteggiate da una ripetuta critica nei confronti della pregressa riconducibilità dei fatti di omesso versamento dell’imposta al delitto di peculato, giudicata testualmente «solo il frutto di una interpretazione giurisprudenziale». Posto che a nostro avviso l’orientamento della Cassazione anteriore al decreto rilancio non sembra in alcun modo discostarsi dalla ordinaria attività ermeneutica resa necessaria da una tecnica normativa non strettamente casistica, si potrebbe semmai prospettare la possibilità, per i giudici di merito, di rimeditare tale indirizzo escludendo la sussistenza del reato anche per i fatti passati, con un mutamento giurisprudenziale in bonam partem. È appena il caso di precisare, però, che gli effetti sarebbero solo apparentemente equiparabili a quelli di una abolitio criminis, per motivi pratici prima che per evidenti ragioni dogmatiche: nessun beneficio ne ricaverebbero i soggetti condannati in base a sentenza definitiva (cfr. C. cost. 230/2012), e anche una pronuncia di assoluzione all’esito del dibattimento sarebbe verosimilmente censurata dalla Cassazione su pronto ricorso del pubblico ministero.