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25 Marzo 2022


Lavoro dei detenuti e ammissione al trattamento di disoccupazione: si consolida l’interpretazione che ammette la compatibilità

Trib. Verona, Sez. Lavoro, sent. 7 febbraio 2022, giud. Cucchetto



1. Il riscontro positivo del Tribunale di Verona in un contesto ampiamente incerto. – Con la sentenza in commento il Tribunale di Verona, Sezione Lavoro, conferma che la perdita di impiego alle dipendenze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per sopravvenuta fine del periodo di detenzione integra lo stato di disoccupazione involontaria richiesto dalla legge per l’accesso al trattamento di disoccupazione, oggi disciplinato dal D. Lgs. 2015, n. 22, c.d. «NASpI». Al lavoratore che sia stato impiegato durante la detenzione, sia scarcerato e, in libertà, si trovi privo di impiego, pertanto, secondo il Tribunale di Verona, spetta il trattamento di NASpI, a condizione che ricorrano anche gli altri requisiti di legge (avere prestato trenta giornate lavorative nei dodici mesi antecedenti la data di richiesta del trattamento previdenziale nonché avere versato la contribuzione previdenziale per almeno dodici settimane nei quattro anni antecedenti). 

Non si tratta tuttavia di una posizione netta e sicura né della prassi amministrativa – anzi, le circolari INPS sono di segno esplicitamente contrario (cfr. messaggio INPS 909/19) – né tantomeno della giurisprudenza. Il quadro è a dir poco incerto. Nel più recente passato, si sono infatti espressi nello stesso senso del Tribunale di Verona, e con argomenti sostanzialmente identici, anche le Sezioni Lavoro del Tribunale di Venezia (sentenza del 15.12.2020) e della Corte d’Appello di Torino (sentenza del 26 ottobre 2021, reiterativa di analoga pronuncia del 29.7.2020. Risulta agevole reperire tuttavia pronunce che, esattamente sullo stesso punto della spettanza del trattamento di NASpI al soggetto privo di impiego per conseguenza della scarcerazione, offrono una ricostruzione opposta, negando l’assimilabilità di questo caso a quello di chi, libero, perda il lavoro e si trovi inoccupato: cfr. in tal senso Tribunale Frosinone, Sezione Lavoro, sentenza 1.7.2021 (che richiama il precedente orientamento della Corte d’Appello di Torino di cui alla sentenza 897/2019, pubblicata il 17.1.2020) oppure Tribunale Massa Carrara, Sezione Lavoro, sentenza 12.5.2021.  

L’ambivalenza si replica nel dissenso che emerge a proposito della fattispecie contigua a quella in esame, quella relativa alla spettanza del trattamento a colui il quale, sempre potendo vantare sia il requisito delle giornate lavorative che quello dell’anzianità contributiva minima per effetto di precedenti rapporti di lavoro (anche che abbiano avuto luogo all’interno dell’istituto di pena), si trovi senza lavoro pur continuando ad essere ristretto all’interno dell’istituto di pena. Anche qui constano sentenze, peraltro tutte estremamente recenti, e addirittura successive alla pur recentissima sentenza in commento, di segno contrastante: a favore, si è espressa la Corte d’Appello di Torino con sentenza del 24.1.2020 mentre hanno negato la spettanza del trattamento la Corte d’Appello di Genova con sentenza del 24.2.2022, nonché il Tribunale di Brescia del 18.1.2022 e il Tribunale di Palermo del 6.9.2021.

Tutta la giurisprudenza richiamata è disponibile su https://pst.giustizia.it.

Occorre quindi identificare le questioni dibattute, che sono in larga parte comuni nelle due situazioni descritte, e cercare di tentare una loro ricostruzione e valutazione.

Per chiarezza, si premette che la questione è divenuta solo recentemente di attualità per conseguenza del fatto che, solo con la riforma di cui al D. Lgs. 22/2015, si è assistito ad una significativa riduzione dei requisiti in tema di accesso al trattamento di disoccupazione, in termini di giornate lavorate e di contributi versati. Tale riduzione, intesa al fine di allargare la platea dei beneficiari, ha avuto l’effetto di consentire che anche i lavoratori detenuti, notoriamente beneficiari di minori retribuzioni e soggetti ad una significativa discontinuità di impiego, possano maturare i requisiti richiesti (per una compiuta disamina dell’iter storico dei requisiti per la disoccupazione al cospetto delle specificità del lavoro carcerario, cfr. Caputi, La tutela contro la disoccupazione dei detenuti lavoratori alla luce della riforma degli ammortizzatori sociali, in Lav. Dir., 2014, fasc. 2 nonché Id., Welfare State e lavoro dei condannati, in Mattarolo e Sitzia (a cura di), Il lavoro dei detenuti, Padova, 2017).

 

2. La decisività dell’interpretazione costituzionalmente orientata favorevole al riconoscimento del diritto al trattamento di disoccupazione. – La sentenza del Tribunale di Verona in commento, al pari delle altre sentenze favorevoli al riconoscimento del trattamento di disoccupazione ai lavoratori ex-detenuti, evidenzia che a tale conclusione debba pervenirsi: «in difetto di un’espressa previsione di segno contrario, anche sulla base di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione: se si negasse al lavoratore il trattamento di disoccupazione  … si impedirebbe proprio al lavoro penitenziario di espletare, con efficacia duratura nel tempo, quella finalità rieducativa e di reinserimento sociale che ne costituiscono invece l’essenza … il detenuto si vedrebbe privato della prestazione assicurativa contro la disoccupazione involontaria proprio nel momento più delicato del progetto di reinserimento sociale, caratterizzato dalla difficolta di trovare una nuova occupazione lavorativa tanto più elevata in chi vanta una pregressa esperienza detentiva».

Si tratta, ovviamente, di un profilo essenziale. A dire il vero, come ci si accinge ad illustrare, già la mera interpretazione dei dati di legge ordinaria appare difficilmente compatibile con la negazione del diritto in esame. Tuttavia, quand’anche un’ambiguità interpretativa sul punto dovesse effettivamente esistere, il parametro della coerenza costituzionale dell’interpretazione sarebbe decisivo. E, sul punto, non si può non osservare che l’intera legislazione, non solo in tema di reclusione, ma tanto più in tema di lavoro in costanza di detenzione, è notoriamente preordinata allo scopo del reinserimento sociale ex art. 27 Cost. e quindi il riconoscimento, molto più che il disconoscimento, del trattamento di disoccupazione a favore dell’ex-detenuto che tenti di rientrare nel mondo del lavoro libero, appare coerente con questo obiettivo di reinserimento sociale.  

Verosimilmente, anche nella prospettiva di un consolidamento futuro della giurisprudenza, questo sarà il punto decisivo.

 

3. L’impossibilità di negare l’effettiva natura subordinata del rapporto e quindi l’applicazione del relativo statuto protettivo, incluso il trattamento di disoccupazione. – Più in generale, la questione centrale sottesa al problema attiene alla qualificazione del rapporto di lavoro del detenuto con l’amministrazione penitenziaria. La sentenza del Tribunale di Verona qui in commento ammette il diritto al trattamento di disoccupazione come conseguenza della ritenuta omogeneità di disciplina tra lavoro libero e lavoro penitenziario. All’opposto, la sentenza del Tribunale di Frosinone 1.7.2021 nega tale diritto alla luce di una supposta impossibile «equiparazione tra lavoro carcerario e quello libero».  In sostanza, se il lavoro del detenuto non dà luogo alla costituzione di un rapporto di lavoro, inevitabilmente, neppure i diritti ad esso conseguenti possono dirsi sussistenti.

Oltre che nella prospettiva della coerenza costituzionale, allora, l’esito della questione controversa non può, a maggior ragione, che essere a favore della tesi che riconosce il trattamento di disoccupazione. La  dottrina ha infatti ormai da tempo chiarito che rapporto punitivo e rapporto di lavoro sono autonomi e si affiancano, e che l’esecuzione della prestazione di lavoro del detenuto è attuativa di un normale contratto di lavoro subordinato, mentre in nessun caso essa costituisce attuazione del trattamento punitivo.

Sul punto l’originario scritto di Romagnoli, Il diritto del lavoro dietro le sbarre, in Pol. Dir., 1974, 205 ss., secondo cui il rapporto di lavoro che si affianca e «coesiste autonomamente con quello punitivo» p. 221) ha trovato ampia condivisione negli anni successivi: nel rapporto di detenzione si «innesta la nascita e l’attuazione di un rapporto di lavoro al servizio dell’amministrazione … (esso) pur differenziandosi per la natura del datore di lavoro e gli obiettivi perseguiti, assume la fisionomia e soggiace alla disciplina del lavoro subordinato, per quanto attiene al regime fondamentale della tutela del lavoratore, pure adeguato alle particolarità del rapporto» (Scognamiglio R., Il lavoro carcerario, in Arg. Dir. Lav., 2007, 37); «le regole di sicurezza e di disciplina che vigono nel luogo di svolgimento della prestazione comportano una sensibile riduzione della tutela del detenuto lavoratore, nel senso che la normativa comune risulta applicabile solo nei limiti della sua compatibilità con dette regole. Anche qui, tuttavia, resta possibile distinguere giuridicamente tra rapporto di lavoro e rapporto punitivo» (Barbera, Lavoro penitenziario, in Digesto comm., VIII, Torino, 1992, 213). L’acquisizione ha poi ricevuto il finale avallo da parte della Corte Costituzionale:

«alla soggezione derivante dallo stato di detenzione si affianca, distinguendosene, uno specifico rapporto di lavoro subordinato, con il suo contenuto di diritti e di obblighi» (Corte Cost. 22.5.2001, n. 158) ovvero si legga Corte Cost. 30.11.1988, n. 1087, secondo cui, seppure è vero che il lavoro intramurario del detenuto presenta talune «peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell'ambiente carcerario», ed è pertanto «possibile che la regolamentazione Italia rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro generale», tuttavia «né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende all'esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato»; cfr., per un commento ulteriore della giurisprudenza costituzionale: Pellacani: Il lavoro carcerario, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, in P. Rescigno, E. Gabrielli (diretto da), Trattato dei contratti, Torino, 2009, II, 1485 e ss., spec. 1499).

Pertanto, l’esistenza di indiscutibili profili di specialità quanto alla disciplina del lavoro in carcere non incide né sulla qualificazione del rapporto né sull’apparato di diritti che da esso ne derivano, finché non si versi in profili di disciplina del rapporto che siano strettamente connessi con ragioni di sicurezza o con l’esecuzione della prestazione nel contesto carcerario, il che certamente non è per quanto concerne l’erogazione del trattamento di disoccupazione.

In conclusione, paiono quindi significativamente irti i percorsi interpretativi che giustifichino qualsivoglia differenza di disciplina sulla base di un’anacronistica visione della prestazione di lavoro dei detenuti come esecutiva non già di un contratto di lavoro ma, più o meno velatamente, di una modalità peculiare di esecuzione della pena. 

 

4. La difficoltà di interpretazioni riduttive del dato di legge, che ammette la tutela contro la disoccupazione. – Con l’art. 20 della legge 26.7.1975, n. 354 il legislatore ha previsto l’estensione al lavoro penitenziario di tutta la disciplina previdenziale e assicurativa: ai detenuti lavoratori «sono garantiti … la tutela  assicurativa e previdenziale», senza alcuna limitazioni e quindi inclusa anche l’assicurazione contro la disoccupazione. Anche il passaggio motivazionale sul punto della sentenza in commento del Tribunale di Verona merita quindi piena condivisione.

La dottrina non ha mancato infatti di rilevare che la previsione dell’art. 20 citato abbia contenuto generale e implichi quindi l’obbligo in capo all’Amministrazione Penitenziaria, in qualità di datrice di lavoro, di versare tutti i contributi previdenziali, inclusi quelli per la disoccupazione involontaria; la previsione dell’obbligo contributivo comporta tuttavia il corrispettivo diritto dei lavoratori detenuti, conseguente al versamento dei contributi, alla fruizione della relativa tutela. Si leggano in tal senso, in origine, Ciccotti e Pittau: Estensione ai detenuti delle assicurazioni contro la disoccupazione, in Sicurezza sociale: dottrina, giurisprudenza, informazioni, 1980, p. 335 e ss., con riscontri adesivi alla ricostruzione di questi, dapprima, di Lambertucci, Il collocamento e i profili previdenziali, in Foro It., 1986, I, 1435 ss. e, successivamente, nello stesso senso, Barbera, Lavoro carcerario, cit., in Digesto comm., VIII, Torino, 1992, 213 e, infine, di Scognamiglio R., 2007, cit.. In tal senso anche il Tribunale di Verona nella sentenza in commento.

L’idea per cui, nonostante il chiaro disposto legale, l’esistenza di un obbligo alla contribuzione potrebbe coesistere con l’assenza delle conseguenti prestazioni viene giustificata sostenendo che: «detta contribuzione sarà utile – nel caso di cessazione involontaria da un rapporto di lavoro con datori diversi dall’Istituto penitenziario – ai fini della prestazione di Naspi, qualora rientrante nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione» (App. Genova 24.2.2022). Sul punto si può osservare che la corrispettività tra la contribuzione e la prestazione previdenziale è un principio generale della materia ed è difficile poter ammettere che l’una possa esistere in assenza dell’altra: è infatti ampiamente eventuale e dubbio se e quando un detenuto lavoratore possa essere assunto da un soggetto diverso dall’amministrazione penitenziaria e poi, da questo, licenziato, solo in tal caso potendo così fruire dei contributi versati.

 

5. L’effettiva sussistenza dell’involontarietà dello stato di disoccupazione sia che esso intervenga dopo la fine della pena sia che intervenga durante la detenzione. – Infine, il trattamento indennitario già di disoccupazione e oggi di NASpI presuppone l’involontarietà dello stato di disoccupazione (cfr. art. 3, D. Lgs. 22/2015). Del tutto condivisibile è l’osservazione contenuta nella sentenza in commento per cui la sopravvenuta indisponibilità dell’impiego per fine della pena integra a tutti gli effetti la predetta situazione di disoccupazione involontaria, mentre il caso è del tutto non assimilabile alla situazione di chi, volontariamente, si dimetta e scelga di rimanere senza occupazione: l’assenza di lavoro, infatti, per l’ex-detenuto, non dipende infatti da una sua libera scelta ma consegue all’impossibilità materiale di proseguire l’impiego nel penitenziario, una volta sopravvenuta la scarcerazione.

Secondo altri, invece, la sopravvenuta assenza di lavoro non conseguirebbe in realtà alla sopravvenuta impossibilità a proseguire il rapporto per intervenuta fine della pena, quanto piuttosto dall’originario fatto di reato, a cui si associano la detenzione e la data di fine di questa: cfr. in tal senso Trib. Massa Carrara 12.5.2021 («la conclusione del rapporto non è collegato ad un provvedimento unilaterale di recesso … ma alla fine delle condanne penali … cioè ad un fatto tecnico-processuale della fase esecutiva dei processi penali e delle relative conseguenti condanne») e Trib. Frosinone 1.7.2021 («la perdita del posto di lavoro è conseguente all’uscita del carcere per avere scontato la pena, evento evidentemente riferibile alla persona del lavoratore »). Questa ricostruzione non appare condivisibile per l’essenziale ragione che articola il proprio ragionamento considerando unicamente la dimensione punitiva. Così facendo, si oblitera del tutto quello che è invece il punto fondamentale della materia ossia che, come si è già esposto nel precedente paragrafo 3, rapporto punitivo e rapporto di lavoro si affiancano. Anzi, a ben vedere, la finalità rieducativa si realizza proprio attraverso la costituzione di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.  Con la fine della detenzione pertanto non viene meno solo il rapporto punitivo ma anche quello di lavoro, sussistendo quindi sopravvenuta “disoccupazione” nel periodo successivo, come correttamente scritto dal Tribunale di Verona.

Identici i termini della questione con riferimento alla disoccupazione che intervenga in costanza di detenzione, non oggetto della sentenza in commento, riferita invece al caso della disoccupazione per fine della pena. Si ricorda infatti che l ’art. 20 dell’ordinamento penitenziario, infatti, prevede che i detenuti si “avvicendino” nelle posizioni di lavoro disponibili.

Anche qui sussiste sopravvenuta disoccupazione sia perché il rapporto precedentemente in essere è un rapporto di lavoro sia perché la sopravvenuta sua assenza in capo al singolo non consegue ad una deliberata scelta del singolo di astenersi dal prestare attività, ma è dovuta invece all’indisponibilità dell’occasione di lavoro. Tra i due orientamenti emersi sul punto quindi pare condivisibile la posizione espressa dalla Corte d’Appello di Torino (sentenza 24.1.2020) secondo cui l’avvicendamento di un lavoratore con un altro implica la cessazione del rapporto di lavoro del primo e quindi il suo sopravvenuto stato di disoccupazione, idoneo a dare luogo all’erogazione dell trattamento di NASpI, anche in costanza di detenzione. Maggiori perplessità destano invece le pronunce per cui la turnazione dei detenuti sulle posizioni di lavoro libere di cui al predetto art. 20, per quanto dia luogo a periodi di inattività e non retribuzione di ciascun singolo detenuto, ossia a ciò che è disoccupazione nella società libera, nel penitenziario costituirebbe una «una mera modalità di gestione del rapporto di lavoro imposta dalla legge» (Tribunale di Brescia 18.1.2022; in senso analogo App. Genova 2021 cit. e Trib. Palermo 6.9.2021): anche qui, la perplessità sta nel fatto che il ragionamento tradisce una visione estremizzante in cui la finalità punitiva finisce per assorbire, fino a negare, l’effettiva esistenza di un contratto di lavoro.

 

6. Prospettive future. – L’orientamento nel cui solco si colloca la sentenza del Tribunale di Verona in commento è verosimilmente destinato a consolidarsi come maggioritario nell’immediato futuro. Esso è infatti fondato sul pieno riconoscimento della coesistenza tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro subordinato, acquisizione da tempo propria della dottrina lavoristica, ed essenziale allo scopo di assicurare pienezza di tutela e dignità al lavoro carcerario, e quindi, in prospettiva, alla realizzazione della direttiva costituzionale della rieducazione e del reinserimento.