Trib. Brescia, Sez. II pen., sent. 8 luglio 2019 (dep. 5 ottobre 2019), n. 2648, Giud. Gaboardi
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, il Tribunale di Brescia si è pronunciato in relazione ad alcuni episodi di “picchettaggio” di carattere sindacale, contestati a lavoratori scioperanti e ad altri partecipanti a manifestazioni a titolo di violenza privata.
La pronuncia è interessante in quanto rappresenta – a nostro giudizio – un esempio virtuoso di interpretazione del delitto di cui all’art. 610 c.p., avendo il giudice di primo grado adottato una nozione restrittiva di violenza che, correttamente, lo ha condotto ad assolvere gli imputati da tali ipotesi di reato con formula piena.
2. Per comprendere le ragioni e l’importanza della pronuncia assolutoria in commento appare anzitutto necessario prendere brevemente in esame i fatti del caso di specie.
Imputate nel giudizio in questione erano trentasei persone, le quali, tra l’ottobre 2015 e il gennaio 2016, avevano partecipato a due distinte manifestazioni organizzate in occasione di due scioperi indetti da una associazione sindacaletra i lavoratori dipendenti della cooperativa cui erano appaltati i servizi di pulizia e facchinaggio presso il polo logistico di una nota catena di supermercati. Tali scioperi, come emerso dall’istruttoria dibattimentale, si inserivano in un contesto di rapporti aziendali particolarmente tesi: i lavoratori interessati, infatti, avevano visto avvicendarsi nell’appalto ben tre diverse cooperative nel giro di pochi anni, subendo in occasione di ciascuna riassunzione l’applicazione di condizioni peggiorative da parte del soggetto subentrante.
Siffatta situazione già nel settembre del 2015 aveva dato adito a una vertenza sindacale, durante la quale i lavoratori si erano mobilitati attraverso un primo sit-in di protesta davanti al polo logistico ove operavano; circa un mese dopo aveva luogo il primo degli episodi oggetto di contestazione da parte della Procura di Brescia: per la durata di un’intera giornata lavorativa un presidio composto da circa trenta-cinquanta persone tra lavoratori scioperanti e sostenitori esterni (appartenenti a gruppi “antagonisti”) occupava l’ingresso del polo logistico, impedendo con la propria presenza fisica l’entrata e l’uscita degli autocarri impegnati nel trasporto delle merci destinate alla distribuzione presso la rete dei supermercati di cui si trattava. Una manifestazione del medesimo tipo veniva poi indetta nel gennaio del 2016, stavolta protraendosi ininterrottamente per tre giorni, fino a che le forze dell’ordine intervenivano a sciogliere il presidio e a ristabilire la circolazione delle merci.
Nella pronuncia in commento viene chiaramente messo in luce che in entrambe le occasioni tutti i manifestanti si erano limitati a un ostruzionismo “passivo” delle attività dello stabilimento, senza mai impiegare violenza fisica o minaccia nei confronti né dei trasportatori, né degli altri lavoratori, né delle forze dell’ordine intervenute nello sgombero; anche in quest’ultima occasione, infatti, i manifestanti avevano semplicemente opposto una resistenza passiva, ricompattandosi tra di loro e avvinghiandosi l’uno all’altro con braccia e gambe, sicché gli operatori di polizia avevano dovuto procedere a “disarcionarli” dai vicini sollevandoli di peso, fino a che il presidio non si era sciolto spontaneamente. Durante ambedue le manifestazioni, inoltre, i manifestanti avevano precluso il passaggio solo alle merci e agli automezzi, lasciando invece le persone libere di attraversare i cancelli dello stabilimento.
3. A giudizio del pubblico ministero, tali condotte integravano una pluralità di reati. Anzitutto, con riguardo a entrambe le manifestazioni veniva riconosciuto in capo a due degli imputati (appartenenti al SI COBAS) il reato di cui all’art. 18 r.d. 18 giugno 1931, n. 773, per avere in concorso tra loro promosso una riunione in luogo pubblico omettendo di darne avviso al Questore; a tutti i partecipanti ai presidi sindacali, poi, veniva contestato – in tre distinti capi di imputazione, relativi ai fatti del 5 ottobre 2015, del 5 gennaio 2016 e dell’8 gennaio 2016, benché questi ultimi due episodi fossero in realtà riferibili a un’unica manifestazione protrattasi per tre giorni – il delitto di violenza privata, «perché, in concorso tra loro, con violenza consistita nell’ostruire con le proprie persone gli accessi dei cancelli carrai del polo logistico (…) impedivano l’entrata e l’uscita dagli stessi dei mezzi destinati alla consegna delle merci, così ostacolando lo svolgimento della normale attività lavorativa»; infine, oggetto di contestazione nei confronti di alcuni dei manifestanti era anche il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p., per essersi opposti alle operazioni delle forze dell’ordine volte a sciogliere il presidio.
Il Tribunale di Brescia, nondimeno, assolve tutti gli imputati da tutti i reati ascritti, con motivazioni che vale la pena ripercorrere nel dettaglio.
4. In primo luogo, con riguardo al delitto di resistenza a pubblico ufficiale il Tribunale aderisce alle conclusioni dello stesso pubblico ministero, il quale al termine dell’istruttoria dibattimentale aveva richiesto l’assoluzione per insussistenza del fatto, ritenendo che nel caso di specie l’opposizione all’operato delle forze dell’ordine fosse avvenuta senza l’utilizzo di condotte violente o minacciose.
Il Tribunale richiama in proposito la giurisprudenza della Corte di cassazione, che pacificamente esclude la sussistenza del delitto in questione nei casi di mera resistenza passiva, quale l’inerzia, la mancata collaborazione con gli operanti o, più in generale, l’opposizione che comunque non si estrinsechi in forme neanche minime di violenza o intimidazione[1], come per l’appunto avvenuto nel caso di specie.
5. In secondo luogo, il Tribunale prende in esame le accuse a titolo di omesso avviso di pubblica riunione mosse nei confronti dei due promotori delle manifestazioni sindacali. Questa volta il fatto tipico – e, in specie, gli estremi della fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 18 r.d. 18 giugno 1931, n. 773 – sussiste: indiscutibilmente, infatti, le manifestazioni sindacali svoltesi davanti ai cancelli dello stabilimento rivestivano i caratteri di pubblica riunione, con conseguente operatività dell’obbligo di preavviso di almeno tre giorni al Questore previsto dalla legge[2]. Ciò nondimeno, il reato in questione non viene considerato integrato con riguardo al profilo dell’antigiuridicità delle condotte omissive degli imputati, ritenute non punibili ai sensi dell’art. 51 c.p.
Viene messo in luce, in merito, che secondo il concorde orientamento della giurisprudenza giuslavoristica e penalistica la tutela riconosciuta dall’art. 40 della Costituzione al diritto di sciopero si estende a tutte le azioni che, “collaterali” rispetto all’astensione collettiva dei lavoratori, siano strettamente connesse a quest’ultima e siano utili in vista del perseguimento degli scopi degli scioperanti. In questa categoria rientrerebbero azioni come l’affissione di manifesti, la ripetizione di slogan, la formazione di cortei interni all’azienda, i c.d. picchettaggi di persuasione e altre attività volte a sollecitare la partecipazione allo sciopero, così come l’organizzazione di sit-in e presidi in prossimità dell’ingresso dell’azienda, anche su suolo pubblico; ne consegue, dunque, che anche alle manifestazioni sindacali di cui i due imputati si erano fatti promotori va riconosciuta la tutela garantita dall’art. 40 Cost., avendo queste «carattere ancillare e funzionale all’esercizio del diritto di sciopero» dei lavoratori dello stabilimento presso cui si erano svolte[3]. Tutela che, sostiene il giudice di merito, copre – con la rilevante esclusione del settore dei servizi pubblici essenziali – anche i casi in cui il diritto di sciopero sia esercitato “a sorpresa”, poiché la mancanza di preavviso appare addirittura connaturata all’esercizio di tale diritto, risultando spesso indispensabile per assicurare all’iniziativa collettiva dei lavoratori una qualche efficacia nei confronti della controparte datoriale.
Per questo motivo, conclude sul punto il Tribunale, persino l’omissione da parte dei promotori della manifestazione sindacale del preavviso al Questore prescritto dalla legge, punita ai sensi dell’art. 18 r.d. 18 giugno 1931, n. 773, appare scriminata sulla base dell’art. 51 c.p., in quanto a sua volta costituisce atto di esercizio del diritto di sciopero costituzionalmente garantito[4]; ciò, viene tuttavia precisato, a condizione che tra la pubblica riunione e l’esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori sussista un nesso immediato, ciò che non ricorre ad esempio qualora la manifestazione avvenga al di fuori e lontano dal contesto aziendale, per esempio attraverso un corteo stradale[5].
6. Da ultimo, il Tribunale considera le imputazioni a titolo di violenza privata elevate a carico dei manifestanti che avevano posto in essere le condotte di “picchettaggio”. Come chiaramente emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale, indiscutibilmente nel caso di specie potevano rintracciarsi i contorni dell’evento costrittivo descritto dall’art. 610 c.p., integrato dall’impedimento del passaggio degli autotrasportatori attraverso i cancelli dello stabilimento produttivo a opera dei partecipanti ai picchetti; il giudice di merito chiarisce però fin da principio che tale elemento non è da solo sufficiente ai fini della sussistenza del delitto di violenza privata, dovendosi altresì accertare se la costrizione ai danni degli autotrasportatori fosse stata in concreto posta in essere mediante condotte qualificabili in termini di violenza o minaccia.
Secondo quanto prospettato dal pubblico ministero nella formulazione del capo di imputazione, l’elemento della violenza sarebbe stato integrato dalla semplice ostruzione dei cancelli dello stabilimento operata dai manifestanti con la propria presenza fisica; come già osservato in precedenza, invero, nel giudizio in questione non è mai stata in contestazione la commissione di ulteriori condotte violente da parte degli imputati.
La corretta delimitazione del concetto di violenza penalmente rilevante, e con ciò dei margini applicativi del delitto di cui all’art. 610 c.p., è però da tempo oggetto di contrasti interpretativi in dottrina e in giurisprudenza. Come messo in luce dal Tribunale di Brescia, possono in merito rinvenirsi due principali orientamenti confliggenti: secondo un primo indirizzo, la nozione penalistica di violenza rimanderebbe necessariamente a una vis corporis corpori data, ossia a un’esplicazione di energia fisica rivolta verso persone (nella forma “minima” del delitto di percosse di cui all’art. 581 c.p.) o cose (nella forma di cui all’art. 392 c. 2 c.p.)[6]; un secondo orientamento, invece, rinuncia a ricercare una nozione autonoma di violenza valida per tutta la parte speciale del diritto penale e interpreta tale nozione all’interno del delitto di cui all’art. 610 c.p. in modo da ricomprendere ogni condotta capace di produrre l’effetto costrittivo richiesto dalla norma[7].
A parere del giudicante, tuttavia, nessuno di questi due orientamenti può dirsi pienamente soddisfacente. A suo giudizio, invero, mentre il primo orientamento sarebbe eccessivamente formalistico, assegnando rilevanza al solo profilo della forza fisica espletata dall’agente e non a quello degli effetti della condotta sulle entità su cui essa incide, il secondo avrebbe il significativo vizio di estendere impropriamente il campo applicativo del delitto di violenza privata, sostanzialmente sovrapponendo il piano della condotta a quello dell’evento e trasformando il reato in questione da fattispecie a forma vincolata in fattispecie a forma libera. Piuttosto, il Tribunale mette in luce come lo stesso dato normativo – e in particolare l’art. 393 c. 2 c.p., che contiene la definizione legislativa di “violenza sulle cose”, idonea a ricomprendere ogni condotta con cui «la cosa viene danneggiata o trasformata, o né è mutata la destinazione» – lasci intendere come la nozione di violenza rilevante nel sistema penale non possa prescindere dal considerare gli effetti prodotti da tale condotta dal soggetto destinatario; in relazione al concetto di violenza contro la persona, dunque, dovrà essere attribuita rilevanza non tanto all’energia fisica esercitata sul soggetto, quanto al verificarsi di un’intromissione nell’altrui sfera fisica o psichica, mediante manomissione o mera ingerenza da parte dell’agente.
In questo modo, prosegue il Tribunale, la nozione di violenza appare idonea a ricomprendere anche quelle forme di c.d. violenza impropria che prescindono da un’esplicazione di vis materiale sulla persona, ovverosia quelle condotte capaci di incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’individuo in assenza di contatto fisico (le quali sono peraltro espressamente qualificate come “violente” dallo stesso legislatore, all’art. 613 c.p. e all’art. 628 c. 3 n. 2 c.p.). Che il concetto di violenza sia più ampio di quello di violenza fisica, del resto, sarebbe implicitamente attestato anche dall’art. 46 c.p., che utilizza esplicitamente questa seconda espressione più restrittiva.
L’ambito di applicazione del delitto di violenza privata, conseguentemente, deve essere esteso a quei soli casi in cui l’effetto di coazione sia prodotto dall’utilizzo di minaccia, definibile come la prospettazione da parte dell’agente di un male ingiusto, ovvero di violenza, intesa come alterazione materiale o funzionale di beni (sulle cose) o intromissione nell’altrui sfera psico-fisica (sulle persone); importerebbero invece un’illegittima dilatazione applicativa della fattispecie soluzioni ermeneutiche volte ad attribuire rilevanza a “qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della propria libertà di autodeterminazione e di azione”. Le applicazioni giurisprudenziali di tale orientamento estensivo, del resto, come ricorda il Tribunale hanno spesso condotto a esiti palesemente sproporzionati, rintracciando il delitto di violenza privata in fatti scarsamente offensivi, quali il semplice parcheggio in doppia fila o davanti a un passo carraio[8], o ancora la mera chiusura di una stanza dell’appartamento al fine di precludere l’ingresso (nota bene: non l’uscita) del convivente[9].
Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Brescia giunge a escludere la sussistenza del delitto di cui all’art. 610 c.p. nel caso di specie. Essendo chiaramente emerso nel giudizio – come già si è detto – che tutti gli imputati si erano limitati ad assumere un atteggiamento statico di opposizione nel corso di entrambe le manifestazioni, il giudice di merito ritiene impossibile rintracciare gli estremi di una condotta violenta contro cose o persone in tale comportamento meramente “ostruzionistico”: in altre parole, si riconosce che «vi è stata sì costrizione, ma essa è stata realizzata senza l’impiego di alcuna forma di violenza o minaccia», coerentemente con la conclusione già raggiunta in ordine al diverso delitto di resistenza di pubblico ufficiale[10]. La decisione è pertanto del senso dell’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto, così come descritto nel capo di imputazione, non è previsto dalla legge come reato.
7. A chiosa della propria pronuncia, il Tribunale di Brescia ritiene però necessario avanzare alcune precisazioni in ordine alla liceità nel nostro ordinamento di condotte di “picchettaggio non violento” quali quelle poste in essere dagli imputati nel caso di specie.
Viene ricordato, in particolare, che la liceità penale di simili comportamenti non ne esclude comunque l’antigiuridicità, apparendo i medesimi illeciti con riferimento ad altri rami del diritto. La giurisprudenza giuslavoristica è infatti pacifica nel ricondurre nell’alveo del diritto di sciopero tutelato dall’art. 40 Cost. il solo picchettaggio “persuasivo”, vale a dire quello volto a promuovere la partecipazione allo sciopero attraverso condotte propagandistiche (volantinaggio, slogan o altro) in assenza di condotte materialmente ostruttive o impeditive. Il picchettaggio che si attui con modalità coattive, come nel caso del blocco delle merci, esula dunque dalle manifestazioni oggetto di tutela costituzionale, traducendosi in un’illegittima – benché non violenta – compressione delle altrui libertà, quali la libertà di iniziativa economica della controparte contrattuale e il diritto al lavoro degli stessi lavoratori non partecipanti allo sciopero.
I responsabili potranno perciò essere chiamati a rispondere sul piano disciplinare, sul piano civile (a titolo di responsabilità extracontrattuale) o su quello amministrativo (per esempio ai sensi dell’art. 190 cc. 4 e 10 c.d.s., nel caso di blocco di merci commesso sulla pubblica via, ovvero dell’art. 1-bis d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66, in caso di vero e proprio “blocco stradale”); allo stesso modo potrà essere legittimamente disposto l’impiego della forza pubblica, come avvenuto nel caso di specie, per ripristinare il libero transito di merci e persone e con ciò il libero esercizio delle libertà violate.
La responsabilità penale a titolo di violenza privata, tuttavia, a giudizio del Tribunale di Brescia deve essere limitata ai soli casi in cui il costringimento si sia effettivamente estrinsecato in condotte violente o minacciose, nel senso di cui sopra.
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8. La soluzione ermeneutica raggiunta dal Tribunale di Brescia nella pronuncia in commento ci sembra da condividere nel merito. La sentenza, tuttavia, si inserisce in un filone giurisprudenziale che tuttora può ritenersi minoritario: in materia di violenza privata – oltre che con specifico riferimento a quelle condotte di picchettaggio che si concretano nell’ostruzione dell’ingresso ai luoghi di lavoro mediante la frapposizione di “barriere umane” – la giurisprudenza prevalente tende infatti a riconoscere gli estremi della condotta violenta che integra la fattispecie di cui all’art. 610 c.p. prendendo in considerazioni solamente l’effetto costrittivo in concreto prodotto dal comportamento dell’agente.
L’orientamento interpretativo che estende e sostanzialmente “spiritualizza” la nozione di violenza penalmente rilevante appare per la verità ben radicato nella nostra tradizione giuridica e ha per lungo tempo prevalso anche in dottrina. Secondo l’insegnamento di Autori quali il Manzini e l’Antolisei, ad esempio, il concetto di violenza sarebbe di per sé capace di ricomprendere qualsiasi condotta idonea a coartare il soggetto passivo e perciò a ledere la sua libertà di autodeterminazione (ma, al contempo, che non si concreti in una minaccia, nozione da sempre considerata dotata di un significato autonomo)[11]; la coazione, cioè, secondo tale teoria integra e di fatto esaurisce il significato della condotta in questione, spostandone il baricentro sull’effetto prodotto piuttosto che sul mezzo utilizzato dall’agente.
Coerentemente con quest’impostazione, anche la giurisprudenza – a partire dagli anni Settanta e Ottanta – ha sovente riconosciuto gli estremi della condotta violenta, e con ciò del delitto di cui all’art. 610 c.p., nei fatti di picchettaggio c.d. ostruzionistico[12] (salvo in alcuni casi qualificare il comportamento dei partecipanti ai picchetti in termini di minaccia implicita ai danni dei lavoratori dissenzienti[13]). Senza mettere in discussione la tipicità del picchettaggio ai sensi del delitto di violenza privata, parte della giurisprudenza si è piuttosto posta il problema della riconducibilità di tali fatti all’esercizio del diritto di sciopero tutelato dall’art. 40 Cost., cui la Corte di legittimità ha però sempre risolutamente fornito soluzione negativa, facendo leva proprio sul principio – pacifico nella giurisprudenza giuslavoristica, come ricordato anche dalla sentenza in commento – secondo cui il diritto di sciopero trova un preciso limite nella impossibilità di compromettere diritti e libertà di terzi[14].
9. La dottrina più recente ha messo in luce diverse criticità di questo approccio ermeneutico[15]. Come sottolineato anche dal Tribunale di Brescia nella pronuncia in commento, l’orientamento estensivo rinuncia infatti a costruire l’elemento della violenza come specifica modalità della condotta e si limita a definirlo in funzione dell’evento costrittivo, trascurando, tra l’altro, che in diverse fattispecie del nostro codice penale (omicidio, lesioni personali, percosse) la violenza è punita a prescindere dalla costrizione della vittima, comparendo perciò non quale mezzo del reato, ma quale fine; esso, inoltre, appiattendo il requisito della violenza su quello della costrizione, finisce per trasformare il delitto di cui all’art. 610 c.p. da reato a forma vincolata in reato in forma libera, procedendo a un’inammissibile interpretatio abrogans di un elemento della fattispecie penale.
Tale approccio si scontrerebbe, dunque, con il principio di legalità della legge penale e aprirebbe la strada a illegittime applicazioni analogiche della norma incriminatrice, estendendo il campo operativo della tutela penale a fattispecie concrete che, benché possano comunque ritenersi lesive dell’altrui libertà di autodeterminazione individuale, sono nei fatti prive dei requisiti che la legge considera carichi di un disvalore tale da giustificare l’applicazione della sanzione penale.
Al concetto di violenza andrebbe pertanto attribuito un significato restrittivo e autonomo rispetto a quello di coazione; la sentenza in commento compie quest’operazione cogliendo le indicazioni fornite dallo stesso dettato normativo – richiamando, in particolare, l’art. 393 c. 2 c.p., l’art. 613 e l’art. 628 c. 3 n. 2 c.p. – e ponendo l’accento sugli effetti tangibili che la violenza deve produrre sui propri destinatari, a prescindere dal verificarsi di un ulteriore effetto di coazione. La condotta di violenza contro la persona viene in questo modo descritta non tanto in termini di energia fisica esplicata dall’agente nel contatto diretto con il corpo altrui, ma in termini di intromissione coatta nell’altrui sfera fisica o, addirittura, psichica: soluzione ermeneutica che ha certamente il pregio di ricondurre a unità il concetto di violenza in modo da ricomprendere anche quelle condotte che si ripercuotano non sulla fisicità dell’individuo, ma sulla sua capacità di intendere e volere.
Va ricordato, difatti, che ai sensi del richiamato art. 613 c.p. la violenza può essere altresì integrata da «suggestione ipnotica o in veglia, o (…) somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti o (…) qualsiasi altro mezzo» con cui l’individuo venga posto (senza suo consenso) in stato d’incapacità di intendere e di volere; similmente, il citato art. 628 c. 3 n. 2 c.p. specifica che la violenza può consistere «nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire». A ben vedere, però, il riferimento operato da quest’ultima norma alla capacità di agire dell’individuo rischia di comportare alcuni problemi applicativi: inteso in senso lato, in effetti, esso potrebbe persino condurre l’interprete ad avvalorare la tesi per cui la limitazione dell’altrui libertà di autodeterminazione integra di per sé il requisito della violenza, riconvergendo così verso la teoria della coazione. Potrebbe sostenersi, ad esempio, che anche in un episodio di picchettaggio come quello sottoposto all’attenzione del Tribunale di Brescia i soggetti passivi – ossia gli autotrasportatori – siano stati privati della propria capacità di agire, venendo loro preclusa la possibilità di autodeterminarsi liberamente nello svolgimento della loro professione.
Come opportunamente messo in luce in dottrina, nondimeno, l’espressione utilizzata in questo caso dal legislatore andrebbe correttamente riferita non a qualsiasi condotta che impedisca a un altro individuo di attuare liberamente la propria volontà, ma ai soli casi di totale esclusione della capacità di agire della vittima, da intendersi in termini di privazione della sua libertà personale, come avviene nel delitto di sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p.[16]
10. In ragione delle considerazioni appena svolte, ci sembra che la soluzione interpretativa maggiormente rispettosa della volontà della legge sia quella di ritenere integrata la condotta di violenza rilevante ai sensi dell’art. 610 c.p. solo in presenza di un’aggressione, ovverosia di un’offesa, all’altrui integrità fisica o psichica[17] o all’altrui libertà personale, dovendosi invece escludere una responsabilità penale a tale titolo in tutte quelle ipotesi in cui l’agente si sia limitato a ostacolare le altrui scelte d’azione senza però né ledere né porre in pericolo nessuno di questi beni giuridici.
Correttamente, dunque, il Tribunale di Brescia ha ritenuto che i fatti di picchettaggio ostruzionistico – ma non violento – vadano espunti dal campo di applicazione del delitto di violenza privata e siano, perciò, leciti ai fini penalistici. Ci auguriamo che questo orientamento (cui la Corte di cassazione non ha finora mai aderito) possa progressivamente farsi strada nella giurisprudenza, a partire da quella di merito, e che anche i giudici di legittimità possano giungere a correggere un’impostazione che, come opportunamente rilevato nella sentenza in commento, rischia di estendere la tutela penale a casi che appaiono immeritevoli della sanzione di cui all’art. 610 c.p.: dalle forme di (gandhiana) resistenza passiva, al mero parcheggio della macchina dinanzi al cancello altrui.
[1] Viene in particolare richiamata Cass. pen., Sez. VI, sent. 13 gennaio 2015 (dep. 10 febbraio 2015), n. 6069, la quale aveva ritenuto che non integrasse la condotta di violenza sulle cose il «puntare i piedi e le mani sull'auto di servizio per evitare di essere immesso al suo interno e così essere condotto negli uffici di p.s.». La Cassazione ha in alcune occasioni sostenuto che anche il semplice divincolarsi per sottrarsi all’arresto non costituisca reato ai sensi dell’art. 337 c.p., laddove si estrinsechi in una mera resistenza passiva implicante un uso moderato della forza non diretta contro il pubblico ufficiale: così, ad es., Cass. pen., Sez. VI, sent. 6 novembre 2012 (dep. 4 marzo 2013), n. 10136.
[2] Il Tribunale ricorda infatti che il concetto di riunione ai sensi della norma incriminatrice in questione assume lo stesso ampio significato di cui all’art. 17 Cost., ricomprendendo tutti gli assembramenti di individui caratterizzati da un’unità di intenti tra i partecipanti.
[3] Cfr. p. 16 della sentenza in commento.
[4] Il Tribunale ricorda infatti che il diritto di sciopero ex art. 40 Cost. trova limite solo nell’offesa a diritti e libertà altrui; la mera astratta possibilità di un pericolo alla sicurezza pubblica, bene giuridico tutelato dal reato di cui all’art. 18 r.d. 773/1931, non basta, pertanto, a escludere tale diritto: il bene giuridico della pubblica sicurezza «può ragionevolmente limitare “dall’esterno” quest’ultimo – senza annullarlo – solo ove l’astensione collettiva e le azioni a essa sussidiarie si traducano nella lesione o nella concreta messa in pericolo degli interessi individuali (vita, incolumità fisica, libertà personale, ecc.) “raccolti” nella nozione di sicurezza pubblica» (cfr. p. 19 della sentenza in commento).
[5] Cfr. p 19 della sentenza in commento. Il criterio, per la verità, potrebbe apparire discutibile, considerata peraltro l’indeterminatezza del criterio del “nesso d’immediatezza”: nesso che la pronuncia in commento sembrerebbe di per sé escludere anche nel caso in cui la manifestazione avvenga a distanza ma sia comunque univocamente ricollegabile allo sciopero indetto dai lavoratori (si pensi al caso in cui il presidio sia posto in essere dinanzi alla sede del Governo o ad altri luoghi significativi).
[6] Vengono in proposito richiamate, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 610 c.p., Cass. pen., Sez. V, sent. 9 marzo 2010 (dep. 7 giugno 2010), n. 21559; Cass. pen., Sez. VI, sent. 18 novembre 2009 (dep. 18 gennaio 2010), n. 2013; Cass. pen., Sez. I, sent. 19 gennaio 1990, n. 6271; Cass. pen., Sez. V, sent. 24 giugno 1982, n. 8418; Cass. pen., Sez. II, sent. 24 giugno 1968, n. 1676.
[7] Si tratta, in verità, dell’orientamento dominante in giurisprudenza: possono richiamarsi, a titolo d’esempio, Cass. pen., Sez. V, sent. 18 ottobre 2018 (dep. 25 gennaio 2019), n. 3710; Cass. pen., Sez. V, sent. 16 gennaio 2018 (dep. 8 marzo 2018), n. 10498; Cass. pen., Sez. V, sent. 16 ottobre 2017 (dep. 17 gennaio 2018), n. 1913; Cass. pen., Sez. V, sent. 6 giugno 2017 (dep. 5 settembre 2017), n. 40291; Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2017 (20 ottobre 2017), n. 48369; Cass. pen., Sez. V, sent. 23 febbraio 2017 (dep. 7 aprile 2017), n. 17794.
[8] Così ad. es. la già richiamata Cass. pen., Sez. V, sent. 16 ottobre 2017 (dep. 17 gennaio 2018), n. 1913, secondo cui integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio, impedendo l'accesso alla persona offesa; Cass. pen., Sez. V, sent. 23 febbraio 2017 (dep. 7 aprile 2017), n. 17794, secondo cui integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che occupa il parcheggio riservato ad una specifica persona invalida, impedendone l'accesso e, quindi, privandola della libertà di determinazione e di azione; o ancora Cass. pen., Sez. V, sent. 18 novembre 2011 (dep. 12 gennaio 2012), n. 603, per la quale il reato è integrato dalla condotta di colui che consapevolmente parcheggi l'auto in maniera da ostruire l'ingresso al garage condominiale.
[9] Come Cass. pen., Sez. V, sent. 29 settembre 2015 (dep 2 febbraio 2016), n. 4284.
[10] Cfr. p. 27 della sentenza in commento.
[11] Sul punto può rimandarsi alla dettagliata analisi svolta da F. Viganò, La tutela penale della libertà individuale, I, L’offesa mediante violenza, Milano, 2002, p. 1 ss.
[12] Limitandoci alla giurisprudenza di legittimità, cfr. ad esempio Cass. pen., Sez. V, sent. 1 marzo 1979, in Foro it., 1979, II, c. 405 ss., secondo la quale «rispondono del reato di violenza privata gli scioperanti che, attuando il c.d. “picchettaggio”, manifestino la ferma intenzione di impedire a chiunque l’accesso nello stabilimento, avvalendosi, al fine di ostruire materialmente il cancello di ingresso, non solo della barriera formata dai loro corpi (superabile soltanto con la forza), ma anche di un’automobile sistemata in funzione di ostacolo fisso»; e Cass. pen., sent. 27 settembre 1974, in Riv. ita. dir. proc. pen., 1975, p. 667 ss., la quale considera rilevante ai sensi del delitto di violenza privata «qualunque azione valida a porre [la persona offesa] di fronte all’alternativa o di non muoversi o di muoversi col pericolo di menomare l’integrità altrui. Anche dello stesso agente che volontariamente e consapevolmente crea l’ostacolo».
[13] Soluzione che peraltro sembrerebbe prospettata, di recente, da Cass. pen., Sez. V, sent. 18 ottobre 2018 (dep. 25 gennaio 2019), n. 3710, la quale considera che ai sensi del reato di violenza privata «il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, non essendo quindi richiesta una minaccia verbale o esplicita, ma è sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto» (con riferimento a un caso in cui l’agente, nell’ambito di una manifestazione sindacale, aveva impedito con la propria persona l’uscita dallo stabilimento degli automezzi dediti al trasporto delle merci).
[14] Così, di recente, Cass. pen., Sez. V, sent. 18 ottobre 2018 (dep. 25 gennaio 2019), n. 3710; Cass. pen., Sez. V, sent. 16 gennaio 2018 (dep. 8 marzo 2018), n. 10498; Cass. pen., Sez. V, sent. 16 ottobre 2015 (dep. 23 febbraio 2016), n. 7084.
[15] In questo senso cfr. per tutti F. Viganò, La tutela penale della libertà individuale, cit., p. 144 ss.; F. Viganò, sub Art. 610. Violenza privata, in E. Dolcini – G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, Milano, 2015, p. 519.
[16] F. Viganò, La tutela penale della libertà individuale, cit., p. 265 ss.
[17] Si precisa che la violenza si estrinseca come forma di offesa all’altrui integrità psichica, come si è detto, allorché l’agente ponga taluno in stato di incapacità di intendere o volere; si avrà invece minaccia qualora il bene dell’integrità psichica sia offeso mediante prospettazione di un male futuro e ingiusto: sul punto esaustivamente G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, p. 25 ss.