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01 Giugno 2020


Ancora sugli automatismi sanzionatori: la Consulta dichiara parzialmente illegittima la disciplina della sospensione della potestà genitoriale

Corte cost., sent. 29 maggio 2020, n. 102, Pres. Cartabia, Rel. Viganò



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Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una rilevante sentenza della Corte costituzionale riguardo alla pena accessoria della sospensione della potestà genitoriale, considerata nella specifica proiezione dell’art. 574-bis del codice penale.

Con il provvedimento in questione la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo comma della disposizione citata, nella parte in cui prevede(va) che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero comporta (necessariamente) la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre (o non) la sospensione medesima.

Con la stessa sentenza, inoltre, la Corte ha dichiarato inammissibili questioni ulteriori, una delle quali di particolare interesse. Il giudice rimettente (la sesta sezione penale della Corte di cassazione) aveva mirato anche ad una decisione ablativa che travolgesse la disciplina concernente la durata della sospensione, attualmente regolata (ex art. 34 c.p.) da un moltiplicatore fisso della durata della pena principale inflitta (cioè il doppio di quest’ultima). In sostanza, una ulteriore critica degli automatismi introdotti dal legislatore quanto all’applicazione ed all’entità delle sanzioni penali (automatismo qui innestato su una valutazione discrezionale concernente la durata della pena principale).

In ragione delle decisioni assunte, il giudice penale dovrà valutare discrezionalmente se applicare la sospensione della potestà genitoriale, e però, nel caso decida per l’applicazione, dovrà stabilirne la durata in misura invariabilmente ancorata a quella della sanzione principale inflitta.

 

 1. Le norme censurate.

La sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale è una pena accessoria, variabile temporanea della decadenza dalla medesima potestà. Mentre per l’applicazione della decadenza il primo comma dell’art. 34 c.p. compie un rinvio a specifiche previsioni di legge (ad esempio, quelle contenute negli artt. 564 e 569 c.p.), la sospensione è disposta dal giudice in conseguenza d’una qualunque condanna concernente «delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale», ed ha una durata pari «al doppio della pena inflitta» (secondo comma del citato art. 34).

Non mancano per altro previsioni incriminatrici nel cui ambito il legislatore ha prescritto espressamente l’applicazione della sanzione accessoria, come nel caso della norma censurata dal giudice rimettente: a norma del terzo comma dell’art. 574-bis c.p., la sospensione dall'esercizio della responsabilità genitoriale è disposta nei confronti di chiunque abbia sottratto un minore al genitore esercente la responsabilità genitoriale o al tutore, conducendolo o trattenendolo all'estero contro la volontà del medesimo genitore o tutore, ed impedendo in tutto o in parte allo stesso l'esercizio della responsabilità genitoriale; ciò anche nel caso che il minore interessato abbia compiuto i quattordici anni ed abbia prestato il suo consenso alla sottrazione o l’indebito trattenimento all’estero (rispettivamente, primo e secondo comma del citato art. 574-bis).

La pena accessoria va per altro applicata solo quando il soggetto attivo del reato sia un genitore della persona minorenne: in sostanza, il legislatore ha presunto – per i casi del genere – una ricorrenza della ratio puniendi sottesa all’art. 34 c.p., cioè che la condotta sia attuata con abuso della potestà genitoriale (la fattispecie della sottrazione o indebito trattenimento del minore all’estero è stata introdotta nel codice penale dall'art. 3, comma 29, lett. b), della legge 15 luglio 2009, n. 94; il relativo terzo comma è stato modificato dall'art. 93, comma 1, lett. r), del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154).

L’inequivoco tenore letterale della previsione ha orientato gli interpreti nel senso che la sospensione dovesse essere obbligatoriamente disposta dal giudice in caso di condanna per il delitto in questione, quando pronunciata contro un genitore del minore coinvolto.

 

2. I parametri costituzionali e le censure.

I dubbi del giudice a quo circa la compatibilità costituzionale delle norme censurate si sono articolati, nella sostanza, lungo tre diverse direttrici. In primo luogo, l’irrogazione della pena accessoria sarebbe imposta anche quando la sospensione della potestà genitoriale risulti, nel caso concreto, contraria all’interesse preminente del minore. In secondo luogo, il trattamento punitivo ridonderebbe a carico dell’incolpevole persona del minore, privandolo del suo diritto di mantenere relazioni con entrambi i genitori. Infine, l’automatismo denunciato sarebbe comunque incompatibile con la necessità di una valutazione caso per caso dell’adozione di un provvedimento che riguarda direttamente il minore.

In forza di tali caratteristiche, la disciplina de qua violerebbe gli artt. 2, 3, 10, 30 e 31 della Costituzione.

È noto in particolare il principio secondo cui – per tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali – deve adottarsi quale criterio primario la salvaguardia dei “migliori interessi” o dello “interesse superiore” del minore. Come si ricorda dalla stessa Consulta, un siffatto criterio è stato recepito nel diritto positivo convenzionale (ad esempio nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e nell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), ed è profilo qualificante della tutela da apprestare per il diritto alla vita familiare, secondo l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in accordo con ripetute pronunce della Corte di Strasburgo). Proiettato nella dimensione nazionale, il principio è stato valorizzato dalla Corte costituzionale in numerose sentenze, quale concreta implicazione del diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.), e del dovere pubblico di proteggere l’infanzia e la gioventù (art. 31 Cost.).

Riguardo al diritto del minore di intrattenere la relazione parentale con entrambi i genitori,

concorrono (tra le altre) le stesse fonti poco sopra citate (in particolare, l’art. 8, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo; il successivo art. 9, commi 1 e 3; l’art. 24, comma 3, della Carta di Nizza; l’art. 8 della Convenzione edu). Alla luce di parametri sovranazionali siffatti, la Corte di cassazione ha evocato anzitutto, quale base normativa del diritto in questione nell’ordinamento italiano, l’art. 30 Cost., il quale presuppone un diritto del minore ad essere educato, appunto, da entrambi i genitori, salvo che ciò risulti pregiudizievole per i suoi interessi. Inoltre, si comprende il riferimento concorrente all’art. 2 Cost., grazie al quale trovano tutela i diritti fondamentali della persona (tali dovendosi considerare i diritti assicurati ai minori dalle norme costituzionali già citate), nell’ambito di un ordinamento complessivamente improntato al principio personalistico ed alla protezione della persona nel contesto delle formazioni sociali che la comprendono.

Va aggiunto che, tra i parametri nazionali evocati dal giudice rimettente, è incluso anche l’art. 10 Cost.: in sostanza, eludendo gli obblighi internazionalmente assunti di tutela per i diritti del minore, nei casi in cui sarebbe suo interesse proseguire la relazione genitoriale, l'ordinamento giuridico italiano non si sarebbe conformato alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.  

Ancora, quanto al denunciato automatismo della sanzione, è parso ovvio il riferimento all’art. 3 Cost., che impone il diseguale trattamento di situazioni differenti, ed osta, secondo una giurisprudenza costituzionale ormai molto ricca, a meccanismi fondati su logiche presuntive non superabili dal giudice nei casi concreti, neppure quando l’equiparazione di questi al modello considerato dal legislatore risulta manifestamente irragionevole. Sullo stesso versante, nella prospettiva propria del principio di proporzionalità, è stata richiamata anche la necessità di finalizzazione rieducativa della pena, posta dal terzo comma dell’art. 27 Cost. e tendenzialmente assicurata da trattamenti sanzionatori modulati in base alle caratteristiche di ogni caso concreto.

Al proposito va considerata la particolarità delle condotte incriminate, certamente tenute in violazione della legge ma talvolta motivate dall’intento di assicurare ad un figlio protezione immediata da rischi connessi all’espatrio od al rimpatrio sotto il “controllo” del secondo genitore: casi nei quali potrebbero presentarsi in termini particolari tanto i reali interessi del minore circa la prosecuzione del rapporto parentale interrotto dal reo, tanto le effettive necessità di rieducazione del soggetto agente.

In queste condizioni, è parso ingiustificato non solo l’automatismo nell’an della sospensione, ma anche quello nel quantum, attribuendosi al criterio del raddoppio un effetto contrastante con il principio di proporzionalità, da considerare, ancora una volta, nelle declinazioni dell’uguaglianza e della finalizzazione rieducativa della pena.

 

3. La risposta della Corte.

Come già si è anticipato, la Consulta ha dichiarato inammissibili una parte delle questioni sollevate, ma, in accoglimento di quella principale, ha dichiarato illegittima la norma che imponeva l’applicazione della pena accessoria, invece che semplicemente consentirla al giudice nei soli casi in cui la sospensione non pregiudica il preminente interesse del minore.

Per quanto riguarda le decisioni in rito, quella concernente il quantum della sospensione, e dunque il secondo comma dell’art. 34 c.p. si è fondata in sintesi su di un giudizio di irrilevanza della questione nel giudizio a quo. La Corte rimettente deve limitarsi ad un giudizio di legittimità, relativamente ad un ricorso che ha censurato la decisione impugnata solo riguardo all’an della sospensione, senza discutere la durata della misura applicata. Nel giudizio di rinvio, che sarà presumibilmente disposto dopo l’invalidazione della norma concernente l’automatismo nell’applicazione, dovrà decidersi se irrogare la pena accessoria, e solo in caso di risposta positiva al quesito si porrà il problema della durata della sospensione. In sostanza, secondo la Consulta, una questione prematura.

La seconda dichiarazione di inammissibilità ha riguardato quella parte delle questioni che è stata riferita dalla Cassazione all’art. 10 Cost.: i parametri evocati dal rimettente attengono al diritto internazionale convenzionale, mentre il primo comma della disposizione costituzionale si riferisce alle sole regole del cosiddetto diritto internazionale generale, comprensivo delle norme consuetudinarie ma, certamente, non inclusivo del diritto internazionale pattizio (da ultimo, sentenza n. 224 del 2013).

Venendo allora alla dichiarazione di illegittimità dell’art. 574-bis c.p., la Corte ha posto in evidenza, come in diverse precedenti occasioni (ad esempio, sentenza n. 7 del 2013), il carattere peculiare delle sanzioni che colpiscono l’esercizio della potestà genitoriale, perché queste coinvolgono direttamente ed inevitabilmente anche una persona incolpevole, oltretutto particolarmente protetta dall’ordinamento giuridico.

La menomazione del rapporto genitoriale, ed in generale la sofferenza di terzi incolpevoli, possono essere conseguenza indiretta di molti provvedimenti punitivi (si pensi solo alla prolungata reclusione del genitore di figli minori), ma nel caso di specie il riflesso si produce de iure, e non semplicemente in via eventuale. Dunque, nel mentre sortisce l’effetto di liberare il condannato dall’adempimento di un obbligo (oltre che provarlo di un diritto), la pena accessoria in esame produce effetti di forte (anche se non necessariamente assoluta) compressione del diritto del minore alla presenza genitoriale, pur nell’assenza di qualunque sua responsabilità e comunque in potenziale conflitto con il suo best interest.

Considerazioni siffatte non implicano che la sanzione penale non debba mai interessare, stabilmente o temporaneamente, l’esercizio della potestà genitoriale. Le stesse fonti internazionali di tutela, più sopra menzionate, fanno salva l’eventualità che l’interesse del minore richieda proprio una interruzione del rapporto parentale (art. 9, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24, comma 3, CDFUE). Ciò che dunque nella specie contrasta con la Costituzione è il più tipico degli automatismi, che non trova giustificazione in una ragionevole regola di esperienza: non è detto affatto che chi sottrae o trattiene illegalmente un minore sia per ciò stesso inidoneo ad una proficua continuazione dell’esercizio della potestà genitoriale.

All’assunto appena enunciato la Consulta perviene analizzando la struttura della previsione incriminatrice, segnata anzitutto da forti tratti eterogenei nel novero delle condotte ad essa riconducibili.

Il primo segnale riguarda l’assoluta parificazione, ai fini della pena accessoria, di situazioni assai diverse, come quella del secondo comma dell’art. 574-bis (la condotta è tenuta con il consenso di un figlio non maggiorenne ma già adolescente) rispetto a quelle del primo comma, che prescindono completamente dall’età del minore interessato e dal suo stato d’animo, ed eventualmente travolgono la sua volontà ed i suoi bisogni affettivi e materiali. Anche nel novero delle fattispecie riconducibili al primo comma, poi, sono comprese situazioni assai diverse, che possono essere segnate (come per vero il caso di specie) da obiettive difficoltà e da rischi concreti nello sviluppo del rapporto familiare, specie nell’attesa di interventi giudiziari stabili ed efficaci.

Per altro verso, secondo la Corte, la misura obbligatoriamente applicata è “cieca” riguardo all’evoluzione del rapporto genitoriale dopo il fatto e, a maggior ragione, nell’epoca in cui la misura stessa deve essere applicata, cioè dopo il passaggio in giudicato della sentenza irrevocabile di condanna. Di contro, il principio del best interest impone che la sospensione della potestà genitoriale risulti confacente alle necessità del minore nel momento in cui viene applicata, ché altrimenti la sospensione stessa può risultare, nei singoli casi concreti, del tutto priva di legittimazione. La Consulta osserva, anche con riferimento al fatto perseguito nel giudizio a quo, che gli stessi sviluppi della vicenda familiare, come indotti anche dai loro riflessi giudiziari, possono illuminare circa i motivi del soggetto agente ed il contesto della sua condotta, facendo luce, di conseguenza, circa l’utilità della sospensione della potestà nel caso concreto.

Al proposito, il Giudici costituzionali sembrano aver colto l’occasione anche per riflettere, fuori dalle necessità interne al giudizio incidentale, circa l’opportunità che le valutazioni discrezionali ormai rimesse al giudice siano condotte nel processo penale per l’indebita sottrazione o l’indebito trattenimento all’estero, e non per esempio innanzi al giudice minorile od a quello della famiglia.

Comunque sia, l’accoglimento della questione comporta che, da oggi in poi, la pena accessoria dovrà essere applicata discrezionalmente, utilizzando come criterio esclusivo il preminente interesse del minore, e dunque infliggendola solo quando la sospensione della potestà genitoriale del responsabile del reato appaia necessaria od utile in chiave di tutela del minore stesso.

Certo, la dichiarata inammissibilità della questione concernente il quantum implica che, nel caso in cui stabilisca di irrogare la pena accessoria, il giudice dovrà fissarne la durata secondo un misuratore fisso, per quanto non predeterminato dalla legge (ed anzi, in verità, calibrato su un valore determinato dal giudice valendosi dell’ampia discrezionalità accordatagli dall’art. 133 c.p.).

In fine. L’accoglimento della questione sull’an del provvedimento punitivo, alla luce dei principi ricavati dai parametri ormai più volte evocati, ha consentito alla Corte di non valutare nel merito il problema della proporzionalità della reazione sanzionatoria al fatto incriminato (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), problema – si è detto – da ritenere “assorbito” per effetto dell’accoglimento deliberato in rapporto a parametri diversi ed ulteriori.