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03 Maggio 2024


Sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e stato di detenzione: verso il definitivo superamento della presunzione di persistente pericolosità per chi ha espiato una pena detentiva inferiore ai due anni?

Trib. Oristano, ord. 14 dicembre 2022, reg. ord. n. 22/2024



*Contributo pubblicato nel fascicolo 5/2024. 

 

1. Per l’ennesima volta, le misure di prevenzione tornano al cospetto della Corte costituzionale, questa volta sotto il profilo dei rapporti tra stato di detenzione ed esecuzione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

In particolare, nell’ordinanza in commento il Tribunale di Oristano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14 co. 2-ter d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (d’ora in avanti, cod. antimafia), ritenendo che tale disposizione si ponga in contrasto con gli artt. 3 co. 1 e 2, 13 co. 1 e 27 co. 3 Cost. nella parte in cui prevede che la sorveglianza speciale, disposta dal giudice della prevenzione prima o durante il periodo di carcerazione e rimasta sospesa per tale lasso temporale, trovi esecuzione in via automatica, senza cioè un nuovo accertamento circa la persistente sussistenza della pericolosità sociale del soggetto, nel caso in cui la pena detentiva abbia avuto una durata inferiore ai due anni.

Nel caso di specie, infatti, il giudice sardo era chiamato a valutare la penale responsabilità ai sensi dell’art. 75 cod. antimafia di un soggetto che, attinto da un provvedimento applicativo della misura della sorveglianza speciale mentre si trovava ristretto in carcere, una volta espiata la pena detentiva di durata inferiore a due anni veniva colto in più occasioni trasgredire le prescrizioni imposte con la misura di prevenzione personale, la quale aveva nel frattempo ripreso il suo corso senza che si fosse proceduto a un nuovo accertamento in merito alla perdurante pericolosità del soggetto.

 

2. Per meglio comprendere la censura mossa dal giudice rimettente all’art. 14 cod. antimafia, è bene ricostruire brevemente l’evoluzione della disciplina in parte qua del sistema di prevenzione.

2.1. Nell’impostazione originaria della l. 27 dicembre 1956, 1423, l’unica disposizione deputata a disciplinare i rapporti tra pena, misura di sicurezza e misura di prevenzione era l’art. 12, che, invero un po’ laconicamente, stabiliva che: «il tempo trascorso in custodia preventiva seguita da condanna o in espiazione di pena detentiva, anche se per effetto di conversione di pena pecuniaria, non è computato nella durata dell’obbligo del soggiorno» (co. 1); «l’obbligo del soggiorno cessa di diritto se la persona obbligata è sottoposta a misura di sicurezza detentiva» (co. 2); «se alla persona obbligata a soggiornare è applicata la libertà vigilata, la persona stessa vi è sottoposta dopo la cessazione dell’obbligo del soggiorno» (co. 3).

Com’è evidente, tale norma, che oggi trova collocazione, nello stesso testo, nell’art. 15 cod. antimafia, non forniva all’interprete sicure e univoche indicazioni in merito alle sorti della sorveglianza speciale in caso di sopravvenienza di una condanna a pena detentiva: non era chiaro, in particolare, se, una volta espiata la pena carceraria, al fine di dare nuovo corso alla misura personale fosse in ogni caso necessario procedere a una rivalutazione della pericolosità del soggetto o se, al contrario, ci si potesse attenere alla decisione già presa in sede di applicazione.

 

2.2. Chiamate a pronunciarsi sul punto, le Sezioni Unite Tumminelli avevano inizialmente escluso la necessità di una nuova valutazione, argomentando che l’esistenza della pericolosità sociale del proposto deve essere accertata con esclusivo riferimento al momento in cui viene emessa la decisione che l’afferma e che, conseguentemente, «una volta che la pericolosità sia stata riconosciuta esistente al momento della decisione, la misura deve essere disposta, senza che sia impedita dalla possibilità di futuri mutamenti della personalità del soggetto»[1]. Il che non significava, d’altro canto, che il destinatario della misura non potesse sollecitare una nuova valutazione in merito alla sua pericolosità attraverso lo strumento di cui all’art. 7 l. n. 1423/1956 (oggi art. 11 cod. antimafia), il quale ammette, in ogni momento, la possibilità di revoca o modifica del provvedimento applicativo della misura di prevenzione personale su istanza di parte e sentita l’autorità proponente. Per la Suprema Corte, in sostanza, «posto che la pericolosità della persona non è di per sé cancellata dalla privazione della libertà personale, il risultato positivo che può essere raggiunto per effetto del trattamento risocializzante connesso al regime di espiazione della pena, ovvero a seguito della sottrazione del soggetto all’ambiente in cui manifestava la propria condotta pericolosa, può avere rilevanza, secundum legem, soltanto ai fini della revoca della misura»[2].

 

2.3. A ben vedere, però, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite Tumminelli andava nella direzione opposta rispetto a quanto normativamente previsto in tema di misure di sicurezza.

Come noto, infatti, il regime applicativo delle misure di sicurezza, originariamente incardinato su numerosi schemi presuntivi e rigidi automatismi applicativi, è stato completamente stravolto nel corso del tempo per effetto di una serie di pronunce di incostituzionalità e di interventi legislativi di riforma[3].

A tal proposito, va anzitutto ricordata la sentenza n. 1/1971, con la quale la Corte costituzionale – nel dichiarare l’incompatibilità con l’art. 3 Cost. dell’art. 224 co. 2 c.p. nella parte in cui rendeva obbligatorio ed automatico, per i minori infraquattordicenni non imputabili, il ricovero, per almeno tre anni, in riformatorio giudiziario – aveva per la prima volta messo in discussione l’ordito di meccanismi presuntivi che governavano la disciplina delle misure di sicurezza[4]. In particolare, secondo la Corte la regola di cui all’art. 224 co. 2 c.p. appariva «palesemente contraria a qualunque criterio di ragionevolezza»: pur non dubitando, infatti, che «la severa misura di sicurezza sia obbligatoriamente comminata nel presupposto della pericolosità sociale del minore», la presunzione di pericolosità «non ha fondamento allorché si tratti della non imputabilità del minore di anni quattordici», e ciò proprio in ragione della «giovanissima età del soggetto», la quale non giustifica l’applicazione automatica di una misura così grave com’è quella del riformatorio giudiziario[5].

Nel solco tracciato dalla sentenza n. 1/1971 si collocano poi le successive pronunce n. 139/1982 e n. 249/1983, nelle quali il Giudice delle leggi aveva riscontrato l’incostituzionalità, sempre per violazione del canone della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., di altre presunzioni di pericolosità previste in relazione all’applicazione, nei confronti dell’infermo di mente, del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario[6] e del ricovero in casa di cura e custodia[7]. In particolare, nella sentenza del 1982 il Giudice delle leggi evidenziava correttamente come le presunzioni di pericolosità previste nelle disposizioni censurate fossero in realtà duplici: una prima presunzione, che ricollegava lo stato d’infermità alla pericolosità, già giudicato di per sé non in contrasto con il dettato costituzionale; e una seconda presunzione, che invece era incentrata sulla permanenza dell’infermità e, dunque, anche della pericolosità dal momento del fatto al momento del giudizio. Quest’ultima presunzione, secondo la Corte, «lungi dall’esprimere esigenze di tutela discrezionalmente apprezzate dal legislatore, finisce per allontanare la disciplina normativa dalle sue basi razionali»[8]. Dietro tale schema presuntivo, infatti, «non vi sono né dati d’esperienza suscettibili di generalizzazione, né esigenze di semplificazione probatoria»: di conseguenza, ricavare, «a distanza di tempo imprecisata, lo stato di salute mentale attuale da quello del tempo del commesso delitto, è questione di fatto che può e che deve essere verificata caso per caso; totalmente privo di base scientifica sarebbe comunque ipotizzare uno stato di salute (anzi di malattia) che si mantenga costante, come regola generale valida per qualsiasi caso d’infermità totale di mente»[9].

Com’è evidente, nelle pronunce appena richiamate, la Corte costituzionale aveva ben messo in luce come la valutazione di pericolosità sociale necessiti di un costante aggiornamento, e ciò in ragione del peculiare oggetto del vaglio giudiziale, la personalità del reo, che non rimane sempre uguale a se stessa ma è suscettibile di subire modifiche, sia nel senso di un’evoluzione positiva, sia nel diverso senso di un’ulteriore intensificazione del rischio di recidiva.

Il legislatore della riforma Gozzini (l. 10 ottobre 1986, n. 663) ha poi recepito le indicazioni dei giudici costituzionali, disponendo l’abrogazione dell’art. 204 c.p., recante la disciplina generale delle ipotesi di pericolosità presunta, e contestualmente stabilendo espressamente che «tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa».

La nuova regola dettata dall’art. 31 l. n. 663/1986 non chiariva, tuttavia, se il “previo accertamento” della pericolosità riguardasse soltanto il momento dell’applicazione della misura di sicurezza, oppure si estendesse anche al successivo momento dell’esecuzione della misura post delictum. Investita di una questione concernente proprio questo specifico problema, la Corte costituzionale, con sentenza n. 1102/1988, affermava espressamente che l’unico modo per far fronte all’esigenza di verificare l’effettivo persistere della pericolosità al momento dell’inizio dell’esecuzione della misura di sicurezza consiste nella «reiterazione dell’accertamento»[10].

Da ultimo, il codice di rito del 1989, facendo tesoro anche dell’ultima pronuncia del Giudice delle leggi appena richiamata, ha espressamente previsto, all’art. 679, che «quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell’articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato».

 

2.4. Come anticipato, ancora dopo l’introduzione del codice antimafia nel 2011 si registrava una significativa discrasia tra quanto previsto per le misure di prevenzione e per le misure di sicurezza in relazione alla necessità o meno di una nuova valutazione di pericolosità a seguito dell’espiazione di una pena detentiva: per le prime, in base al principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite Tumminelli, bisognava far fede all’accertamento effettuato in sede di applicazione della misura, salvo possibilità di revoca su istanza di parte; per le seconde, invece, in base al disposto dell’art. 679 c.p.p. occorreva in ogni caso procedere a una nuova verifica.

Stante la ormai riconosciuta afferenza delle misure di prevenzione e delle misure di sicurezza a un unico genus[11], gli interpreti si sono interrogati sulla ragionevolezza di una così vistosa differenziazione di disciplina e tali dubbi hanno dato la stura alla proposizione di nuove questioni di legittimità costituzionale, le quali sono state peraltro prontamente accolte dalla Corte costituzionale.

Il riferimento è, in particolare, alla sentenza n. 291/2013, nella quale la Corte ha riconosciuto l’incostituzionalità dell’art. 12 l. n. 1423/1956 (e ovviamente anche dell’art. 15 cod. antimafia) nella parte in cui non viene previsto che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato al momento dell’esecuzione della misura[12].

In particolare, la Corte, nel prendere atto della diversità di disciplina appena sopra illustrata, rileva che «il regime operante in rapporto alle misure di prevenzione personali è diverso e meno favorevole»[13]. In effetti, «la verifica della pericolosità sociale, operata nell’ambito del procedimento di applicazione della misura, viene considerata sufficiente a fondare le limitazioni della libertà personale implicate dalla stessa anche nel momento in cui – a qualunque distanza di tempo – ne divenga possibile l’esecuzione in ragione dell’avvenuta cessazione dello stato detentivo»[14]; e ciò «sebbene nelle more la persona interessata sia soggetta a restrizione in carcere e, conseguentemente, al trattamento penitenziario, specificamente finalizzato al suo recupero sociale, in attuazione del precetto costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa»[15]. D’altra parte, non può nemmeno reputarsi sufficiente il riconoscimento della facoltà in capo al proposto di proporre in ogni momento istanza di revoca della misura: a ben vedere, infatti, secondo il Giudice delle leggi, «la possibilità in questione – che presuppone il trasferimento sull’interessato dell’onere di attivare un procedimento inteso a verificare, in negativo, l’attuale inesistenza della pericolosità, quale condizione per sfuggire al delineato “automatismo” – non vale ad evitare il denunciato vulnus dell’art. 3 Cost.»[16].

In effetti, la Corte – pur confermando la propria tradizionale impostazione, secondo cui la somiglianza tra misure di prevenzione e misure di sicurezza «non implica, di per sé sola, un’indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline»[17] – ritiene che, con riferimento al particolare profilo sottoposto alla sua attenzione, sia «dirimente la considerazione che tra i due modelli che il giudice a quo pone a raffronto – quello delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione della verifica della pericolosità sociale anche nel momento dell’esecuzione, e quello delle misure di prevenzione, che considera sufficiente la verifica operata in fase applicativa, salva l’eventuale iniziativa dell’interessato intesa a contrastarla – l’unico rispondente ai canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza è il primo»[18].

La Corte ammette una sola eccezione alla suddetta regola generale: resterà, infatti, «rimessa all’applicazione giudiziale l’individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterazione della verifica della pericolosità sociale potrà essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell’esecuzione della misura di prevenzione», ‘brevità’ che i giudici costituzionali quantificano esplicitamente in «pochi giorni di pena detentiva»[19].

Il messaggio del Giudice delle leggi è, dunque, chiaro e diretto: anche per le misure di prevenzione deve valere la stessa regola prevista dall’art. 679 c.p.p. per le misure di sicurezza, con la conseguenza che, qualora il destinatario della misura di prevenzione personale abbia trascorso un qualsiasi lasso di tempo in carcere in esecuzione della pena detentiva, sarà in ogni caso necessario procedere a un nuovo accertamento della pericolosità affinché la misura preventiva possa tornare a esplicare i propri effetti, fatto salvo il solo caso-limite in cui, data la particolare brevità della detenzione, il giudice ritenga che la prognosi di pericolosità sia rimasta immutata[20].

 

2.5. Infine, il legislatore della riforma Orlando (l. 17 ottobre 2017, n. 161) ha inserito all’art. 14 cod. antimafia un nuovo co. 2-ter, ai sensi del quale viene imposto un obbligo di verifica, da parte del giudice della prevenzione, dell’attualità della pericolosità del proposto, qualora quest’ultimo abbia espiato una pena detentiva superiore a due anni. Al di sotto di tale periodo, invece, la misura della sorveglianza speciale riprende automaticamente il suo corso.

Il legislatore ha dunque deciso di recepire solo in parte il dictum della Corte costituzionale, distinguendo tra pene detentive di durata più contenuta, che non importano la necessità di un nuovo scrutinio della pericolosità del sorvegliato speciale, e pene di maggiore durata, che invece impongono la reiterazione di tale scrutinio.

 

2.6. Per concludere il quadro ricostruttivo sinora delineato, sembra opportuno fare menzione a una particolare ricaduta del principio espresso dalla Corte costituzionale, riguardante l’applicazione dell’art. 75 cod. antimafia nell’ipotesi in cui, a seguito di un periodo di detenzione di consistente durata, il giudice non abbia proceduto, su istanza di parte ovvero ex officio, ad una rivalutazione dell’attualità e della persistenza della pericolosità sociale.

In particolare, nella giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza n. 291/2013 della Corte costituzionale erano emersi ben quattro orientamenti.

Secondo una prima e più garantista impostazione, il sorvegliato speciale sottoposto a pena detentiva non poteva essere imputato per il reato di cui all’art. 75 cod. antimafia per fatti commessi successivamente alla scarcerazione fino a quando il giudice della prevenzione non avesse nuovamente valutato l’attualità della pericolosità sociale[21].

Un secondo orientamento, invece, escludeva che la mancata (ri)valutazione della pericolosità comportasse un’automatica inesistenza del titolo genetico o una sospensione ex lege del provvedimento: conseguentemente, il nuovo esame della pericolosità soggettiva sarebbe rimesso al giudice solo allorquando all’esito della detenzione emergano elementi idonei ad incidere sullo stato di pericolosità sociale precedentemente delibato in senso positivo[22].

Un terzo orientamento distingueva, poi, tra l’espiazione della pena e la detenzione cautelare, reputando che solo nel primo caso fosse necessario effettuare una nuova valutazione della pericolosità del sottoposto alla misura preventiva[23].

Una quarta posizione, infine, riteneva invece sufficiente che la valutazione della persistente pericolosità fosse oggetto di un accertamento incidentale da parte del giudice di merito nell’ambito del procedimento penale avviato in relazione al reato di cui all’art. 75 cod. antimafia[24].

Le Sezioni Unite Marillo hanno risolto il contrasto interpretativo aderendo all’orientamento più garantista e maggiormente fedele al principio espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza 291/2013[25]. In particolare, la Corte, valorizzando alcuni importanti arresti della giurisprudenza costituzionale[26], di legittimità[27] ed europea[28] e richiamando la riforma dell’art. 14 cod. antimafia operata dalla l. n. 161/2017 (supra, 2.5.), ha affermato il principio di diritto in virtù del quale «[n]ei confronti di un soggetto destinatario di una misura di sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza di una rivalutazione dell’attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura, non è configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dall’art. 75 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159». In altre parole, per la Suprema Corte il periodo di detenzione determina la temporanea inefficacia della sorveglianza speciale, la quale può essere ripristinata solo in seguito ad un nuovo accertamento della pericolosità sociale che ne attesti l’attualità.

 

3. Alla luce della giurisprudenza costituzionale e del rinnovato quadro normativo appena sopra sinteticamente descritti, il Tribunale di Oristano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14 co. 2-ter cod. antimafia, nella parte in cui, in caso di detenzione inferiore ai due anni, la misura della sorveglianza speciale, rimasta sospesa durante l’esecuzione della pena carceraria, riprende automaticamente il suo corso senza necessità di un nuovo vaglio della pericolosità sociale del proposto.

 

3.1. Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, in caso di accoglimento, la decisione adottata dal giudice della prevenzione in sede di applicazione della sorveglianza speciale resterebbe priva «di efficacia esecutiva perché inidonea, da sé sola, a giustificare la permanenza della pericolosità sociale, rendendo necessario un ulteriore accertamento da compiere indefettibilmente e d’ufficio perché la misura possa essere concretamente posta in esecuzione»[29].

Tale diverso regime si rifletterebbe, com’è ovvio, sulla sussistenza delle ipotesi contravvenzionali di cui all’art. 75 co. 1 cod. antimafia contestate all’imputato del giudizio a quo, consistenti in plurime violazioni delle prescrizioni della sorveglianza speciale commesse successivamente alla notifica del verbale di sottoposizione alle prescrizioni imposte dal provvedimento originario in assenza di una verifica in concreto della persistenza della pericolosità sociale del soggetto. Persistenza di cui, secondo il giudice rimettente, «si sarebbe potuto dubitare nel caso di specie ove, non solo la misura di prevenzione era stata disposta per la durata di un solo anno», ma il proposto «aveva altresì beneficiato – nel corso della carcerazione medio tempore subita – della liberazione anticipata e di permessi premio con provvedimenti attestanti la partecipazione all’opera rieducativa e la correttezza della condotta intramuraria»[30].

 

3.2. Quanto, invece, alla non manifesta infondatezza, il Tribunale di Oristano – dopo aver richiamato diffusamente la sentenza n. 291/2013 della Corte costituzionale (supra, 2.4.), nonché alcune recenti sentenze della Corte di cassazione che, sia pure con riferimento al momento deliberativo, valorizzano il requisito dell’attualità della pericolosità sociale al momento dell’applicazione delle misure di prevenzione[31] – evidenzia tre possibili violazioni della Carta costituzionale.

Anzitutto, il disposto dell’art. 14 co. 2-ter cod. antimafia si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto «mantiene un ingiustificato trattamento differenziato fra soggetti che si trovano in posizioni analoghe». Posto, infatti, che «misure di sicurezza e misure di prevenzione hanno analoga ratio e sono parimenti orientate a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti valutati come pericolosi e a favorirne il loro recupero verso l’ordinato vivere sociale»[32], la previsione, in relazione alle misure ante delictum, di un lasso temporale rigido di due anni, al di sotto del quale non è imposto di verificare se la pericolosità sociale del proposto sia o meno in concreto rimasta inalterata, delineerebbe un’irragionevole diversità di trattamento tra il sottoposto a misura di prevenzione e il destinatario di una misura di sicurezza. L’irragionevolezza, secondo il giudice rimettente, «si desume dal fatto che tale meccanica esclusione dalla rivalutazione ex officio non consente di tener conto di quelle ipotesi in cui la detenzione, pur breve, abbia attenuato o addirittura escluso la concreta pericolosità del soggetto destinatario della misura di prevenzione diversamente da talune ipotesi di detenzione prolungata, ove il percorso rieducativo e di recupero al corretto vivere sociale può risultare ben più ostico»[33]. Peraltro, aggiunge il giudice a quo, «tale rigida soglia risulta iniqua anche sotto il profilo della mancata considerazione della durata della misura di prevenzione originariamente disposta, così precludendo in radice la rivalutazione anche nelle ipotesi in cui – come quella in esame – il differimento dell’esecuzione della misura della sorveglianza speciale di P.S. si sia protratto oltre la complessiva durata della misura disposta con il provvedimento genetico»[34].

In secondo luogo, viene sospettata una violazione dell’art. 13 Cost., norma che, secondo l’ormai pacifica giurisprudenza costituzionale, costituisce il principale referente costituzionale della sorveglianza speciale[35]. In particolare, secondo il Tribunale di Oristano, la censurata disposizione del cod. antimafia comporterebbe una violazione del requisito della proporzionalità della limitazione della libertà personale, «nella parte in cui pretende di far discendere l’esecuzione di misure di prevenzione personali e delle prescrizioni fortemente limitative ad esse correlate dal solo provvedimento deliberativo della misura e in assenza di una rivalutazione della pericolosità sociale che ne deve costituire il fondamento, non solo applicativo, ma esecutivo e legittimarne la perduranza in ipotesi di sospensione o differimento della sua esecuzione»[36].

Infine, viene rilevata anche una possibile lesione dell’art. 27 co. 3 Cost.: secondo il giudice rimettente, infatti, il disposto dell’art. 14 co. 2-ter cod. antimafia lascerebbe intendere l’idea che, sotto i due anni, la pena non può esplicare un’efficace azione risocializzatrice, laddove, invece, il dettato costituzionale «riconosce a qualsiasi pena detentiva – anche di durata inferiore ai due anni – preminente funzione rieducativa»[37].

 

***

 

4. Rimandando ad altra sede riflessioni più approfondite, sia qui consentito rimarcare come il legislatore del 2017, nell’introdurre la disciplina di cui al co. 2-ter dell’art. 14 cod. antimafia, abbia deliberatamente deciso di discostarsi dalle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella più volte citata sentenza n. 291/2013, dove veniva esplicitamente sollecitata un’omologazione della disciplina delle misure di prevenzione a quella delle misure di sicurezza sotto il particolare profilo della necessità di un aggiornamento della prognosi di pericolosità a seguito dell’espiazione di un periodo di detenzione del soggetto destinatario.

Peraltro, la presunzione iuris tantum delineata dalla disposizione in discorso non può nemmeno trovare una qualche giustificazione nell’inciso in cui il Giudice delle leggi ammetteva, in alcuni limitati casi, la possibilità di non procedere a un nuovo accertamento della pericolosità dopo l’espiazione della pena detentiva. A ben vedere, infatti, la Corte costituzionale non solo aveva fatto riferimento a un lasso temporale assai breve, dell’ordine di pochi giorni (e non di due anni!), ma aveva anche espressamente indicato nel giudice (e non nel legislatore) il soggetto deputato a svolgere una tale valutazione, con ciò alludendo, di nuovo, alla necessità di una verifica da condurre in concreto e caso per caso.

Per di più, la scelta di ricorrere, ancora una volta, a una presunzione relativa di pericolosità appare disarmonica rispetto all’evoluzione normativa e giurisprudenziale che si è registrata in tema di misure di sicurezza e, più di recente, di misure di prevenzione, evoluzione che ha registrato un progressivo affrancamento da ormai superati meccanismi presuntivi e automatismi applicativi e una decisa virata verso modelli di accertamento in concreto della pericolosità sociale.

Ci sembra pienamente condivisibile, quindi, la censura mossa dal giudice rimettente al metro dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. In effetti, la regola dettata dall’art. 14 co. 2-ter cod. antimafia appare seriamente indiziata di essere irragionevole sia intrinsecamente, in quanto lo spartiacque di due anni di pena detentiva posto dal legislatore appare privo di qualsiasi fondamento razionale, sia in rapporto alla disciplina prevista per le misure di sicurezza dall’art. 679 c.p.p. che, al contrario, non contempla presunzioni e stabilisce la regola generale della rivalutazione in ogni caso della pericolosità del soggetto che abbia trascorso un periodo, più o meno lungo, in carcere in esecuzione di una pena detentiva.

Com’è ovvio, peraltro, un eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale comporterebbe la revocabilità, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di tutte le sentenze di condanna definitive intervenute fino alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 14 co. 2-ter cod. antimafia.

In conclusione, bene ha fatto il Tribunale di Oristano a sollecitare un nuovo intervento della Corte costituzionale che si auspica essere, una volta per tutte, definitivo.

 

 

 

[1] Cass., sez. un., 25 marzo (dep. 14 luglio) 1993, n. 6, Tumminelli, § 3, in Cass. pen., fasc. 11/1993, p. 2491, con nota di P. V. Molinari, Sull’applicabilità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s. durante la detenzione in espiazione di pena della persona pericolosa.

[2] Ibidem.

[3] Cfr., per tutti, E. Musco, voce Misure di sicurezza, in Enc. dir., agg. I, Milano, 1997, in part. p. 765 ss.; M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario: vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Torino, 2008, in part. p. 31 ss.

[4] Corte cost., sent. 12-20 gennaio 1971, n. 1, con note di G. Giampaoli, La Corte costituzionale legislatrice?, in Scuola pos., 1971, p. 391 ss.; G. Vassalli, La pericolosità presunta del minore non imputabile, in Giur. cost., 1971, p. 2.

[5] Ivi, § 6.

[6] Corte cost., sent. 8-27 luglio 1982, n. 139, con note di V. Ferrari, Il cielo dei concetti e le diaboliche applicazioni. Altre riflessioni in tema di ospedali psichiatrici giudiziari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 169 ss.; A. Manacorda, Infermità mentale, custodia e cura alla luce della recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 1983, I, c. 292 ss.; E. Musco, Variazioni minime in tema di pericolosità presunta, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 1584 ss.; G. Russo, La pericolosità sociale dell’infermo di mente prosciolto, in Riv. it. med. leg., 1983, p. 375 ss.; G. Vassalli, L’abolizione della pericolosità degli infermi di mente attraverso la cruna dell’ago, in Giur. cost., 1982, p. 1202 ss. In particolare, con tale sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 222 co. 1, 204 co. 2, 205 co. 2 n. 2 c.p., per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non subordinavano il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell’imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o dell’esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dall’infermità medesima al tempo dell’applicazione della misura.

[7] Corte cost., sent. 15-28 luglio 1983, n. 249, con nota di D. Giuri, Infermità psichica e presunzione di pericolosità nel giudizio della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 460 ss. In particolare, con tale sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 204 co. 2 e 219 co. 1 c.p. nella parte in cui non subordinavano il provvedimento di ricovero in una casa di cura e di custodia dell’imputato condannato per delitto non colposo ad una pena diminuita a causa di infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della persistente pericolosità sociale derivante dall’infermità medesima al tempo dell’applicazione della misura di sicurezza. Attraverso lo strumento di cui all’art. 27 l. n. 87/1953 è stata dichiarata anche l’incostituzionalità dell’art. 219 co. 2 c.p. nella parte in cui non subordinava il provvedimento di ricovero in una casa di cura e di custodia dell’imputato condannato ad una pena diminuita a causa di infermità psichica per un delitto per il quale è stabilita dalla legge la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni, al previo accertamento da parte del giudice della persistente pericolosità sociale derivante dall’infermità medesima al tempo della applicazione della misura di sicurezza.

[8] Corte cost., sent. n. 139/1982 cit., § 8.

[9] Ibidem.

[10] Corte cost., sent. 30 novembre-13 dicembre 1988, n. 1102, con note di A. Calabria, Le presunzioni di pericolosità nella giurisprudenza della Corte costituzionale prima e dopo la legge abrogatrice del 1986, in Giur. cost., 1989, p. 377 ss.; T. Padovani, Una decisione costituzionale “conseguenziale” in tema di assegnazione a una casa di cura e di custodia, in Leg. pen., 1989, p. 611.

[11] Così Corte cost., sent. 16-22 dicembre 1980, n. 177, § 4.

[12] Corte cost., 2-6 dicembre 2013, n. 291, con note di M. Formica, L’estensione alle misure di prevenzione personali di una “ragionevole” norma prevista per le misure di sicurezza, in Giur. cost., 2013, n. 6, p. 4669 ss.; F. Fiorentin, Lo scarto temporale tra delibera ed esecuzione impone al giudice una nuova indagine d’ufficio, in Guida dir., 2014, n. 2, p. 58 ss.; T. Trinchera, Misure personali di prevenzione: nel caso di sospensione dell’esecuzione per lo stato di detenzione dell’interessato, la pericolosità va verificata a sospensione esaurita, in Dir. pen. cont., 9 dicembre 2013.

[13] Ivi, § 6.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, § 7.

[20] Sul necessario accertamento dell’attualità della pericolosità per la pubblica sicurezza ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali v. F. Basile (con la collaborazione di E. Zuffada), Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, II ed., Torino, 2021, p. 82 ss.

[21] Cass., sez. I, 5 dicembre 2014 (dep. 17 febbraio 2015), n. 6878, Villani.

[22] Cass., sez. I, 9 marzo (dep. 6 giugno) 2017, n. 27970, Greco.

[23] Cass., sez. II, 5 marzo (dep. 26 marzo) 2015, n. 12915, Ragno.

[24] Cass., sez. I, 3 ottobre 2017 (dep. 14 marzo 2018), n. 11619.

[25] Cass., sez. un., 21 giugno (dep. 13 novembre) 2018, n. 51407, Marillo, con nota di F. Mazzacuva, Sorveglianza speciale e detenzione di lunga durata: le sezioni unite escludono la rilevanza penale delle violazioni commesse prima dell’accertamento della persistenza della pericolosità, in Dir. pen. cont., 10 gennaio 2019.

[26] Il riferimento è ovviamente a C. cost., sent. 2-6 dicembre 2013, n. 291.

[27] Il richiamo è ai due precedenti a Sezioni Unite Gallo e Gattuso, nei quali la giurisprudenza di legittimità si era già fatta carico della necessità di dare una risposta costituzionalmente compatibile rispetto al problema dell’applicazione della sorveglianza speciale a seguito di un periodo di detenzione [Cass., sez. un., 25 ottobre 2007 (dep. 6 marzo 2008), n. 10281, Gallo; Cass., sez. un., 30 novembre 2017 (4 gennaio 2018), n. 111, Gattuso]. In particolare, nella pronuncia Gallo, le sezioni unite avevano distinto il momento applicativo dal momento esecutivo della misura di prevenzione, evidenziando come, in caso di mutate condizioni tra i due momenti, fosse sempre possibile chiedere la revoca della misura. Nell’arresto Gattuso, invece, la Cassazione aveva affermato la necessità di accertare il requisito dell’attualità della pericolosità del proposto anche nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni mafiose.

[28] Le Sezioni Unite richiamano in particolare la sentenza Labita c. Italia, nella quale la Corte EDU aveva riconosciuto una violazione dell’art. 2 Prot. 4 CEDU rispetto all’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di un soggetto che, sebbene coniugato con la sorella di un pericoloso boss mafioso, non presentava precedenti ed era stato prosciolto dal reato di associazione di tipo mafioso e, dunque, difettava del requisito dell’attualità della pericolosità.

[29] Trib. Oristano, ord. 14 dicembre 2022, § II.

[30] Ibidem.

[31] In particolare, il riferimento è a Cass., sez. VI, 7 luglio (dep. 9 luglio) 2020, n. 20577, Mariniello, e a Cass., sez. II, 14 gennaio (dep. 3 marzo) 2020, n. 8541, Capizzi.

[32] Trib. Oristano, ord. 14 dicembre 2022, § III.

[33] Ibidem.

[34] Ibidem.

[35] In tal senso, da ultimo, C. cost., sent. 24 gennaio-27 febbraio 2019, n. 24.

[36] Trib. Oristano, ord. 14 dicembre 2022, § III.

[37] Ibidem.