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24 Marzo 2020


“Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone

Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255, Pres. Diotallevi, est. Ariolli, imp. Fasciani e altri



1. Una sentenza scritta bene. – La Cassazione conferma la condanna per associazione di tipo mafioso nei confronti dell’organizzazione criminale capeggiata da Carmine Fasciani e operante nel Municipio romano di Ostia. Ma i giudici di legittimità non si limitano ad avallare la pronunzia di merito e piuttosto stilano una sorta di vademecum per un’applicazione ragionevole del delitto associativo alle formazioni criminali “autoctone”, quelle cioè per le quali “non basta la parola” mafia per identificarne il carattere penalmente significativo. Il cuore della decisione è racchiuso nella parte dedicata al “metodo mafioso” di cui al co. 3 dell’art. 416 bis c.p., sia in termini generali (pag. 63-72), sia con riferimento al caso di specie (pag. 72-79). E va subito detto che conviene leggerla prima ancora di affidarsi ai commenti. Perché esibisce una prosa ordinata, limpida, che rispecchia la piena consapevolezza da parte della Cassazione dei concetti penalistici in gioco. Una decisione che non inventa nulla, beninteso, ma che all’opposto e condivisibilmente recupera basilari principi costituzionali e moduli dogmatici collaudati, con argomentazioni fluide e linguaggio non suggestivo.  Qualità, queste, che invero negli ultimi tempi non sempre è stato facile riscontrare nella giurisprudenza formatasi con riguardo alle “nuove” perfomances a cui è stato sottoposto il delitto di associazione mafiosa su vari fronti (dalle mafie “delocalizzate” a quelle straniere, per intendersi). Qui, pertanto, ci si limita a segnalare, riassumendoli, soltanto alcuni passaggi della motivazione suscettibili di fornire le coordinate essenziali che hanno ispirato la Corte.

 

2. Metodo mafioso, offensività e proporzionalità. – Volendo individuare un file rouge dell’impianto argomentativo, possiamo identificarlo nel meritorio sforzo dei giudici di legittimità di conferire uno sfondo il più possibile oggettivistico alla verifica degli estremi della fattispecie incriminatrice. Operazione non priva di insidie invero, sol se si pensi agli scenari interpretativi dischiusi dalla tipizzazione normativa: non comportamenti individuali circoscritti bensì dinamiche collettive (perfino) socialmente rilevanti, tanto sul versante degli autori quanto su quello degli effetti delle condotte punibili. La sfida è duplice e in un certo senso virtuosamente contradditoria: per un verso assumere a modello tipologico il background cognitivo accumulato in quasi quarant’anni di esperienza giudiziale, e per altro non lasciarsene condizionare troppo. Da questo punto di vista, la Cassazione non manca anzitutto di ricordare che lo stesso legislatore “non si è limitato a registrare realtà (talvolta secolari) già presenti (…) da tempo dotate di un nomen (…), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio e fama criminale da spendere come arma di pressione nei confronti dei consociati (…), ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire «parallelo», destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni (anche straniere) che, malgrado prive di un nomen e di una «storia» criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni mafiose già note”. Ebbene, per una gestione ermeneutica di siffatto “ambito operativo parallello” sufficientemente sorvegliata, la Corte prende spunto dalla presa d’atto che il delitto di cui all’art. 416 bis, c.p. appartiene alla classe dei reati associativi a “struttura mista” – richiedenti cioè un quid pluris rispetto alla mera organizzazione in sé considerata costituito appunto dall’effettiva pratica del “metodo mafioso” – per ribadire che “la fattispecie incriminatrice richiede per la sua integrazione un dato di «effettività»: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di «possedere in concreto» quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso”. Tale “caratura oggettiva”, soggiunge la Corte, “vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale”, in quanto “è proprio il metodo di cui l’associazione – per tipizzarsi – deve «avvalersi» a convincere del fatto che l’intimidazione e l’assoggettamento omertoso che ne devono derivare, rappresentano in sé un «fatto» che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori «danni» scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine”.

Ora, la sequenza tipicità/offensività/proporzionalità proposta dai giudici di legittimità è davvero apprezzabile nella sua didascalica semplicità: ancor di più ove si consideri che la stessa sezione della Corte in precedenza ha propugnato non poche volte una versione dimidiata del medesimo requisito di fattispecie, configurandolo in termini potenziali e così ritendo sufficiente l’insorgenza di un mero pericolo rispetto, quantomeno, alla libertà morale dei consociati. Al riguardo, va pure ribadito che siffatta sequenza deve imporsi sempre e comunque in ogni processo in cui è scrutinata l’applicabilità del delitto di associazione mafiosa: si tratti, ad esempio, di ‘ndrangheta in loco, in trasferta o addirittura all’estero, i giudici sono comunque tenuti ad rispettarla con il medesimo scrupolo mostrato dalla sentenza in parola.    

 

3. Precisione, determinatezza e tassatività tra diritto e processo. – Ma l’impostazione ancorata alla verifica giudiziale dell’effettività del metodo mafioso si rivela decisiva, secondi i giudici di legittimità, anche per contenere la possibile erosione della legalità penale derivante dall’applicazione del delitto a organizzazioni prive di “storia”, ossia di quel corredo di conoscenze sedimentatesi nel tempo che nel caso della mafie tradizionali funge da possibile fonte probatoria perlomeno nella forma di sperimentate massime di esperienza. Più in particolare, e muovendosi nel solco della dottrina incline a valorizzare la determinatezza quale “provabilità” in concreto del tipo criminoso, la Cassazione ritiene che è proprio la “prospettiva oggettivistica e materiale” a consentire al reato di sottrarsi alla censura di “fattispecie sociologicamente orientata”, poiché “quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del «fatto», che deve formare oggetto, naturalmente di prova adeguata”. E in quest’ottica si ribadisce che “assoggettamento e omertà rappresentano gli eventi che devono scaturire dall’intimidazione: «fatti», quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono d qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale”.  Nessuna scorciatoia probatoria, dunque, ammonisce la Corte. E il richiamo a una nomenclatura – per dir così – “classica” sembrerebbe voler scongiurare derive letterarie nell’approccio giudiziario al problema probatorio, derive invero tutt’altro che rare nella prassi corrente. Quel che occorre, semmai, è un adeguamento degli standard valutativi con riguardo, in particolare, alla forza di intimidazione dispiegata da organizzazioni criminali comunque di ridotte dimensioni e senza pedigree, in modo da evitare, raccomanda la Cassazione, “gli opposti estremi: da un lato, un effetto «totalizzante», di coazione che coinvolga l’intera popolazione di un determinato territorio; dall’altro, quello della <<micro-entità>> associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale”. Giunti fin qui, tuttavia, non si può non riconoscere che il punto di equilibrio tra questi due estremi è inevitabilmente oscillante nel tempo e nello spazio, sospinto da una parte o dall’altra da molteplici fattori contingenti che indubbiamente non si lasciano ingabbiare in format predefiniti una volta e per tutte. Ecco perché le decisioni giurisprudenziali rischiano di rimanere “essenzialmente contestabili”, ossia fisiologicamente esposte all’accusa di andare contro il senso comune o di rincorrerlo.

E a bene vedere, gli stessi indicatori fattuali isolati dalla Cassazione per vagliare la tenuta logico-motivazionale della sentenza nonché l’esatta composizione del “mosaico delle condizioni di applicazione della fattispecie”, confermano l’irriducibile plasticità di un ragionamento decisorio condotto tra diritto e prova con le porte aperte a componenti valutative di notevole spessore. In altre parole, “l’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso”, come “gli specifici settori di intervento”,  o “la molteplicità dei settori illeciti di interesse”, nonché “la manifestazione esterna del potere decisionale” e la “sudditanza degli interlocutori istituzionali o professionali”, costituiscono certamente indicatori plausibili della mafiosità penalmente rilevante di un aggregato criminale attivo in un contesto non tradizionale. Ma si tratta pur sempre di parametri a trama aperta la cui concretizzazione giudiziale non sempre è asetticamente controllabile. Le guerre di religione sul punto, francamente, sono ingiustificate.

 

4. Infine. – Compiuta la verifica di legittimità della decisione di merito, la Cassazione conclude affermando che “la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza «mafiosa» sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento”. Una chiusa notarile? Forse no.