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11 Gennaio 2021


Gli effetti processuali dell’accoglimento della dichiarazione di ricusazione del giudice dell’udienza preliminare: la sentenza delle Sezioni unite

Cass., Sez. un., sent. 16 luglio 2020 (dep. 23 dicembre 2020), n. 37207, Pres. Fumu, Est. De Amicis, ric. Gerbino



1. La sentenza in esame. – Con la recentissima sentenza che può leggersi in allegato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[1] sono state chiamate a risolvere il seguente quesito «se, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del g.u.p., il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – conservi o meno efficacia».

Le Sezioni Unite vi hanno risposto affermando che «… il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – non conserva efficacia ed è affetto da nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.».

La particolare importanza della sentenza qui in commento, al di là dell’enunciazione del principio di diritto di cui si è detto, risiede nel fatto che la Corte suprema – in parte discostandosi ed in parte integrando precedenti decisioni in materia anche delle stesse Sezioni Unite – ha colto l’occasione per riesaminare l’intero assetto della procedura di ricusazione del giudice (ex art. 37 e segg. cod. proc. pen.) a partire dalle corrette modalità di celebrazione della stessa, per poi passare all’individuazione degli atti che mantengono efficacia in caso di accoglimento della ricusazione (anche nel caso in cui difetti una pronuncia sul punto ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen.), per giungere, infine, all’individuazione dei poteri dei giudici (del procedimento incidentale e del giudizio di merito) in ordine alla selezione degli atti mantenenti efficacia e dei rimedi esperibili avverso detta selezione.

 

2. La travagliata vicenda processuale sottoposta alla Corte di cassazione – Il Pubblico Ministero, a seguito degli sviluppi di una articolata indagine, esercitava l’azione penale nei confronti di alcuni soggetti ritenendo emersi a loro carico i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, di associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico oltre ad una serie di reati-fine legati al traffico di sostanze stupefacenti.

Il G.u.p. aveva inizialmente formulato una richiesta di autorizzazione all’astensione che però era stata respinta dal Presidente del Tribunale con provvedimento de plano.

A seguito dell’esito infruttuoso della procedura di astensione, nel corso dell’udienza preliminare, alcuni degli imputati presentavano dichiarazione di ricusazione ex art. 37, lett. b), cod. proc. pen. nei confronti dello stesso G.u.p. rappresentando che il magistrato, giudicando in un diverso procedimento, aveva di fatto anticipato il giudizio sulla esistenza dei reati di associazione di stampo mafioso e di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, con specifico riferimento a talune condotte delittuose poste in essere dagli stessi ricusanti.

Con una prima ordinanza la Corte di appello, quale giudice della procedura incidentale di ricusazione – a sua volta con provvedimento de plano che richiamava per relationem il contenuto del decreto del Presidente del Tribunale – dichiarava inammissibile l'istanza senza emettere alcun provvedimento di sospensione del processo.

Il G.u.p., immediatamente dopo la citata decisione della Corte di appello, emetteva il decreto che disponeva il giudizio nei confronti degli imputati.

L'ordinanza che aveva dichiarato l’inammissibilità della ricusazione veniva però impugnata e la Corte di cassazione la annullava con rinvio ritenendo sussistente un vizio procedurale legato al fatto che è da ritenersi illegittima l'ordinanza di inammissibilità adottata all'esito di procedura camerale de plano ai sensi dell'art. 41, primo comma, cod. proc. pen., quando i motivi addotti concernono questioni controverse ed ai fini del decidere sia utilizzato (richiamandolo per relationem) un provvedimento emesso, a sua volta, senza l’instaurazione di un previo contraddittorio tra le parti.

Nel giudizio di rinvio, la Corte di appello dichiarava nuovamente inammissibile l'istanza di ricusazione questa volta per ragioni formali (omessa allegazione di documenti).

Anche detta ordinanza di inammissibilità veniva impugnata con ricorso per cassazione ed annullata con rinvio in quanto la Suprema Corte riteneva infondate le ragioni che i giudici distrettuali avevano posto a fondamento della dichiarazione di inammissibilità.

Nuovamente investita quale giudice del rinvio, la Corte di appello questa volta accoglieva la dichiarazione di ricusazione. Non emetteva tuttavia alcuna statuizione in ordine alla conservazione dell’efficacia degli atti posti in essere dal giudice ricusato così come richiesto dall'art. 42, comma 2, cod. proc. pen.

Nel frattempo, il processo principale, mai sospeso, proseguiva il suo iter, sicché l'accoglimento in via definitiva dell'istanza di ricusazione sopraggiungeva quando il giudizio di primo grado nei confronti degli imputati ricusanti si trovava in fase di avanzata trattazione.

Sia il Tribunale che la Corte di appello, ai quali veniva posta la questione dell’efficacia del decreto che dispone il giudizio emesso da giudice nei confronti del quale la dichiarazione di ricusazione aveva successivamente trovato definitivo accoglimento, ne confermavano la validità.

All’esito dei due gradi di giudizio di merito gli imputati venivano condannati in relazione ai reati loro ascritti e, quindi, gli stessi proponevano ricorso per cassazione sottoponendo ai giudici di legittimità anche la questione della validità del decreto che aveva disposto il giudizio nei loro confronti.

 

3. Le norme di riferimento e le sottostanti questioni di diritto. – L’art. 42 del codice di rito penale dispone testualmente al comma primo che «Se la dichiarazione di astensione o di ricusazione è accolta, il giudice non può compiere alcun atto del procedimento» per poi aggiungere, al comma secondo, che «Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia».

Tale norma deve poi essere coordinata con il disposto del comma 2 dell’art. 37 cod. proc. pen. che testualmente dispone che «Il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione».

La vicenda sopra riassunta ha posto, pertanto, sul tavolo interessanti questioni processuali legate alla sorte degli atti che il giudice abbia adottato in pendenza della procedura incidentale di ricusazione, questioni che, da un lato, investono in generale la problematica dell’individuazione degli atti che conservano efficacia nel silenzio sul punto dell’ordinanza che accoglie la dichiarazione di ricusazione e, dall’altro, quella, più specifica, della validità del decreto che dispone il giudizio, atto di natura interlocutoria che sembrerebbe, in quanto tale, non assimilabile ad una sentenza (ai fini e per gli effetti di cui al citato art. 37 cod. proc. pen.) e, comunque, non avente efficacia probatoria.

La permanenza di irrisolti contrasti giurisprudenziali in materia ha quindi imposto la sottoposizione delle predette questioni alle Sezioni Unite della Corte di cassazione che hanno portato alla recentissima emissione della sentenza “Gerbino”[2] qui in esame.

 

4. Le precedenti decisioni in materia della giurisprudenza di legittimità. – La preliminare questione del se, in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato possano essere utilizzati era già stata affrontata dalle Sezioni Unite “Digiacomantonio”[3].

L’intervento delle Sezioni Unite si era reso necessario a seguito di un contrasto giurisprudenziale sul punto, ciò in quanto, secondo un primo indirizzo[4], spetterebbe al Presidente di un Tribunale che abbia autorizzato l'astensione di un giudice del medesimo tribunale e non al nuovo collegio giudicante indicare, ai sensi dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen., se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenuto conservino efficacia e possano essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, ferma restando, poi, la competenza esclusiva del collegio chiamato a giudicare il merito della vicenda a statuire la loro utilizzabilità ai fini del decidere sulla scorta di quanto previsto dall'art. 511 cod. proc. pen. in relazione all'art. 525 dello stesso codice.

Secondo altro indirizzo[5], invece, erano da ritenersi validi gli atti compiuti dal giudice astenutosi, della cui sorte (validità o invalidità) non si fosse fatta menzione nel provvedimento che ha accolto la dichiarazione di astensione.

Le Sezioni Unite “Digiacomantonio”, sulla premessa che gli istituti della incompatibilità, della astensione e della ricusazione tutelano specificamente il principio fondamentale – che trova un preciso fondamento nell’art. 111 della Costituzione – della imparzialità del giudice, principio che implica non soltanto l'assenza di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi delle parti in causa, ma, in una prospettiva più ampia, la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti e valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di decidere secondo diritto e giustizia, hanno chiarito che:

a) l’interpretazione letterale del comma 2 dell'art. 42 cod. proc. pen. non può dare adito a dubbi. La norma, infatti, nello stabilire che «il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia» determina in primo luogo con precisione il giudice che deve adottare il provvedimento: si tratta, invero, del giudice dell'astensione o della ricusazione essendo colui che conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi e che può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza;

b) la disposizione in discussione, che sostanzialmente riproduce quella dell'articolo 70 del codice previgente, viene tradizionalmente considerata espressione del principio di conservazione degli atti[6], tuttavia, ove si fosse voluto attagliare la disposizione a detto principio la si sarebbe dovuta formulare secondo uno schema antitetico del tipo “se e in quale parte gli atti compiuti perdano efficacia”;

c) vi è quindi una sorta di presunzione di inefficacia degli atti posti in essere dallo iudex suspectus prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o della ricusazione, che può essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tutti o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che abbia verificato se malgrado la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice, vi siano atti che non abbiano subito alterazione, così da poter essere conservati. La necessità di una tale pronuncia – come detto già affermata dall'art.70 del codice di procedura penale del 1930 – deriva anche da una interpretazione logico-sistematica dell'istituto in discussione e trova il proprio fondamento sia nella tutela del principio di imparzialità del giudice, coessenziale alla funzione dello ius dicere ed alla attuazione del giusto processo richiesto dalla Costituzione, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale[7] che ha precisato che "tra i principi del giusto processo, posto centrale occupa l'imparzialità del giudice, in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di significato e che l'imparzialità è perciò connaturata all'essenza della giurisdizione", sia nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che all'art. 6, comma I, dispone che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente [...] da parte di un tribunale indipendente e imparziale";

d) l'obbligatorietà della declaratoria di efficacia degli atti ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. trova significativa conferma nella disposizione di cui all'art. 1 del decreto-legge 23 ottobre 1996, n.553, convertito nella legge 23 dicembre 1996, n. 652, il quale, intervenendo dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996, con cui fu dichiarata l'illegittimità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. "nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia stata compiutamente valutata", stabilì che conservano efficacia gli atti compiuti anteriormente al provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice per una delle cause di incompatibilità stabilite dall'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. quando sia già stata dichiarata l'apertura del dibattimento. Sul punto le Sezioni Unite hanno osservato che si tratta di una norma transitoria e perciò eccezionale che deroga all'art. 42, comma 2, cod. proc. pen., cosicché risulta confermato che la regola non è quella della conservazione di efficacia degli atti, bensì quella contraria della inefficacia degli atti, salva la diversa espressa dichiarazione di cui all'art. 42, comma 2, cod. proc. pen.

Sempre le Sezioni Unite “Digiacomantonio” si sono, poi, poste il connesso problema relativo al fatto che le parti potrebbero non concordare circa la perdita di efficacia di tutti gli atti compiuti dal giudice prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o dell'accoglimento della istanza di ricusazione e, per l’effetto, si sono domandate quale sia l’eventuale rimedio contro la decisione assunta dal giudice del sub-procedimento incidentale non essendo espressamente prevista dal codice una impugnazione avverso l’ordinanza ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen.

Partendo dal presupposto che la inoppugnabilità del provvedimento de qua potrebbe portare ad una declaratoria di incostituzionalità del citato comma 2 dell’art. 42, se non temperata da un sistema di rivedibilità o di sindacabilità della decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione e finirebbe con il sottrarre definitivamente gli atti a contenuto probatorio dichiarati erroneamente inefficaci, o ritenuti tali per mancata pronuncia da parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione, all'apprezzamento del giudice del dibattimento, vero dominus nel sistema processuale degli atti a contenuto probatorio, le stesse Sezioni Unite hanno affermato che deve ritenersi che il contenuto del provvedimento in esame sia comunque suscettibile di essere riesaminato nel corso del processo di merito. In sostanza, essendo quello di cui all’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. un provvedimento di natura non decisoria, ma dichiarativa perché fondato su una ricognizione degli atti a contenuto probatorio compiuta, inaudita altera parte, dal giudice della ricusazione, che ha in materia una competenza per così dire interinale, lo stesso non potrebbe frustrare la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere. Non bisogna, infatti, confondere il piano della efficacia degli atti precedentemente compiuti, al quale fa riferimento il secondo comma dell'art. 42 cod. proc. pen., con quello della utilizzabilità degli stessi mediante il meccanismo di acquisizione e di recupero delineato dall'art. 511 dello stesso codice riguardante le letture consentite.

Le Sezioni Unite “Digiacomantonio” hanno quindi affermato di concordare con quella parte della giurisprudenza che ha affermato che la indicazione degli atti che conservano efficacia ex art. 42 cod. proc. pen. ha la sola portata di precisare quali atti possano essere mantenuti nel fascicolo del dibattimento, ferma la competenza esclusiva del collegio giudicante a stabilire la loro utilizzabilità o meno ai fini della decisione sulla scorta di quanto previsto dagli artt. 525 e 511 cod. proc. pen.

Più precisamente – ha chiarito la Corte – la discussione sull'inserimento o meno degli atti dichiarati efficaci ai sensi dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen. non soffre la preclusione di cui all'art. 491, comma 1, cod. proc. pen., che riguarda la selezione degli atti e dei documenti che possono essere conosciuti preventivamente dal giudice del dibattimento, ma non le valutazioni del giudice circa l'ammissibilità della prova desumibile sia da atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, sia da atti che erroneamente non vi siano stati inseriti[8], ciò perché il giudice del dibattimento ha una competenza generale in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove ed alla assunzione delle stesse e sarà, pertanto, tale giudice a verificare in ultima analisi anche la efficacia o meno degli atti a contenuto probatorio compiuti dallo iudex suspectus prima della autorizzazione alla astensione ed a determinare la definitiva inclusione o esclusione di tali atti dal fascicolo per il dibattimento, attività che deve necessariamente precedere la valutazione di utilizzabilità o meno delle prove.

In sostanza, la soluzione prospettata di sindacabilità del provvedimento di declaratoria di efficacia degli atti a contenuto probatorio assunti dal giudice poi astenutosi o ricusato eliminerebbe i dubbi di costituzionalità dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen. e restituirebbe alle parti ed al giudice del dibattimento la piena disponibilità del materiale probatorio conformemente alla previsione del sistema processuale vigente.

Le Sezioni Unite “Digiacomantonio” concludevano, quindi, enunciando il seguente principio di diritto: «In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci», peraltro precisando che la nozione di “efficacia” indica, nella specie, la possibilità di inserimento degli atti, compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, nel fascicolo per il dibattimento, e che la valutazione di efficacia od inefficacia, operata dal giudice che decide sull'astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione.

La decisione delle Sezioni Unite “Digiacomantonio” ha, poi, trovato conforto anche in successive decisioni delle Sezioni semplici[9].

Non v’è tuttavia chi non veda come la predetta decisione è apparsa fin da subito incentrata sugli atti a contenuto probatorio senza però avere adeguatamente approfondito la problematica degli “altri” atti emessi dal giudice correttamente ricusato non aventi una natura specificamente probatoria quali – come è il caso qui in esame – il decreto che dispone il giudizio.

Proprio cogliendo tale spiraglio, più recenti decisioni della Corte di cassazione[10] hanno stabilito che «In tema di ricusazione e astensione, non sono inefficaci gli atti a contenuto non probatorio compiuti dal giudice ricusato o astenuto, dei quali il provvedimento di accoglimento dell'istanza non abbia espressamente dichiarato la conservazione di efficacia ai sensi dell'art. 42, comma 2, cod. proc. pen., la cui previsione riguarda i soli atti a contenuto probatorio, fermo restando il potere del nuovo giudice di assumere determinazioni diverse da quelle adottate dal giudice sostituito».

 

5. Le Sezioni Unite “Tanzi” ed il recentissimo intervento delle Sezioni Unite “Gerbino”. – Risolta nella maniera sopra indicata dalla sentenza “Digiacomantonio” la problematica generale riguardante l’utilizzabilità degli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato in assenza di una espressa dichiarazione ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, si è – come sopra accennato – aperta l’ulteriore problematica, di fatto introdotta dalle decisioni della Corte di legittimità richiamate nell’ultima parte del paragrafo che precede, circa l’efficacia degli atti a contenuto non probatorio del giudice ricusato.

Come detto, infatti, successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite “Digiacomantonio” si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità tra le sentenze[11] che hanno ritenuto che l’enunciato normativo dell'art. 42, comma 2, cit. è riferibile esclusivamente agli atti giurisdizionali aventi natura probatoria, rimanendo invece dotati di efficacia – pure in mancanza di una espressa indicazione – altri atti parimenti emessi dal giudice la cui ricusazione sia stata in seguito accolta, e le sentenze[12] che, per contro, hanno ritenuto che nell’ipotesi dell'assenza di una espressa dichiarazione di conservazione dell'efficacia degli atti nel provvedimento di accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione, tutti gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci, senza distinzioni basate sulla loro natura e connotazione funzionale.

Da qui la rilevanza del caso in esame e la necessità di una nuova sottoposizione della questione alle Sezioni Unite che ha portato all’emissione della sentenza “Gerbino”.

Alla questione de qua è, poi, indissolubilmente legata quella della eventuale sanzione processuale ricollegabile ai rapporti tra l’art. 37, comma 2, e l’art. 42, comma 1, cod. proc. pen. nel caso in cui il giudice abbia deciso nel merito nonostante sia stata avanzata nei suoi confronti una dichiarazione di ricusazione.

Appare doveroso prendere le mosse proprio da quest’ultimo profilo.

Sul punto erano intervenute le Sezioni Unite “Tanzi”[13] che hanno chiarito che «il divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex art. 37 comma secondo, cod. proc. pen., opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di cassazione…» e, ancora, che «rientra, nell'ambito del divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza sino a che non intervenga l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, ogni provvedimento che, comunque denominato, sia idoneo a definire la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce».

In sostanza, le Sezioni Unite “Tanzi” hanno stabilito il principio secondo cui la violazione del divieto, posto dall'art. 42, comma 1, cit., per il giudice la cui ricusazione sia stata accolta, di compiere alcun atto del procedimento «comporta rispettivamente la nullità, ex art. 178, lett. a) cod. proc. pen., delle decisioni ciononostante pronunciate e l'inefficacia di ogni altra attività processuale, mentre la violazione del divieto, ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza, comporta la nullità di quest'ultima solo ove la ricusazione sia successivamente accolta, e non anche quando la ricusazione sia rigettata o dichiarata inammissibile».

Partendo da tale condiviso presupposto, le Sezioni Unite “Gerbino” hanno rilevato che:

a) pur in assenza di una sua formale comminatoria nella disposizione di cui all'art. 37, comma 2, cit., deve in ogni caso ricollegarsi la sanzione di nullità al difetto di imparzialità del giudice, ossia a "un difetto di capacità particolare a giudicare";

b) tale ratio deve applicarsi ad ogni tipo di provvedimento giurisdizionale con valenza decisoria;

c) tale vizio non può che avere identica natura, sia nel caso in cui il provvedimento decisorio del iudex suspectus sia stato adottato dopo che la decisione di accoglimento della ricusazione è divenuta definitiva, sia in quello in cui sia stato assunto nelle more del procedimento di ricusazione poi risoltosi con l'accertamento della fondatezza della relativa dichiarazione ed il riconoscimento del difetto di capacità a giudicare.

A ciò si aggiunge – osservano le Sezioni Unite – che nel decreto che dispone il giudizio sono senza dubbio ravvisabili i connotati strutturali e funzionali propri di un atto del procedimento che "definisce la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce", trattandosi di un provvedimento che "chiude" irreversibilmente una fase, sciogliendo la fondamentale alternativa "decisoria" rispetto alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere e determinando, in tal modo, le condizioni necessarie per il transito del processo verso una nuova e diversa fase. Analogamente alla sentenza di non luogo a procedere, epilogo rispetto al quale si trova in rapporto di mutua esclusione, il decreto che dispone il giudizio è, quindi, un atto di tipo valutativo e decisorio emesso da un giudice sulla base delle medesime risorse cognitive proprie della fase, con una connotazione funzionale assimilabile alla sentenza per la sua vocazione definitoria della regiudicanda preliminare all'instaurazione del dibattimento.

Il decreto che dispone il giudizio non è, quindi, un provvedimento destinato ad esplicare un'efficacia meramente propulsiva nel determinare il passaggio ad una fase successiva, poiché il criterio che ne sottende l'emissione implica non solo una valutazione del giudice sul merito degli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini preliminari e, se del caso, in sede di udienza, ma presuppone la pienezza del contraddittorio tra le parti necessarie ai sensi dell'art. 420, comma 1, cod. proc. pen., nello svolgimento del suo compito di garanzia dei diritti e delle facoltà dell'imputato in ordine al vaglio di sostenibilità dell'ipotesi accusatoria.

Le Sezioni Unite “Gerbino” a conforto della propria tesi hanno, poi, richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale[14] che ha posto in rilievo come l'udienza preliminare abbia perduto, nella vigente disciplina, la sua iniziale connotazione quale momento processuale fondamentalmente orientato al controllo dell'azione penale promossa dal pubblico ministero, in vista dell'apertura della fase del giudizio. Infatti, «l'alternativa decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell'udienza preliminare riposa [...] su una valutazione del merito della accusa [...] non più distinguibile [...] da quella propria di altri momenti» del processo, momenti «già ritenuti non solo 'pregiudicanti', ma anche 'pregiudicabili', ai fini della sussistenza della incompatibilità».

All'interno di tale quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice dell'udienza preliminare sono state pertanto private di quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto, secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo.

Anche i contenuti delle decisioni che concludono l'udienza preliminare hanno quindi assunto, in parallelo a tali modifiche normative, una diversa e maggiore pregnanza, poiché il giudice non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, la eventuale ricorrenza dei presupposti giustificativi dell'ampio ventaglio di possibilità contemplate dall'art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen., ma deve considerare se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l'accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, in caso negativo, a disporre il non luogo a procedere, in caso positivo, a disporre il giudizio.

L'attuale formulazione dell'art. 425, in questo modo, «chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell'accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale».

Alla stregua della fisionomia che l'udienza preliminare ha progressivamente assunto, la Corte costituzionale significativamente ha concluso il suo percorso argomentativo affermando che «le decisioni che ne costituiscono l'esito devono così essere annoverate tra quei «giudizi» idonei a pregiudicarne altri ulteriori e a essere a loro volta pregiudicati da altri anteriori, con la conseguenza che, per assicurare la protezione dell'imparzialità del giudice, l'udienza preliminare deve essere compresa nel raggio d'azione dell'istituto dell'incompatibilità, disciplinato dall'art. 34 cod. proc. pen., anche al di là della limitata previsione del comma 2-bis dell'art. 34 medesimo».

Logico corollario di tale ricostruzione del sistema normativo è quindi – sempre secondo le Sezioni Unite “Gerbino” – il riconoscimento della piena idoneità del decreto che dispone il giudizio a "pregiudicare" la fase processuale sulla quale esso si innesta, provenendo la sostanza delle valutazioni che ne sottendono l'emissione da un giudice riconosciuto "parziale" rispetto a quello specifico procedimento, con tutti i rischi che ne possono derivare sul piano dei possibili vulnera all'esercizio dei diritti della difesa non solo ai fini della ulteriore progressione delle sequenze processuali, ma anche in relazione alla effettività dell'eventuale accesso dell'imputato ai riti alternativi.

Assumendo quale canone di riferimento ermeneutico l'insieme dei principi delineati nella sentenza Tanzi emerge pertanto con evidenza che l'accoglimento definitivo dell'istanza di ricusazione rende il decreto pronunciato dal giudice suspectus affetto da nullità assoluta ex art. 178, comma 1, lett. a), cit., rilevabile, anche officiosamente, in ogni stato e grado di giudizio, per difetto di potere giurisdizionale rispetto allo specifico giudizio in cui "quel" giudice si è pronunciato, senza che possano rilevare, in questa prospettiva, i possibili "effetti conclusi" o "esauriti" dell'atto all'interno della fase in cui è stato pronunciato e senza che possa profilarsi, al riguardo, una sorta di "sanatoria di rito" per l'avvenuto transito nella fase dibattimentale.

In altri termini, non è tanto nel carattere valutativo del decreto che deve rilevarsi l'elemento di piena assimilazione, quanto invece nel profilo della irretrattabilità decisoria del provvedimento rispetto al segmento processuale che esso definitivamente conclude. Osservato da tale specifica angolazione, il decreto che dispone il giudizio si distingue non soltanto rispetto all'ampia gamma di atti meramente "interlocutori" e processuali che il giudice poi accertato "sospetto" può compiere, ma anche rispetto agli atti "a contenuto probatorio", che a differenza del decreto in esame non definiscono, neppure parzialmente, la regiudicanda nel senso sopra specificato: per essi, dunque, potrà porsi un problema di "conservazione di efficacia" alla stregua della disposizione di cui all'art. 42, comma 2, cit., ferma restando la loro validità, diversamente dal vizio di nullità radicale che può inficiare i "provvedimenti del giudice" ex art. 424, comma 1, cit., vale a dire il decreto che dispone il giudizio e la sentenza di non luogo a procedere.

Dal complesso delle su esposte considerazioni, secondo le Sezioni Unite “Gerbino”, discendono logicamente due conclusioni:

a) che il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 37, comma 2, cod. proc. pen. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione;

b) che nell'ipotesi in cui il decreto che dispone il giudizio sia successivamente emesso dal giudice ricusato, lo stesso sarà affetto da nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto della dichiarazione di ricusazione sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell'eventuale giudizio di rinvio.

 

6. L’ulteriore punto di contrasto tra le Sezioni Unite “Digiacomantonio” e le Sezioni Unite “Gerbino”. – Connessa alle problematiche giuridiche fin qui esaminate è poi l’ulteriore questione della portata processuale della decisione ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. e dei rimedi azionabili in presenza di una non condivisibile decisione del giudice del procedimento incidentale di ricusazione circa l’efficacia degli atti precedentemente compiuti dal giudice la cui richiesta di ricusazione sia stata accolta.

Si è già evidenziato al superiore paragrafo 3 che le Sezioni Unite “Digiacomantonio” hanno affermato:

a) che l’ordinanza ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. non è impugnabile;

b) che, al fine di evitare che sulla predetta norma venga a cadere la scure dell’incostituzionalità, la stessa deve essere interpretata in senso costituzionalmente orientato attraverso la previsione della possibilità per il giudice del processo di merito di valutare liberamente (quindi di acquisire o di escludere nel contraddittorio tra le parti) gli atti dichiarati o meno (probatoriamente) efficaci dal giudice chiamato a decidere il procedimento di ricusazione.

Le Sezioni Unite “Gerbino” hanno però evidenziato di non condividere tale orientamento in quanto lo stesso:

a) modificherebbe radicalmente il meccanismo processuale delineato dal legislatore nel codice del 1988, meccanismo tendente ad una chiusura immediata e definitiva del giudizio incidentale sulla ricusazione, con l'adozione delle relative statuizioni sugli effetti degli atti in precedenza compiuti;

b) relegherebbe il provvedimento adottato al termine della procedura incidentale ad un carattere meramente "dichiarativo" e ad una portata "interinale".

Senza contare, poi – osservano ancora le Sezioni Unite “Gerbino” – che il rimettere al giudice del dibattimento la scelta finale degli atti destinati a mantenere efficacia non solo vanificherebbe sostanzialmente il contenuto dell’ordinanza ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. ma potrebbe anche creare problemi in ordine alle strategie processuali delle parti, oltretutto introducendo una procedura di controllo e riesame selettivo postumo, non prevista dal codice, che verrebbe inevitabilmente a sovrapporsi al vaglio del giudice funzionalmente competente a provvedere all'esito del relativo procedimento incidentale.

Le Sezioni Unite “Gerbino”, a sostegno della decisione assunta, hanno richiamato il principio secondo cui l'esercizio del diritto di ricusazione del giudice, tanto nel codice vigente che in quello abrogato, determina un procedimento incidentale autonomo, rientra nella competenza funzionale dell'organo giurisdizionale chiamato a pronunciarsi sulla ricusazione l'individuazione degli atti che conservano o meno efficacia, sulla base di una valutazione autonoma e non sovrapponibile, da un lato o dall'altro, a quella propria del giudice del dibattimento, a sua volta non competente a decidere sul relativo incidente in forza della disposizione di cui all'art. 40 dello stesso codice.

In sostanza, la prospettazione delle Sezioni Unite “Digiacomantonio”, finirebbe per creare una sorta di “cortocircuito” decisionale nel quale il giudice della rinnovazione sarebbe inevitabilmente chiamato a rivalutare gli stessi presupposti sui quali si è già pronunciato il giudice funzionalmente competente a provvedere sulla ricusazione, con il possibile determinarsi di ulteriori incoerenze sistematiche.

Da ciò ne consegue che è nel ristretto contesto del giudizio incidentale volto a stabilire, caso per caso, il grado di "compromissione" del giudice ai fini della decisione e se sia legittima o meno la richiesta di sostituirlo, che deve essere propriamente effettuata la valutazione sulla sorte degli atti che quel giudice ha compiuto nel corso del procedimento e solo in tal modo può ritenersi rafforzata "la funzione di filtro svolta dal giudice della ricusazione, al quale solo compete la scelta in ordine all'eventuale sospensione del processo principale e, quindi, la valutazione del fumus boni iuris che assiste la dichiarazione presentata". Detto giudice non sarà quindi chiamato a svolgere una attività meramente ricognitiva ma vedrà ricompresa nel suo raggio di azione, qualora la dichiarazione di ricusazione venga accolta, anche la puntuale operazione di controllo selettivo sugli atti che conservano efficacia ai sensi dell'art. 42, comma 2.

Ma se, come emerge da un orientamento interpretativo costante nella giurisprudenza della Corte di cassazione[15] il provvedimento sul "merito" della ricusazione, adottato ai sensi dell'art. 41, comma 3, anche senza espressa indicazione normativa, è impugnabile dinanzi alla Corte di cassazione atteso che il provvedimento deve essere adottato all’esito di procedura ex art. 127 cod. proc. pen. (espressamente richiamato dalla predetta disposizione) e se il citato art. 127 a sua volta prevede, nel settimo comma, che l'ordinanza conclusiva del relativo giudizio è ricorribile per cassazione, non si vede per quale ragione, anche il provvedimento ex art. 42, comma 2, cod. proc. pen. che pertiene logicamente alla pronuncia sul merito della ricusazione ex art. 41, comma 3, cit., e che ne forma parte necessaria ed integrante non sarebbe invece ricorribile per cassazione e ciò sia nel caso in cui tale provvedimento abbia individuato gli atti che mantengono efficacia, sia nel caso in cui abbia totalmente omesso di pronunciarsi sul punto.

Da ciò ne è conseguita l’affermazione nella sentenza “Gerbino” del seguente principio di diritto che finisce per innovare a quanto statuito nella sentenza “Digiacomantonio”: «L'ordinanza che decide sul merito della ricusazione ai sensi dell'art. 41, comma 3, cod. proc. pen. provvede contestualmente a dichiarare, in caso di accoglimento della dichiarazione di ricusazione, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci; contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell'art. 611 cod. proc. pen.».

 

7. Osservazioni conclusive. – La recentissima decisione delle Sezioni Unite – che appare assolutamente condivisibile – ha il pregio di avere spostato il “punto di vista” della problematica qui in esame superando la questione posta dalla precedente decisione del Supremo consesso incentrata sulla “natura probatoria” dell’atto posto in essere dal giudice fondatamente ricusato.

Le Sezioni Unite “Gerbino”, infatti, hanno privato di rilevanza la natura probatoria (o meno) dell'atto del procedimento, valorizzando, per contro, i diversi profili inerenti, per un verso, all'ampiezza, anche temporale, dei poteri che il giudice ricusato può esercitare una volta presentata la dichiarazione di ricusazione, per altro verso alla corretta individuazione degli effetti dell'accoglimento della ricusazione rispetto al tipo di attività processuale, decisoria o meno, che egli abbia compiuto.

Se la portata applicativa della soluzione indicata nella sentenza “Digiacomantonio” fosse limitata esclusivamente agli atti probatori compiuti dal giudice astenutosi o ricusato e non investisse anche gli atti di altra natura – come le misure cautelari personali e reali, i negozi processuali, gli atti propulsivi e tutti i provvedimenti a mero titolo esemplificativo indicati nella sentenza “Tanzi” – si finirebbe per accogliere una lettura non consentita dal dato normativo testuale delle richiamate disposizioni di cui agli artt. 37, 41 e 42 cit., con il rischio, paradossale, di escludere dall'ambito di applicazione dell'inefficacia una vasta categoria di atti (basti solo pensare ai provvedimenti incidentali in tema di misure cautelari) che potrebbero essere parimenti compromessi dalla mancanza di imparzialità del giudice che li ha adottati.

A conforto di ciò è doveroso richiamare, in tal senso, la costruzione lessicale del citato art. 42, comma 2, cod. proc. pen., la cui formulazione, esaminata assieme al primo comma della medesima disposizione, contiene un riferimento solo generico agli “atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato o astenutosi”, senza individuare alcuna distinzione all'interno della categoria generale, utilizzata nel primo comma, degli "atti del procedimento".

Del resto, anche altre disposizioni in tema di ricusazione utilizzano espressioni analoghe, idonee a ricomprendere qualsiasi tipologia di atto: l'art. 41, comma 2, cod. proc. pen., ad esempio, prevede la possibilità di una temporanea sospensione di qualsiasi "attività processuale", eventualmente limitata al compimento di "atti urgenti", ma senza stabilire alcuna restrizione del loro ambito a quelli di natura probatoria.

L'art. 38, comma 1, cod. proc. pen., inoltre, nel prevedere a sua volta termini e forme della dichiarazione di ricusazione, stabilisce che la dichiarazione può essere proposta, anche al di fuori dell'udienza preliminare o del giudizio, "prima del compimento dell'atto da parte del giudice": anche a fronte di tale, onnicomprensiva, evenienza procedimentale il codice non distingue in alcun modo fra le diverse tipologie di atti, né fra quelli che possono essere compiuti prima o dopo la presentazione della relativa dichiarazione, sicché l'oggetto del riesame selettivo non può che coprire l'insieme dell'attività svolta dal giudice astenutosi o ricusato.

Ulteriore condivisibile corollario sottolineato dalla recentissima decisione delle Sezioni Unite è costituito dal fatto che la dichiarazione di ricusazione determina l'attivazione di un procedimento incidentale connotato in senso tipicamente giurisdizionale, nel quale ben possono, con la garanzia di un contraddittorio, essere assunte una volta per tutte le decisioni inerenti al mantenimento di efficacia degli atti compiuti dal giudice fondatamente ricusato, procedimento dal quale scaturisce un provvedimento emesso in forma di ordinanza, assoggettabile al controllo di legittimità con il ricorso per cassazione.

Ciò consente di mantenere la decisione di cui all’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. nell’alveo processuale nel quale il legislatore l’ha collocata senza la necessità di sottoporla ad un vaglio di costituzionalità o di ricorrere ad escamotages interpretativi che, pur se costituzionalmente orientati, finirebbero per snaturarne l’effettiva portata.

 

[1] Sez. U, n. 37207 del 16/07/2020 (dep. 23/12/2020), Gerbino, non ancora massimata

[2] Sez. U, n. 37207 del 16/07/2020 cit.

[3] Sez. U., n. 13626 del 16/12/2010, dep. 2011, Rv. 249299).

[4] Sez. 1, n. 2799 del 1997, Rv. 207741; Sez. 1, n. 32800 del 2005, Rv. 231889.

[5] Sez. 1, n. 4227 del 1997, Rv. 208409; Sez. 1, n. 27604 del 2001, Rv. 219145.

[6] vedasi Relazione al Progetto preliminare del cod. proc. pen., punto 29.

[7] Corte cost., 20 maggio 1996, n. 155.

[8] in tal senso anche Sez. 5, 18/04/ 2000, n. 5944, e Sez. 6, 06/02 2003, n. 23246.

[9] cfr. Sez. 6, n. 10160 del 18/02/2015, Rv. 262804; Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. 2018, Rv. 272195.

[10] Sez. 5, n. 44120 del 09/05/2019, Rv. 277848; in senso conforma anche Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016, Rv. 267742.

[11] Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016, Rv. 267742; Sez 5. n. 44120 del 09/05/2019, Rv. 277848; Sez. 3, n. 35205 del 16/07/2019, Rv. 277501.

[12] Sez. 6 n. 10160 del 18/02/2015, Rv. 262804; Sez. 5, n. 16311 del 14/04/2014, Rv. 259873.

[13] Sez. U, n. 23122 del 27/01/2011, Rv. 249735.

[14] C.cost. n. 224 del 4 luglio 2001 e n. 335 del 8 luglio 2002.

[15] Sez. 6, n. 3853 del 24/11/1999, Rv. 216836; Sez. 1, n. 5251 del 29/09/1999, Rv. 214390; Sez. 6, n. 47556 del 16/10/2013, Rv. 257705.