Cass., Sez. un., sent. 16 luglio 2020 (dep. 23.10.2020), n. 29541, Pres. Fumu, rel. Beltrani, ric. Filardo e a.
1. Come già segnalato su questa Rivista, con sentenza depositata lo scorso 23 ottobre le Sezioni Unite hanno affrontato alcune controverse questioni interpretative concernenti il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone di cui all’art. 393 c.p., relative, in particolare, alla configurabilità del concorso del terzo quale esecutore materiale della condotta criminosa e ai rapporti con il delitto di estorsione.
Rispondendo ai quesiti del giudice rimettente, la cui ordinanza è già stata oggetto di commento in questa Rivista[1], la pronuncia in esame afferma che:
a) i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392, 393 c.p.) sono reati propri, ma non reati propri c.d. esclusivi o di mano propria;
b) la differenza tra il delitto di cui all’art. 393 e il delitto di estorsione va rintracciata sul piano dell’elemento psicologico;
c) perché sia configurabile il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è necessario che questi si limiti a contribuire alla realizzazione della pretesa del soggetto qualificato, senza perseguire alcun interesse proprio.
2. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di cassazione concerneva la condanna di tre soggetti per il delitto di tentata estorsione aggravata perché commessa da più persone riunite e con metodo mafioso. Tra i motivi di ricorso, gli imputati lamentavano la mancata qualificazione giuridica dei fatti ai sensi dell’art. 393 c.p., considerato che uno di essi vantava nei confronti delle persone offese una pretesa giuridicamente tutelata e che le condotte minacciose poste in essere erano direttamente finalizzate al conseguimento di tale pretesa.
La Seconda Sezione della Suprema Corte, rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi intorno all’esatta definizione dei confini tra le fattispecie criminose in gioco e ai limiti entro cui poteva ammettersi il concorso del terzo nel delitto di cui all’art. 393 c.p., decideva di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite.
2.1. Con riferimento al primo profilo controverso, il rimettente rilevava l’esistenza presso la Corte di legittimità di due orientamenti contrastanti. Secondo la tesi tradizionale, in passato maggioritaria in giurisprudenza e tuttora accolta dalla dottrina prevalente, la differenza tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona dovrebbe apprezzarsi sul piano dell’elemento soggettivo: il delitto di cui all’art. 393 c.p., cioè, sussisterebbe ogniqualvolta le condotte di violenza o minaccia siano poste in essere al fine di esercitare un preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza[2]. In tempi più recenti, tuttavia, ha visto la luce un indirizzo diverso, che al contrario àncora il discrimen tra i richiamati reati all’elemento oggettivo delle fattispecie e, nello specifico, all’entità della violenza o della minaccia esercitate; più precisamente, secondo questa seconda tesi ogni manifestazione intimidatoria che appaia per gravità sproporzionata o gratuita rispetto alla finalità dell’agente di far valere il proprio preteso diritto si tradurrebbe automaticamente in una coartazione dell’altrui volontà finalizzata a conseguire un profitto ingiusto, così integrando il più grave delitto di estorsione[3].
All’interno di ciascuno di questi due macro-indirizzi si sono peraltro sviluppate delle ulteriori varianti interpretative. Secondo un filone più recente riconducibile alla tesi oggettivistica, la differenza tra i due reati in esame risiederebbe non tanto nell’intensità della condotta, quanto nell’effetto di coazione della vittima, che solo nel delitto di estorsione costituisce evento del reato[4]. Una variante della tesi soggettivistica, invece, finisce con assegnare a sua volta rilevanza all’entità della violenza o della minaccia in concreto esercitate, considerando la particolare gravità della condotta violenta o minacciosa quale elemento sintomatico della volontà di eccedere la legittima pretesa e, quindi, del dolo di estorsione[5].
2.2. Per quanto attiene al tema del concorso dell’extraneus, la Seconda Sezione della cassazione osservava come, secondo l’orientamento prevalente, il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dovesse qualificarsi come reato proprio c.d. esclusivo o “di mano propria”, con la conseguenza che la condotta violenta o minacciosa dovrebbe necessariamente essere posta in essere dal soggetto qualificato, ossia dal titolare della pretesa astrattamente tutelabile[6]. Il delitto di estorsione troverebbe dunque applicazione ogniqualvolta autore della condotta tipica sia un soggetto terzo, benché su mandato del soggetto qualificato. Lo stesso giudice rimettente dimostrava però di dubitare della correttezza dell’inquadramento del delitto di cui all’art. 393 c.p. tra i reati propri, rilevando come l’utilizzo del pronome “chiunque” sembrerebbe piuttosto deporre nel senso di una qualifica in termini di reato comune.
In base a un diverso orientamento, il concorso dell’estraneo quale esecutore materiale del delitto di cui all’art. 393 c.p. sarebbe invece configurabile a condizione che questi agisca con il solo intento di conseguire quanto preteso dal soggetto qualificato, mentre qualora costui fosse portatore di un interesse proprio – per esempio perché remunerato dal legittimato – sussisterebbe la volontà di realizzare un ingiusto profitto che caratterizza il delitto di estorsione[7].
3. Tra le differenti questioni loro sottoposte, le Sezioni Unite muovono da quella concernente l’individuazione del soggetto attivo nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Esse, anzitutto, rigettano la tesi – maggioritaria nella dottrina più risalente e avanzata anche nell’ordinanza di rimessione – secondo cui i delitti di cui agli artt. 392 e 393 c.p. andrebbero considerati reati comuni. Le due fattispecie, al contrario, si caratterizzano come ipotesi speciali di danneggiamento, nell’un caso, e violenza privata, nell’altro, che il legislatore ha ritenuto meritevoli di un trattamento differenziato in quanto «il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena»[8]. “Legittimati al delitto”, pertanto, sono solamente i soggetti titolari di un preteso diritto, astrattamente tutelabile di fronte a un giudice: ne consegue che soggetto attivo ai sensi delle norme incriminatrici può essere esclusivamente “chiunque” appartenga a una categoria ben circoscritta di persone, quella di coloro che avrebbero la facoltà di ricorrere al giudice per esercitare un preteso diritto.
In quanto reati propri, i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non possono sussistere in quei casi in cui le condotte sanzionate siano poste in essere da parte di un soggetto terzo rispetto al titolare della pretesa legittima senza il coinvolgimento di quest’ultimo; il terzo che si attivi quale negotiourum gestor prescindendo da un’intesa con il titolare del diritto, infatti, a giudizio delle Sezioni Unite non appare meritevole del trattamento di favore previsto dalla norme in esame, il quale trova giustificazioni nei soli casi in cui il fatto delittuoso si consumi tra il presunto creditore e il presunto debitore.
Non condivisibile, però, è l’orientamento secondo cui i reati in questione sarebbero reati propri esclusivi o “di mano propria”; tale qualifica, infatti, fa leva sul tenore letterale delle norme incriminatrici, che richiede che l’agente si faccia arbitrariamente ragione “da sé medesimo”. Tale espressione, tuttavia, secondo le Sezioni Unite non assume il significato di escludere espressamente che esecutore materiale del reato possa essere un soggetto diverso dal titolare della pretesa, ma – come evidenziano i lavori preparatori del codice penale – esprime unicamente «la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste» e pertanto riveste carattere pleonastico rispetto all’avverbio “arbitrariamente”. Il concorso dell’extraneus nei reati propri di cui agli artt. 392 e 393 c.p., conseguentemente, appare astrattamente configurabile anche nei casi in cui la condotta tipica sia realizzata dal terzo su mandato del titolare della pretesa azionabile in giudizio.
4. Chiarito questo aspetto preliminare, le Sezioni Unite passano ad esaminare il profilo relativo ai rapporti tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alla persona e il delitto di estorsione.
4.1. Come già anticipato, tra le diverse tesi antagoniste sopra brevemente richiamate i giudici di legittimità ritengono corretta quella che differenzia le due fattispecie criminose in ordine all’elemento psicologico del reato: nel delitto di cui all’art. 393 c.p., infatti, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione in astratto ragionevole e non arbitraria, anche se in concreto infondata, di esercitare un proprio diritto; nel delitto di estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. Trattasi pertanto di due fattispecie alternative, rispetto alle quali – contrariamente a quanto in ipotesi prospettato dal giudice rimettente[9] – non può sussistere alcuno spazio per ipotesi di concorso formale.
L’espressa adesione all’orientamento soggettivista da parte delle Sezioni Unite si coniuga, nondimeno, con l’ammissione che anche la materialità dei fatti di reato in esame non appare di per sé interamente sovrapponibile, in quanto soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di costrizione della vittima quale conseguenza della condotta di violenza o minaccia, elemento costitutivo comune a entrambi i reati. La valenza di tale disomogeneità strutturale, tuttavia, secondo la Corte «può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia mira ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile»[10].
Decisivo nel senso di escludere la praticabilità della tesi oggettivistica è, a giudizio della Suprema Corte, il rilievo concernente l’esistenza dell’aggravante di cui all’art. 393 c. 3 c.p., applicabile qualora la violenza o la minaccia siano commesse con armi: è lo stesso legislatore, difatti, a prevedere la qualificazione in termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche rispetto a condotte violente o minacciose caratterizzate da una particolare gravità, di per sé “costrittiva” o comunque “sproporzionata” rispetto al fine perseguito. Le norme incriminatrici in questione, del resto, non contengono alcun riferimento a una necessaria gradazione delle modalità espressive della condotta, distinguendosi, piuttosto, in ordine al finalismo della medesima; il livello offensivo della coercizione, pertanto, appare suscettibile di incidere unicamente sulla commisurazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto[11].
4.2. Perché sussista il delitto di cui all’art. 393 c.p., precisano le Sezioni Unite, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata dall’ordinamento e non eccedere quest’ultima, considerato che ciò che caratterizza il reato è l’usurpazione da parte del privato del monopolio nella risoluzione dei conflitti spettante allo Stato. Come già da tempo riconosciuto nella giurisprudenza di legittimità, non è necessario che si tratti di pretesa in concreto fondata, esulando tale accertamento dai compiti del giudice penale, ma deve trattarsi di una pretesa non arbitraria, ossia non del tutto sfornita di una possibile base legale, che l’agente possa ragionevolmente ritenere legittima.
In base a tali principi, i giudici di legittimità considerano ormai superato o comunque non condivisibile l’orientamento, fatto proprio in alcune occasioni dalla Corte di cassazione, in base al quale la violenza o la minaccia potrebbe essere indifferentemente rivolta nei confronti del presunto debitore o di soggetti terzi, quali ad esempio suoi familiari: l’esercizio della pretesa con violenza o minaccia nei confronti di un soggetto del tutto estraneo rispetto al rapporto obbligatorio invocato, al fine di costringere il debitore ad adempiere, appare infatti incompatibile con il delitto in esame, in quanto nessuna tutela potrebbe essere attribuita dall’ordinamento a una richiesta di pagamento rivolta nei confronti di un soggetto del tutto avulso dal presunto rapporto contrattuale.
4.3. La valorizzazione dell’elemento psicologico del reato quale elemento discretivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rispetto all’estorsione rischierebbe di rendere incerti i confini tra le due fattispecie criminose, qualora si pretendesse di indagare il solo atteggiamento interiore dell’agente; per questo motivo, le Sezioni Unite rammentano che l’elemento soggettivo deve sempre essere provato secondo le ordinarie regole probatorie, desumendolo da dati esteriori. Tra gli elementi esterni che a loro giudizio possono acquisire rilevanza in sede di prova del dolo, tuttavia, esse tornano ad attribuire rilevanza all’entità della violenza o della minaccia in concreto esercitate dall’agente: nonostante le premesse di cui sopra, infatti, i giudici di legittimità sostengono che «alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà (…) riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione»[12].
Attraverso quest’affermazione, le Sezioni Unite sembrerebbero pertanto aderire a quel particolare filone dell’orientamento soggettivistico – di cui si è già dato atto supra – che, di fatto, riassegna rilievo decisivo all’elemento materiale, considerando la particolare gravità della condotta violenta o minacciosa quale elemento sintomatico della volontà di realizzare un profitto ingiusto. La pronuncia in commento, infatti, prosegue richiamando un precedente recente in cui la Suprema Corte ha riscontrato il delitto di estorsione aggravata dal metodo mafioso, osservando che in quel caso il dolo di estorsione appariva desumibile proprio dell’attuazione della pretesa in forme che richiamavano alla mente del soggetto passivo il potere di intimidazione dell’associazione criminale e «il rischio di cagionare al debitore danni sproporzionati rispetto all’entità del debito, senz’altro esorbitanti rispetto al fine di ottenere il pagamento del credito e idonei ad annichilire le capacità di reazione della persona offesa»[13].
5. Definita anche tale seconda questione, le Sezioni Unite tornano dunque sul problema del concorso dell’estraneo nel reato proprio di cui all’art. 393 c.p.
Pur avendo preliminarmente ammesso l’astratta possibilità che la condotta tipica del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia realizzata da un soggetto terzo rispetto al titolare della pretesa legittima, le considerazioni svolte fino a questo punto le inducono a condividere la tesi secondo cui ciò è possibile solo in quei casi in cui l’extraneus abbia commesso il fatto per conto del soggetto attivo al mero fine di realizzare la di lui pretesa, senza perseguire alcun interesse proprio: in caso contrario in capo al terzo sussisterebbe, infatti, la volontà di realizzare un ingiusto profitto, integrante il dolo di estorsione. Anche con riferimento alla posizione del terzo, dunque, rilevanza centrale è attribuita all’atteggiamento psicologico dell’agente, e in particolare al fatto che l’estraneo possa essere considerato quale trasparente strumento ausiliario rispetto all’interesse del titolare della pretesa esercitata o, al contrario, sia portatore di un interesse ulteriore.
Tanto con riferimento al caso in cui il terzo ponga in essere la condotta tipica, quanto nel caso in cui egli sia mero concorrente nel reato, sottolineano le Sezioni Unite, qualora costui persegua anche o esclusivamente un interesse personale – per esempio perché remunerato per il proprio servizio o in vista di altri vantaggi anche non patrimoniali – tutti i partecipanti nella condotta delittuosa risponderanno pertanto a titolo di concorso nel reato di estorsione, compreso il presunto creditore.
6. Queste osservazioni consentono alla Suprema Corte di trarre alcune conclusioni anche con riferimento all’applicabilità al delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dell’aggravante del metodo o della finalità mafiose di cui all’attuale art. 416-bis.1 c.p. (ex art. 7 d.l. 152/1991). Difatti, mentre l’utilizzo del metodo mafioso a giudizio delle Sezioni Unite non appare strutturalmente incompatibile con la fattispecie di cui all’art. 393 c.p., proprio perché l’elemento oggettivo del reato non contiene alcuna graduazione in ordine alla gravità della modalità della condotta, in presenza della circostanza aggravante della c.d. finalità mafiosa la fattispecie configurabile sarebbe sempre e comunque quella di cui all’art. 629 c.p., riscontrandosi in tal caso una volontà di profitto estranea alla mera soddisfazione della pretesa arbitrariamente esercitata.
7. In conclusione, alla luce dei principi di diritto stabiliti, le Sezioni Unite respingono i motivi di ricorso sollevati nel caso di specie, considerando infondata la doglianza relativa alla qualificazione giuridica dei fatti in termini di tentata estorsione piuttosto che ai sensi dell’art. 393 c.p. La vicenda, che riguardava le minacce rivolte dagli imputati nei confronti di alcuni imprenditori al fine di ottenere l’adempimento di un contratto di permuta sottoscritto con uno di loro, la cui esecuzione era stata interrotta a causa di un contenzioso civile sorto in merito al bene oggetto del contratto, secondo le Sezioni Unite era stata infatti correttamente qualificata ai sensi dell’art. 629 c.p.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, infatti, la pretesa all’esecuzione del contratto era in tal caso del tutto illegittima e non astrattamente tutelabile di fronte all’autorità giudiziaria, potendo le persone offese opporre una valida eccezione di inadempimento. A tale rilievo, di per sé assorbente, per i giudici di legittimità può altresì aggiungersi il riscontro in capo a uno dei concorrenti nel reato di un interesse proprio, in particolare dell’interesse a ottenere a propria volta il soddisfacimento di un credito vantato nei confronti del coimputato titolare della pretesa all’esecuzione del contratto.
* * *
8. I principi di diritto stabiliti dalle Sezioni Unite nella pronuncia esaminata mirano a porsi come nuovi punti fermi per il giudice che sia chiamato a interrogarsi sull’applicabilità della controversa fattispecie di cui all’art. 393 c.p., i cui confini con il delitto di estorsione sono stati per troppo tempo segnati dalla più seria incertezza, a dispetto della significativa differenza che intercorre tra le due figure criminose a livello sanzionatorio.
Ciò nondimeno, ci sembra che in punto di distinzione tra le due fattispecie delittuose persistano tuttora alcune ambiguità nel ragionamento della Cassazione che, a nostro giudizio, rischiano di non rendere l’intervento del massimo organo di nomofiliachia del nostro ordinamento pienamente risolutivo.
9. È sicuramente condivisibile, ci pare, la scelta delle Sezioni Unite di negare l’adesione a quella teoria oggettivistica che àncora la differenza tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alla persona e di estorsione alla gravità della condotta violenta o minacciosa posta in essere. Correttamente, infatti, si è messo in luce come alla fattispecie di cui all’art. 393 c.p. sia estranea una qualsiasi “soglia di gravità” in ordine alla violenza o della minaccia esercitate dall’autore del reato, poiché ciò a cui la norma attribuisce rilievo è solamente la funzionalità di tali condotte rispetto all’esercizio arbitrario di un preteso diritto.
Non altrettanto netta è, a dire il vero, la posizione delle Sezioni Unite con riferimento all’orientamento – sempre di stampo oggettivista – che fa leva sull’effetto di coazione conseguente alla condotta di violenza e minaccia, secondo tale tesi prerogativa del solo delitto di estorsione. La pronuncia in esame, infatti, riconosce a sua volta la “non piena sovrapponibilità” dell’elemento materiale dei reati in questione con riferimento all’effetto costrittivo della condotta, presente a livello strutturale nel solo delitto di cui all’art. 629 c.p., ma considera tale differenza «consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente». Meno controverso sarebbe stato, a nostro modesto parere, ammettere espressamente che anche all’interno del reato di cui all’art. 393 c.p. – la cui peculiare condotta-evento è descritta dal legislatore con l’indeterminata espressione “farsi giustizia arbitrariamente da sé medesimo” – la violenza o la minaccia esercitate dall’agente determinano la coazione del soggetto passivo, quantomeno quando la soddisfazione del preteso diritto richieda la cooperazione del presunto debitore[14].
10. Oltre a ciò, desta particolari perplessità l’affermazione delle Sezioni Unite secondo cui la particolare veemenza della violenza o minaccia esercitate dall’agente potrebbe essere comunque valorizzata in punto di prova del dolo di estorsione, qualora essa appaia sproporzionata rispetto al soddisfacimento della sua pretesa.
È evidente che tale argomento rischia, di fatto, di vanificare la scelta interpretativa delle medesime Sezioni Unite volta a conferire centralità all’esercizio da parte dell’autore del reato di una pretesa considerata legittima o, al contrario, alla volontà di ottenere dalla vittima un ingiusto profitto. Secondo quest’impostazione, invero, il giudice penale potrebbe ritenere provato il dolo di estorsione in tutti i casi in cui la condotta violenta o minacciosa, benché univocamente diretta al soddisfacimento di un presunto diritto dell’agente, risulti tanto intensa da apparire “sproporzionata” rispetto a quest’ultimo, così trascurando di considerare che l’art. 393 c.p. non appare in alcun modo subordinato alla prova di un rapporto di proporzione tra contenuto della pretesa e gravità della violenza o della minaccia in concreto esercitate. Maggiormente corretto, dunque, ci pare sostenere – come peraltro fatto dalle stesse Sezioni Unite, non senza alcune contraddizioni[15] – che l’entità dell’offesa dovrebbe incidere unicamente sulla quantificazione della pena, ma non sulla qualificazione giuridica dei fatti (aggiungeremmo: né direttamente, quale non codificato elemento oggettivo, né indirettamente, in punto di prova dell’elemento soggettivo).
11. A nostro parere, il superamento di tale contraddizione presupporrebbe anzitutto una rilettura del principio di diritto stabilito dalla Suprema Corte secondo cui la differenza tra i delitti qui in rilievo risiederebbe nell’elemento psicologico del reato. Tale asserzione, invero, ci pare incompleta, in quanto non considera che, se è vero che il fine di esercitare un preteso diritto sicuramente caratterizza l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 393 c.p., l’esistenza di una pretesa astrattamente tutelabile, che deve preesistere rispetto alla condotta delittuosa, caratterizza piuttosto l’elemento oggettivo della fattispecie. Prima ancora che rispetto all’atteggiamento psicologico dell’agente, dunque, i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione si distinguono – come del resto può leggersi nella stessa pronuncia in commento – «in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta», requisito che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare[16].
Anche a voler aderire all’impostazione fatta propria dalle Sezioni Unite, comunque, ci sembra che una maggiore chiarezza interpretativa deriverebbe dal riconoscere che gli elementi esteriori dai quali desumere la prova del dolo di estorsione dovranno attenere non tanto alla gravità della condotta, quanto piuttosto al contenuto della pretesa in concreto esercitata dall’agente: saranno infatti la dinamica dei fatti di specie, le parole in concreto profferite dall’autore del reato, la sua comunicazione verbale e non verbale a permetterci di capire se la violenza o minaccia poste in essere erano meramente funzionali a perseguire una pretesa ragionevolmente ritenuta legittima o, al contrario, una pretesa non tutelabile in via giudiziaria e perciò ingiusta. Nel primo caso si rientrerà senz’altro nel campo di applicazione dell’art. 393 c.p., persino quando la violenza o la minaccia esercitate possano apparire particolarmente gravi o sproporzionate, mentre solo nel secondo caso dovrà ritenersi sussistente il delitto di estorsione.
12. Da ultimo, anche la scelta di subordinare la configurabilità del concorso dell’extraneus nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni all’assenza di un interesse proprio in capo a quest’ultimo non ci sembra esente da critiche.
Tale soluzione interpretativa, invero, consegue alla particolare pregnanza attribuita dalle Sezioni Unite all’elemento soggettivo all’interno del reato di cui all’art. 393 c.p.; ci sorge tuttavia il dubbio che l’enfasi riposta sull’atteggiamento psicologico del reo non debba essere ritenuta eccessiva, a fronte di fatti in cui la violenza o la minaccia esercitate in concorso da più persone appaiano esclusivamente funzionali a perseguire una pretesa astrattamente legittima e non mirino a conseguire dall’offeso alcun ingiusto profitto ulteriore. Aderendo strettamente al principio di diritto delle Sezioni Unite, difatti, qualsiasi interesse personale perseguito anche solo da uno dei concorrenti, anche di carattere non patrimoniale e solo indirettamente correlato al fatto di reato[17], costituirebbe ingiusto profitto ai sensi dell’art. 629 c.p. e determinerebbe la punibilità a titolo del ben più grave delitto di estorsione di tutti i partecipanti al reato. Non è da escludersi, peraltro, che alcuni di costoro possano negare di aver avuto consapevolezza della sussistenza di tale interesse autonomo in capo al concorrente, con conseguente applicabilità della disciplina di cui all’art. 116 c.p., problematica non presa in considerazione da parte delle Sezioni Unite.
[1] Si rimanda, in particolare, a S. Bernardi, Alle Sezioni Unite il compito di chiarire il confine tra i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, in questa Rivista, 28 marzo 2020.
[2] Tra le sentenze più risalenti possono richiamarsi Cass. pen., 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. pen., 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679. Più di recente, Cass. pen., Sez. II, 22 novembre 2018, n. 56400, Iannuzzi; Cass. pen., Sez. I, 20 luglio 2017, n. 6968, Rottino; Cass. pen., 20 dicembre 2016, n. 1901, Di Giovanni; Cass. pen., Sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa; cfr. anche Cass. pen., Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51433, Fusco, rispetto alla quale può rimandarsi al commento di C. Ubiali, Sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale, in Dir. pen. cont., 13 febbraio 2014.
[3] Così, tra le altre, Cass. pen., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 35563, Russo; Cass. pen., Sez. II, 8 giugno 2017, n. 33712, Michelini; Cass. pen., Sez. VI, 7 dicembre 2017, n. 11823, Maisto; Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 2015, n. 1921, li; Cass. pen., Sez. II, 8 ottobre 2015, n. 44657, Lupo; a inaugurare questo orientamento, Cass. pen., Sez. I, 2 dicembre 2003, n. 10336, Preziosi.
[4] Cass. pen., Sez. II, 4 luglio 2018, n. 36928, Maspero; Cass. pen., Sez. II, 3 luglio 2018, n. 55137, Arcifa; Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 11453, Guarnieri.
[5] Cass. pen., Sez. II, 22 novembre 2018, n. 56400, Iannuzzi; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 28 giugno 2016 (dep. 3 novembre 2016), n. 46288, Musa e a.; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 3 luglio 2015 (dep. 4 novembre 2015), n. 44476, Brudetti; Cass. pen., Sez. V, sentenza del 6 marzo 2013 (dep. 3 maggio 2013), n. 19230, Palazzotto.
[6] Così Cass. pen., Sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa; Cass. pen., Sez. II, 4 luglio 2018, n. 36928, Maspero; Cass. pen., Sez. II, 3 luglio 2018, n. 55137, Arcifa; Cass. pen., Sez. II, 6 dicembre 2017, n. 5090, Sako.
[7] Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 11453, Guarnieri; Cass. pen., Sez. II, 27 aprile 2016, n. 41433, Bifulco. In passato, in questo senso Cass. pen., Sez. II, 2 ottobre 1985, n. 11282, Conforti.
[8] Cfr. p. 12 della sentenza in commento.
[9] Cfr. Cass. pen., Sez. II, ord. 25 settembre 2019, n. 50696, pp. 13-14, in cui la Seconda Sezione della Cassazione, ritenendo che le fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 c.p. si trovassero tra di loro in rapporto di specialità bilaterale o reciproca, osservava che valorizzare la differenza dei beni giuridici tutelati avrebbe potuto persino condurre a ipotizzare la sussistenza di un concorso formale di reati.
[10] Cfr. p. 19 della sentenza in commento.
[11] In questi termini già Cass. pen., Sez. VI, 12 giugno 2014, n. 45064, Sevdari.
[12] Cfr. p. 23 della sentenza in commento.
[13] Cfr. pp. 24-25 della sentenza in commento, in cui viene richiamata Cass. pen., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 35563, Russo.
[14] Avevamo del resto già svolto simili considerazioni in S. Bernardi, Alle Sezioni Unite il compito di chiarire il confine tra i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, in questa Rivista, 28 marzo 2020.
[15] Cfr. p 21 della sentenza in commento.
[16] Cfr. p. 22 della sentenza in commento, in cui le Sezioni Unite riportano una citazione letterale tratta da Cass. pen., Sez. II, 10 novembre 2016, n. 52525, D.V.
[17] Come del resto nel caso di specie, in cui l’interesse autonomo del terzo risiedeva nella mera esigenza che il concorrente titolare della pretesa adempisse a un preesistente debito nei suoi confronti e non si è minimamente riflesso nel contenuto della pretesa esercitata con violenza o minaccia nei confronti dell’offeso.