Cass. Pen., sez V, 27 aprile 2022 – dep. 18 maggio 2022 – n. 19543, Rv. 283217
1. La vicenda esaminata dalla Suprema Corte con l’arresto in esame[1], per quanto di interesse, è di agevole ricostruzione e soprattutto appare pianamente sintetizzabile.
Un indagato lamenta la violazione dell’art. 115 bis del codice di rito, avvenuta – in tesi – a suo danno, stigmatizzando il tenore di atti di polizia giudiziaria e di articoli di stampa, di cui richiede la correzione ex art. 115 bis c. 3 c.p.p.
La Suprema Corte rigetta il ricorso, evidenziando come gli unici atti emendabili ai sensi della disposizione in esame siano quelli strictu senso giudiziari (in tema di violazione della garanzia della presunzione di innocenza, la richiesta di correzione può riguardare solo gli atti dell’autorità giudiziaria e non anche quelli della polizia giudiziaria o articoli di stampa).
Nihil novi sub sole, verrebbe da dire. O quantomeno, nulla di particolare da segnalare.
Ma non è esattamente così. In realtà, gli elementi di curiosità interpretativa non mancano.
2. La spia di una tutela mal posta? Non può tacersi, in primo luogo, come l’incipit di un ragionamento che muova dalla predetta pronuncia rischi di apparire quasi volgare. Come è possibile che sia stata invocata una tutela così chiaramente distante dal tenore letterale della norma?
Ma, ad una più attenta analisi, il quesito ermeneuticamente corretto è un altro. Il legislatore è riuscito – nel redigere l’articolo 115 bis c.p.p. – ad enucleare il “bene della vita” meritevole di tutela, o ha perso un’occasione per interpretare il “comune sentire”?
Il recepimento della direttiva comunitaria 343/2016 è avvenuto, ad opera del legislatore nazionale, per encomiabile – ma mero – senso del dovere. Il percorso che ha portato all’adozione del provvedimento muove dal ragionevole timore dell’avvio di una procedura d’infrazione nei confronti del nostro paese[2].
Lo si desume dalla formulazione dell’art. 115 bis cpp, che riproduce – senza slanci di sorta – la traduzione del tenore della direttiva predetta.
Quali le conseguenze?
In primo luogo, l’assenza di riferimenti agli atti di polizia giudiziaria. Essi – si badi – sono atti tutt’altro che indifferenti nell’incedere del procedimento. Anzi, in alcune fasi (iniziali), ne costituiscono la vera e propria ala marciante. Ma la direttiva comunitaria è ontologicamente rivolta verso gli atti giudiziari, e pare ergersi – laddove introduce regole comportamentali rivolte ai magistrati – quale sorta di ipostatizzazione formale (per quanto parziale) di alcuni dei principi di etica giudiziaria sanciti a Bangalore.
Come noto, i Principi di Bangalore sulla condotta giudiziaria (2002), adottati – in seno alle Nazioni Unite – dal Gruppo dei Giudici per il Rafforzamento dell’Integrità Giudiziaria e rivisti alla Tavola Rotonda dei Chief Justices tenutasi all’Aia, Palazzo della Pace, il 25 e 26 novembre 2002, al punto 2.4 prevedono, infatti, testualmente: il giudice non deve fare intenzionalmente alcun commento che possa ragionevolmente essere inteso come diretto ad influenzare l’esito di una causa che gli è stata o gli potrebbe essere assegnata, o compromettere la manifesta correttezza del processo, né fare alcun commento in pubblico o in altro luogo che possa pregiudicare il giusto processo. Al successivo punto 5.2, si specifica: nell’adempimento dei doveri giudiziari, il giudice non deve manifestare (attraverso la parola o la condotta) un interesse o un pregiudizio verso una qualsiasi persona o gruppo per ragioni ingiustificate.
Detta in altri termini: la presunzione di innocenza, da regola trattamentale e di giudizio[3], diviene anche regola comportamentale per il magistrato. Ma per il magistrato soltanto. Ciò determina l’introduzione di una tutela (nuova ma) carente.
La tutela nasce già affetta da profili di insufficienza. Poiché nasce come tutela orientata verso un “tipo d’autore” più che verso l’individuazione di tutte le possibili forme di aggressione al bene da salvaguardare. È nato un “reato proprio” – sia consentita la similitudine grossolana – più che un nuovo presidio a beneficio dell’art. 27 della Costituzione. Che si tratti di una manifestazione malcelata di sfiducia verso l’attività dei magistrati, è ipotesi – per ora non sostenuta da riscontri – che solo il tempo potrà confermare o smentire. Certamente, scadendo nell’ovvio, ci si trova dinanzi all’ennesima evidenza di quanto sia complesso ricondurre, a fonti normative europee, la comprensione e la disciplina di realtà ordinamentali nazionali così diverse.
3. Un recepimento senza passione. Il tenore dell’art. 115 bis c.p.p.[4] è manifestazione plastica della adesione acritica del legislatore nazionale a quello comunitario.
Il doveroso recepimento ha assunto, infatti, la portata letterale di mera riproduzione del testo della direttiva. Gli effetti non appaiono particolarmente commendevoli.
Il senso del dovere è ben nobile espressione dell’animo. Ma gli adempimenti che vi si radicano, se non sostenuti dalla percezione delle ragioni sostanziali sottese al comportamento necessitato, spesso tradiscono lacune valutative. L’UE ha sensibilizzato il nostro ordinamento su alcuni temi di importanza primaria, già percepiti come tali al punto da costituire principi di rango costituzionale. L’Italia ha diligentemente recepito. Ma l’atto normativo è pervaso da indolenza.
Il Considerando nr. 16 della Direttiva recita testualmente: La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l'indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l'idea che una persona sia colpevole. Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato, come l'imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa. Dovrebbero altresì restare impregiudicate le decisioni preliminari di natura procedurale, adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità, quali le decisioni riguardanti la custodia cautelare, purché non presentino l'indagato o imputato come colpevole. Prima di prendere una decisione preliminare di natura procedurale, l'autorità competente potrebbe prima dover verificare che vi siano sufficienti prove a carico dell'indagato o imputato tali da giustificare la decisione e la decisione potrebbe contenere un riferimento a tali elementi.
Ad un tempo, l’articolo 4 della Direttiva, ai commi 1 e 2, dispone: Riferimenti in pubblico alla colpevolezza «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità. 2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell'obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l'articolo 10».
E così, l’art. 115 bis c.p.p. si conforma, senza slanci, prevedendo:
La regola di cui al comma 1, a ben vedere, si discosta dal testo della Direttiva solo nella misura in cui subordina la possibilità di parlare (scrivere) di colpevolezza alla circostanza che quest’ultima sia accertata con pronuncia irrevocabile, e non con una pronuncia purchessia. Questa accortezza eleva – nelle intenzioni del legislatore – la tutela allestita conformandola al disposto di cui all’art. 27 della Costituzione, laddove la presunzione di non colpevolezza viene ancorata strettamente alla durata dell’intero procedimento, sino al giudicato. Diversamente si atteggia la presunzione di innocenza contemplata dall’ordinamento europeo, che – alla luce del dato letterale – sembra trovare il proprio game over a fronte di un accertamento giurisdizionale di colpevolezza anche non munito dei crismi della definitività. Infatti, l’art. 6 comma 2 CEDU recita: Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. E l’art. 48 comma 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea stabilisce che: Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata.
Resta, allo stato, un quesito senza risposta – tuttavia – quello che attiene al cuore della tutela che si è inteso allestire. Ossia: qual è la condotta lesiva che si intende sanzionare? Il disposto normativo è, a tutto voler concedere, elastico. Tra un atteggiarsi della condotta certamente illegittimo (la testuale qualificazione dell’indagato/imputato come “colpevole”) e un confine esterno certamente delimitante il lecito (l’indicazione dell’indagato quale indagato, e dell’imputato quale imputato, senza ulteriori aggettivazioni o attribuzioni di status) vi è infatti una – ampia – zona intermedia. Essa si compone di quelle manifestazioni di apparente sdegno e di quelle reprimenda (ai limiti del moralistico) che possono connotare provvedimenti giurisdizionali non propriamente esemplari. Si tratta, detta in altra maniera, di comprendere se il nuovo articolo 115 bis cpp intenda sanzionare solamente una “etichettatura” nominalistica tanto formalmente sbagliata quanto perniciosamente incisiva nei confronti del “foro interno” del soggetto in attesa di giudizio; ovvero se possa divenire, sotto il profilo interpretativo, un veicolo di più ampia protezione dei diritti dell’indagato (o dell’imputato), introducendo una sorta di “dovere di continenza” in capo al giudice o al pubblico ministero. Quest’ultima soluzione, in prospettiva ed in astratto, non dispiace. Ma, ad un tempo, non può sfuggire come essa conduca verso ambiti di elevata complessità valutativa, imponendo – ove si affermasse – un discernimento del caso concreto teso a separare, con il ricorso al classico bilancino, ciò che è argomentazione (magari vivace e partecipe) da ciò che è indebita raffigurazione soggettiva dell’autore dei comportamenti. Se ciò si tramutasse in un “invito” alla sobrietà nella redazione degli atti giurisdizionali, non potrebbe esserci materia di discussione. Ma ulteriori considerazioni, per certi aspetti di segno opposto, si impongono. In un sistema dai delicati equilibri, non è proficuo – in primo luogo – dare la stura a percezioni lato sensu persecutorie in capo a chi è chiamato a decidere. Il magistrato con la penna tremante rende un pessimo servizio alla giustizia. E – l’addetto ai lavori non può negarlo – alcuni profili della determinazione del magistrato, anche se si tratti di determinazione interinale, sono inscindibilmente correlati alla valutazione, secondo canoni normativi, della personalità dell’indagato (o dell’imputato). Cosicché, in nessun caso, può consentirsi – anche solo potenzialmente – che il soggetto giudicato assuma l’anda recriminatoria (quando non, minatoria) di chi chiede conto, fuori dal ricorso ai mezzi di impugnazione, di legittime valutazioni del magistrato, magari agitando spettri disciplinari intrecciati in una indistinta nebulosa con un disposto del codice di rito interpretato “a maglie larghe”. In secondo luogo, il dato letterale della norma porta a ritenere che, in realtà, siano de jure condito sanzionabili solo le espressioni denotanti un’anticipazione in malam partem del giudizio, e null’altro. Sullo sfondo, vi è il sogno (perché tale, allo stato, può ritenersi) di un ordinamento che faccia pace con se stesso, e consenta l’ingresso a motivazioni sintetiche senza che esse, per ciò solo, patiscano un pregiudizio di lacunosità. Nel mezzo, vi sono invece le inevitabili complessità operative che, nel quotidiano, già possono prevedersi: esempio lampante ne sia l’attuazione del disposto di cui all’art. 464 quater c. 3 c.p.p., a norma del quale il giudice, nel disporre la sospensione del processo con messa alla prova, dovrà anche ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Ulteriori. Come possa il giudice adempiere a tale passaggio motivazionale senza violare l’art. 115 bis c. 1 cpp, resta un mistero[5].
Si è detto dell’eccezione alla regola, contemplata dal primo comma della disposizione in esame. Tale eccezione è obiettivamente sgrammaticata nella sua formulazione, nella parte in cui fa riferimento ad atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini … Verrebbe da dire, accedendo ad un’iperbole, che questo inciso sarebbe suscettibile – esso sì – di correzione ex art. 115 bis commi 3 e 4, perché associa all’indagato una prospettazione di colpevolezza che può fisiologicamente correlarsi soltanto all’imputato. Al di là di questo, il vero problema interpretativo si pone in relazione alla individuazione degli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza, e come tali insuscettibili di rimprovero.
Anche in questo caso, si propongono due sommesse osservazioni.
La prima muove da una constatazione: la norma, in questa parte più che in altre, patisce la sua natura meramente riproduttiva del tenore della Direttiva. E tuttavia, non ha “incorporato” l’esempio che proprio il Considerando nr. 16 della Direttiva formalizza, laddove specifica: Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato, come l'imputazione. Il legislatore europeo, in buona sostanza, pensava all’imputazione quale espressione paradigmatica degli atti del pm volti a dimostrare la colpevolezza di una persona. Il legislatore italiano ha conservato, nel codice di rito, il principio senza “fare proprio” l’esempio fornito dalla fonte sovranazionale. Sia concessa, solo per un istante, una riflessione ai limiti dell’ozioso: è lecito – senza voler assumere vesti candide ammantate di ipocrisia – dubitare in radice dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di atti del pubblico ministero “volti a dimostrare la colpevolezza” di chicchessia? Il ragionamento è destinato a disperdersi per l’eccessiva ampiezza degli scenari che apre, ma la sensibilità del magistrato della pubblica accusa non a torto percepisce, se adeguatamente e rettamente formata, una stonatura nel precetto astratto. Perché – se mal non si intende ciò che è proprio di un sistema tendenzialmente accusatorio come il nostro – il ruolo della pubblica accusa è quello di dare impulso all’accertamento e di introdurvi gli elementi, in grado di assurgere a prova, idonei a sostenere l’accusa in giudizio ma anche – se del caso – idonei a determinare l’assoluzione dell’imputato. Che il pubblico ministero possa essere, nel dibattimento, parte (sia pur imparziale), è corretto ritenerlo. Ma il suo ufficio è quello di parte pubblica, parte nell’interesse dello Stato e dell’ordinamento tutto. A “questa” parte, mal si attaglia l’attribuzione di atti ontologicamente funzionali a dimostrare la colpevolezza. Non è teso a tale dimostrazione, checché se ne possa pensare, l’esercizio dell’azione penale, poiché esso non promuove l’esito di un accertamento ma un accertamento che – nel contraddittorio tra le parti – renderà, esso solo, un esito (sottoforma di sentenza). Ancor più distante dalla prospettazione normativa è il novero degli atti propri del pubblico ministero all’interno del dibattimento, laddove unico veicolo di colpevolezza può essere soltanto la prova, che si forma dinanzi al giudice. Ciò che più può accostarsi ad un impulso in malam partem è proprio – a tutto voler concedere – la richiesta di ammissione delle prove, ma essa, nella sua rituale conformazione orale, sfugge al disposto in esame.
La seconda osservazione è ancor più sommessa: se mai esistessero per davvero degli atti “aggressivi” del pubblico ministero, perché mai dovrebbero sfuggire alla regola generale del comma 1? Ancora una volta, bisogna immaginare un esempio pratico per affrontare compiutamente il problema e l’unica strada praticabile è quella di mutuarlo – ammettendolo, pur senza concedervi adesione acritica – dalla fonte sovranazionale. Ebbene: per quale ragione – si ribadisce – dovrebbe concedersi al pubblico ministero di descrivere il fatto contestato a briglie sciolte e con epiteti anticipatori della condanna? Si potrebbe obiettare che è la stessa contestazione del fatto ad introdurre, di per sé, una violazione endo-procedimentale al principio di innocenza. Ma tale osservazione non fa che confermare come i confini della tutela che si è inteso allestire siano tutt’altro che chiari. Se si mira a espungere dal procedimento qualsivoglia correlazione – anche meramente estetica – tra indagato/imputato e prospettazione di responsabilità, si intraprende un ben periglioso cammino, perché si assume come deriva patologica la funzione, in realtà fisiologica, del procedimento, ossia un vaglio sul “se” un dato soggetto sia colpevole o innocente. Tale vaglio implica – non può essere altrimenti – che l’opzione prospetticamente meno favorevole all’imputato venga presa in considerazione, venga “pronunciata”. Ecco l’imputazione: ipotesi per eccellenza, ma ipotesi irrinunciabile perché un processo penale possa esistere. Sentire l’esigenza di sancire la “non sanzionabilità” dell’imputazione in quanto tale, significa confondere la fisiologia con la patologia. Se invece il problema sta, ancora una volta, nelle modalità di redazione dell’imputazione, non si riesce a capire per qual recondito motivo il pubblico ministero potrebbe concedersi la libertà, nel tenore della contestazione, di qualificare apertamente come colpevole una persona indagata o imputata. Ancor prima, non si comprende peraltro perché dovrebbe sentirne il bisogno.
Il tenore del comma 2 dell’art. 115 bis c.p.p., da ultimo, non può che sancire definitivamente – conferendovi forma compiuta – le già maturate perplessità. Il legislatore contempla degli atti, senza tipizzarli, che avrebbero in comune la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, e ad essi assegna uno status peculiare. Da un lato, raccomanda una continenza per quanto sia possibile (l'autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento). Dall’altro lato, non sanziona eventuali violazioni (una sorta di traduzione giuridica dell’invocazione di San Filippo Neri, state buoni se potete), atteso che il comma 3 dell’art. 115 bis cpp fa riferimento esclusivamente alla violazione delle disposizioni di cui al comma 1. Che il legislatore potesse avere in mente, nel formulare tale “eccezione”, le ordinanze in materia cautelare, appare ragionevole ipotizzarlo. Ma – ci si ripete – perché mai tali provvedimenti dovrebbero potersi concedere svarioni lessicali, a differenza di altri (in cui non sono previste valutazioni di prove o di indizi)? Ed anzi, non sembra ardito sostenere che un’ordinanza cautelare del G.i.p. che si prendesse licenza di indicare l’indagato come “colpevole” andrebbe incontro a ben legittime doglianze dell’interessato (oltre a generare altrettanto legittimi dubbi in ordine alla preparazione del giudice). Ed allora, c’è un “non detto”, c’è un “di più” che il legislatore ritiene potenzialmente sanzionabile, ma che non enuclea. Il precetto, da elastico, scade nella dimensione del vago.
4. Spunti di riflessione. Lo si è già accennato: la presunzione di innocenza nasce quale regola di “trattamento” dell’indagato e dell’imputato, e si evolve divenendo regola operativa in grado di pervadere l’intero procedimento penale sino al momento del giudizio, ove trova concretizzazione la formula dell’in dubio pro reo[6] [7].
Oggi, tuttavia, la presunzione di innocenza è divenuta anche regola di comportamento per il magistrato, attraverso il disposto dell’art. 115 bis c.p.p.
L’operazione è tutt’altro che di secondario rilievo. Perché – si badi – una regola originariamente “soltanto” etica (e quindi non sanzionata) è stata tramutata – quantomeno in parte – in regola giuridica (con correlata sanzione)[8].
E pertanto, un principio etico è stato tramutato in dettato operativo e di dettaglio.
La regola, nel merito, è indiscutibile, secondo canoni di logica ordinaria. Ove se ne voglia impostare una sintesi estrema e persino grezza, potrebbe dirsi che il magistrato non deve mai improntare i propri atti alla logica della ampollosa inutilità. Proprio l’inconferente profluvio di avverbi e di aggettivazioni scomposte tradisce, non di rado, la mancanza di contenuti. È una vera e propria regola aurea, espressiva di un irrinunciabile saper fare ma – ancor prima – di un irrinunciabile saper essere[9].
Si tratta, tuttavia, di un’operazione di “giuridicizzazione” in parte qua metodologicamente opportuna?
La risposta deve passare, inevitabilmente, attraverso l’analisi degli esiti della predetta operazione. E su questo, già si è detto: il disposto si districa con fatica nel campo della terminologia propria del procedimento penale, tradendone l’estraneità. Peraltro, come è facile desumere dalla mera lettura dell’art. 115 bis c.p.p., solo il primo comma di detto articolo è contemplato dalla sanzione di cui al comma terzo. Sanzione che, lo si rileva per inciso, in alcuni casi si tradurrà in una sorta di autosanzione che lo stesso magistrato colto in fallo dovrà irrogarsi.
In altri termini, il disposto di cui al secondo comma resta una regola etica, per quanto formalmente incorporata in un disposto normativo. Una sorta di promemoria per l’operatore reso in forma solenne. Ma l’implementazione delle norme giuridiche (o apparentemente giuridiche) non è mai scelta indolore, determinandone in fatto un potenziale scadimento in grida manzoniane. Destinate, peraltro, a incidere sul foro interno del magistrato probo e decoroso, più che su quello dell’operatore spregiudicato a cui erano destinate. E siccome il magistrato probo e decoroso deve pur sempre svolgere il proprio lavoro senza patimenti indebiti, facile appare prevedere che tale lavoro verrà salvaguardato mediante mere formule preliminari di stile, con cui verrà evidenziata la fase del procedimento (con i connaturati limiti valutativi) e la funzione endo-procedimentale delle valutazioni espresse. Nulla che un avvocato di media competenza non sia pianamente in grado di illustrare al suo cliente. Nulla – se è consentito – di realmente utile.
Non trovi margine una obiezione che costituisce anche una inconfessabile tentazione. Non si venga a ragionare, cioè, di potenziale pubblicizzazione degli atti del procedimento. Perché qui il percorso argomentativo diverrebbe gravemente distorto. L’art. 115 bis c.p.p. ha ad oggetto solo ed esclusivamente l’affermazione del principio di innocenza all’interno del procedimento. Se gli atti del procedimento dovessero conformarsi ad una sorta di “modello percettivo esterno”, si finirebbe con il disconoscere la disciplina – già in essere – concernente i margini di pubblicazione e di pubblicizzazione degli atti giudiziari. Ancor prima ed ancor peggio: si finirebbe, con opzione nefasta, con il correlare il contenuto di un atto tecnico (imponendone una “sintonizzazione”) alla lettura che di questo atto potrebbe esserne fatta al di fuori del procedimento. Ancora una volta, si pretenderebbe di tratteggiare un dato fisiologico adeguandolo a prospettazioni patologiche. Ponendo in un canto diverse, articolate e funzionali distinzioni che il legislatore ha già contemplato: in particolare, la distinzione tra atto segreto, atto pubblico e atto pubblicizzabile[10]. È davvero sensato interpretare come orientata ad una tutela “esterna” al processo una regola di redazione di atti procedimentali che involge provvedimenti o segreti (ossia, chiusi a chiava in un cassetto) o a tutto voler concedere pubblici (ossia, accessibili nel luogo ove staticamente si trovano) ma non per questo pubblicizzabili (ossia, divulgabili e distribuibili) se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello, ex art. 114 cpp? Se questo fosse “il problema”; tanto varrebbe escludere la pubblicabilità degli atti del procedimento fino alla pronuncia definitiva, ovvero – più congruamente - intervenire normativamente sulle modalità di diffusione. Ancora di più: se così fosse, finirebbe col patire una totale dispersione, agli occhi dell’interprete, la lettura sistemica del d. l. vo 106/06, che – come è facile rilevare – ha invece ben cura di scindere gli strumenti di tutela della presunzione di innocenza rivolti all’esterno (si tratta delle nuove disposizioni, già referenti di plurimi ed approfonditi commenti, concernenti la divulgazione delle “notizie giudiziarie”) da quelli rivolti all’interno del procedimento (ed incorporati nell’art. 115 bis cpp).
Un’ulteriore, parallela riflessione non pare inopportuna. Vi è il rischio – culturale, prima ancora che normativo – di tramutare la presunzione di innocenza da principio endo-procedimentale a principio “contro” il procedimento.
Sotto tale aspetto, la Costituzione – nell’optare per la formulazione di una presunzione di “non colpevolezza”, e non “di innocenza” – ha fatto propria una scelta linguistica non fraintendibile negli intenti fisiologici. Il “non colpevole” è profilo soggettivo che attende un vaglio giurisdizionale, dall’esito non ancora sancito. È pertanto profilo soggettivo pienamente “nel” procedimento, inteso quale strumento – lo si ripete, fisiologico – di accertamento della verità. Strumento che deve essere azionato, perché l’ordinamento non può farne a meno, all’emergere di una notitia criminis e che deve svilupparsi secondo il codice di rito, incentrato sul bilanciato e delicato contrappeso tra esercizio degli uffici e invalicabilità delle garanzie.
Al contrario, nella comune percezione del termine, il soggetto “innocente” è colui che patisce un’accusa ingiusta.
Di più: è colui che patisce un’accusa sempre ingiusta, perché l’innocenza presunta non ammette distinguo, non può patire distinzioni fondate sul tipo d’autore, ed appare pertanto aver necessariamente dismesso quella radice storico-probabilistica che ne concepiva il contenuto quale variabile (e, prevalentemente, regola prudenziale di giudizio) dipendente dalla tipologia del reato, dalla condizione sociale dell’autore, dalla maggiore o minore gravità del quadro indiziario[11]. Radice che non potrebbe fisiologicamente trovare terreno fertile in un ordinamento a legalità formale quale il nostro, imperniato sul principio di uguaglianza.
Questo equivoco – incentrato probabilmente sulla traditio acritica ed atecnica del termine “innocenza” nel contesto ordinamentale – è terribile, perché rischia di minare nelle fondamenta le basi della convivenza democratica e dell’equilibrio tra funzioni dello Stato. Il procedimento diviene, ex abrupto, esperienza di cui si presume l’ingiustizia fino a evidenza contraria. Diviene sanzione indebita per l’indagato e per l’imputato, salvo che questi vengano poi raggiunti da condanna definitiva. Per dirla in altri termini: il principio di innocenza, così inteso, cessa di proteggere la fairness processuale e diviene presidio posto a tutela della reputazione individuale, in tal modo imboccando una strada destinata alla insanabile conflittualità con la concezione normativa della presunzione. Ed assumendo anche – per inciso – una estensione discutibile quoad effectum, poiché non può sfuggire come la reputazione individuale trovi già adeguato presidio nell’art. 8 CEDU (“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”)[12].
In altri termini, solo la condanna renderà “giusto” il processo, ma – in un cortocircuito logico inestricabile – ciò che solo può condurre ad una eventuale condanna diviene percorso da presumersi ingiusto, ed ancor più diviene percorso ingiusto l’accertamento che dovesse sancire l’innocenza dell’imputato, benchè proprio tale accertamento sia indispensabile strumento umano per affermarla solennemente senza margini di lettura alternativa.
Non aiuta, nel contrastare tale distorsione, la portata dell’art. 115 bis c.p.p.: che, a ben vedere, si rivolge al magistrato intraneo al procedimento, ma non sanziona e non “ammonisce” – come la logica pretenderebbe, se davvero si avesse a cuore la reputazione del cittadino processato – il magistrato di un eventuale procedimento successivo al primo, che lasci trapelare un’opinione colpevolista rispetto a fatti già giudicati in senso favorevole all’imputato nel corso del processo precedente. L’omissione è, per certi versi, sorprendente, ove si abbia cura di rilevare come la pronuncia della Corte Edu del 7 dicembre 2021 (Lashun c. Russia), nel contribuire in maniera forse decisiva a sancire una correlazione tra presunzione di innocenza e reputational aspect, abbia rammentato come appartenga al nucleo essenziale del principio la necessità di tenere conto, nei procedimenti giudiziari susseguenti, del fatto che la persona non è stata condannata[13].
Abbiamo il dovere di non vivere in una turris eburnea, e pertanto non può esserci sorpresa alcuna nel constatare tale degenerazione ermeneutica. Poiché – tornando al “comune sentire” – il processo, oggi, nel suo elefantiaco incedere, è realmente percepito come sanzione sociale. Destinata, non di rado, ad affiancarsi al processo mediatico, che si presta a costituire nefasto prodotto di un populismo penale portatore di effetti letali per la qualità dei rapporti sociali[14].
Ma è scelta poco congrua, per non dire di peggio, attribuire al procedimento stesso, nella sua dimensione ontologica, una valenza indebita. L’indebito – la sanzione sociale – sta nei tempi del processo, ed anche qui l’analisi scade nell’ovvio. Forse meno ovvio è ricordare come – al netto delle patologie pure, ossia della nota carenza di magistrati, di cancellieri, di personale – la compressione dei tempi dell’accertamento (da molti invocata, e certo desiderabile) sia destinata inevitabilmente ad aprire il campo ad una compressione delle garanzie e ad una compressione dei tempi dell’accertamento (con “prodotti” valutativi più superficiali e pertanto, potenzialmente, forieri di lesioni gravi alla presunzione di non colpevolezza). Ancor meno ovvio è constatare che proprio il legislatore avrebbe, ed ha, il compito di normare un processo giusto, strutturandolo e non contestandone mediaticamente la struttura, quasi fosse una creazione aliena.
In generale, ed al netto di tutto ciò che può essere legittimamente suggerito dalle diverse sensibilità giuridiche, è ben triste fase culturale quella in cui la forza dell’etica viene mutuata – nelle intenzioni – dalla forza della norma giuridica. Vuol dire, c’è da temere, che si è divenuti sordi all’etica e che il diritto è destinato a molto disporre in modo da nulla imporre.
[1] Cfr. Cass., Sez V, 27 aprile 2022 (dep. 18 maggio 2022), n. 19543, Rv. 283217
[2] A. Malacarne, La presunzione di non colpevolezza nell’ambito del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188: breve sguardo d’insieme, in questa Rivista, 17 gennaio 2022.
[3] F. Galluzzo, Presunzione di innocenza: tra giustizia e informazione, in Dirittifondamentali.it, 3/2021, p. 511 s.
[4] Per un’analisi della norma, G.M. Baccari, Le nuove norme sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato, in Diritto penale e processo, 2/2022, p. 159 e ss.; S. Ricchitelli, Direttiva UE sul rafforzamento della presunzione di innocenza e rapporti con gli organi di informazione, in Diritto.it, 20.01.2022.
[5] A. Macchia, Note minime su messa alla prova e giurisprudenza costituzionale, in Cass. Pen., 3/2022, p. 953 ss.
[6] G. Caneschi, La presunzione d’innocenza negli atti del procedimento, tra affermazioni della Corte di Strasburgo e tentativi di codificazione interna, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2022, p. 891 ss
[7] Critico sulla riconducibilità della regola di giudizio al disposto di cui all’art. 27 Cost. è G. Pecorella, Terzietà del giudice. Parità delle parti: scriverlo nell’art. 111 non basta. Per il modello accusatorio in Costituzione, in Diritto di difesa, 3/2020, p. 539 ss.
[8] Sulla relazione tra regole etiche e regole giuridiche, G. Ondei, Etica, deontologia, funzioni giudicanti e requirenti: tra efficienza, percezione ed effettività, relazione svolta presso la Scuola Superiore della Magistratura in Scandicci in data 17.03.2022, nell’ambito del corso di formazione per magistrati ordinari dal titolo L’etica e la deontologia del magistrato (Scandicci, 16/18.03.2022).
[9] Sul tema, A. SPATARO, Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021 n. 188, in Giustiziainsieme.it, 14.12.2021.
[10] Sulla differenza tra segreto interno e segreto esterno, A. Malacarne, Recenti approdi giurisprudenziali in tema di pubblicabilità degli atti del procedimento penale, in La Legislazione Penale, 15.04.2020.
[11] R. Orlandi, La duplice radice della presunzione di innocenza, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2022, p. 627 ss.
[12] R. Orlandi, op. cit., p. 638.
[13] R. Orlandi, Op. Cit., P. 893.
[14] G. Varano, Un garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagine e processo, in Diritto di difesa, 4/2021, pag. 779 ss.