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09 Aprile 2025


La Corte d’assise d’appello di Torino sul caso Alex Cotoia (già Pompa): tra legittima difesa e ragionevole dubbio

C. Ass. Appello Torino, 13 gennaio 2025, dep. 7 aprile 2025, pres. Bassi, est. Marson



1. La sentenza della Corte d’assie d’appello di Torino, che può leggersi in allegato, ha assolto per legittima difesa il giovane (allora) diciannovenne, di Collegno (Alex Cotoia, già Alex Pompa) che, per liberare sé e la propria famiglia dalle continue vessazioni di un padre tiranno, lo aveva ucciso. Data la delicatezza, morale e giuridica, della vicenda e il clamore suscitato, se ne propone al lettore una sintesi.

Per una più nitida comprensione dei contenuti, appare subito opportuna una premessa, che si riferisce alla regola di giudizio propria del processo penale e che, forse, consente di contestualizzare meglio alcuni passaggi della vicenda e dell’esito processuale.

Come noto, l’art. 533 c.p.p. condiziona la possibilità di pronunciare la sentenza di condanna al fatto che sia raggiunta la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio: è quindi possibile «pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[1].

Lo scopo del processo penale, dunque, non è quello di fornire la ricostruzione più verosimile di una vicenda, ma di verificare se l’ipotesi accusatoria sia l’unica plausibile ricostruzione sulla base dei dati disponibili, in caso contrario, il principio di non colpevolezza impone l’esito assolutorio (art. 27 co. 2 Cost.).

Nella vicenda qui in esame, come si vedrà, l’accertamento dei fatti è risultato irrimediabilmente compromesso da gravi lacune che si sono verificate nella fase delle indagini preliminari[2].

A tali lacune la Procura generale ha tentato di riparare con un notevole sforzo ricostruttivo ed argomentativo, non riuscendo, tuttavia, a parere del Giudice, a superare la soglia del ragionevole dubbio, lasciando, cioè, residuare come plausibile il “racconto alternativo” che ha dato corpo alla pronuncia assolutoria qui compendiata.

 

2. L’accusa rimproverava al ragazzo il delitto di cui agli artt. 575, 577 co. 1 n. 1 c.p. perché con condotta consistita nello sferrare numerose e ripetute coltellate all’indirizzo del padre, colpendolo in zone vitali del corpo, ne cagionava il decesso, determinando plurime lesioni penetranti da punta e da taglio al tronco ed al collo, una delle quali, costituita da ferita toracica anteriore localizzata in regione sternale, ne recideva l’aorta ascendente, in modo da provocare un emopericardio massivo ed un conseguente tamponamento cardiaco, con l’aggravante di aver commesso il fatto contro l’ascendente.

In primo grado, la Corte d’assise di Torino ha assolto Alex Cotia, ritenendo che egli avesse agito in stato di legittima difesa.

La sentenza, impugnata dalla Procura della Repubblica, è stata riformata in appello, con condanna alla pena di 6 anni, 2 mesi e 20 giorni di reclusione, in considerazione della ritenuta prevalenza delle attenuanti di cui agli artt. 89 (vizio parziale di mente), 62 n. 2 (provocazione) e 62-bis (generiche) c.p.

In sede di legittimità, la Cassazione ha annullato la sentenza di condanna, disponendo il rinvio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Torino.

 

3. I fatti si sono svolti nella sera del 30 aprile 2020, in pieno lockdown da Covid-19, nell’abitazione di famiglia in cui l’imputato viveva con il padre, la madre ed il fratello.

Dai processi di merito, è emerso che il padre aveva a più riprese manifestato atteggiamenti di ossessiva gelosia verso la moglie, che si inserivano in un più ampio quadro di maltrattamenti in famiglia sia contro la donna che contro i figli.

Quella sera, egli era ubriaco ed era andato in escandescenza pensando che la moglie l’avesse tradito con un collega di lavoro, manifestando apertamente la sua intenzione di ucciderla.

In tale contesto, il figlio, vedendolo dirigersi in cucina e temendo che volesse prendere un coltello per uccidere la madre, lo aveva spinto, era entrato per primo in cucina, e, dopo aver preso un coltello lo aveva aggredito, causandone la morte.

 

4. La sentenza di primo grado ha ritenuto sussistente la legittima difesa, considerando attendibili le dichiarazioni dell’imputato, anche sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, tra cui molte registrazioni di dialoghi e scontri familiari, che confermavano un quadro di vessazioni, minacce e sopraffazioni che caratterizzava il nucleo familiare proprio in ragione del comportamento del Padre.

Il Tribunale di Torino, inoltre, aveva ravvisato nell’imputato un disturbo di adattamento di natura ansiosa al momento del fatto, tale da attenuare, senza escluderla, la capacità di intendere e volere..

 

5. A seguito dell’appello del P.M., veniva rinnovata l’istruzione dibattimentale, riassumendo le testimonianze della madre, del fratello, dello zio paterno dell’imputato e dei consulenti tecnici: in quella sede, l’imputato rendeva spontanee dichiarazioni, confermando il contenuto degli interrogatori resi in sede di indagini preliminari e già acquisiti al processo.

All’esito, veniva esclusa la legittima difesa sia per il carattere particolarmente violento dell’aggressione, caratterizzate anche da coltellate alla schiena, sia per l’assenza di ferite da difesa, anche in considerazione della ritenuta inattendibilità delle testimonianze della madre e del fratello.

Quanto ai presupposti della legittima difesa, la Corte d’assise d’appello ha ritenuto che al momento del fatto la madre non era esposta a pericolo di aggressione, in quanto chiusa in bagno e che il padre era sostanzialmente inoffensivo in quanto ostacolato nei movimenti dallo stato di alterazione alcolica in cui versava e dall’aggressione improvvisa a cui lo aveva già sottoposto il figlio.

 

6. La Cassazione ha annullato la condanna, ritenendo che non fossero stati soddisfatti i canoni di motivazione rafforzata che avrebbero dovuto caratterizzare quel genere di sentenza[3].

Quanto all’attendibilità dei testimoni, la Corte d’assise d’appello ha omesso di considerare lo stato di sopraffazione in cui versava la famiglia, non verificando in modo puntuale quanto esso avesse inciso sul contenuto delle dichiarazioni, che ben avrebbero potuto giustificare una diversa percezione soggettiva dei fatti da parte di coloro che ne erano protagonisti.

Quanto alla sussistenza della legittima difesa, la Corte d’assise d’appello non ha considerato che il padre aveva appena finito di insultare e minacciare tutti i familiari ed appariva del tutto verosimile che si fosse recato in cucina proprio per armarsi ed aggredire la moglie, in relazione alla quale è ritenuta superficiale l’affermazione che ella non fosse in stato di pericolo solo perché in quel momento era chiusa in bagno. A tal fine, dunque, la Cassazione richiamava il proprio costante orientamento secondo cui sussiste la legittima difesa quando si reagisce ad un’aggressione che, benché non attuale, sia comunque imminente[4].

Un altro profilo di censura alla sentenza di merito si riferisce alla mancava valutazione dei presupposti della legittima difesa putativa: le minacce del padre ed il quadro di vessazioni familiari ben avrebbero potuto indurre in errore l’agente sulla sussistenza del pericolo per la vita degli altri componenti della famiglia, tanto più che l’imputato era un soggetto con personalità disarmonica ed immatura ben idonea a soffrire di qualche distorsione nella percezione della realtà.

Veniva perciò rinviato alla Corte d’assise d’appello di Torino di: rivalutare il contesto familiare ed ambientale, partendo dal presupposto del clima di tensione insostenibile generato dal padre a pregiudizio della vita familiare; rivalutare complessivamente il contenuto delle trascrizioni delle comunicazioni tra i fratelli acquisite nel corso delle indagini preliminari; rivalutare l’incidenza delle condizioni di disagio psichico in cui versava il figlio al momento dei fatti; rivalutare il contenuto del messaggio telefonico inviato dal fratello dell’imputato allo zio, con cui ne veniva sollecitato l’intervento in ragione della situazione di eccezionale gravità che si stava materializzando.

 

7. Il primo tema affrontato dalla sentenza è relativo all’attendibilità estrinseca dei testimoni, che costituisce il presupposto logico per la valutazione in ordine alla sussistenza della legittima difesa: infatti, in tanto si può discutere se l’imputato abbia o meno agito per difendersi contro un’aggressione, in quanto si ritenga provata l’aggressione stessa per come raccontata dai familiari.

Pur a fronte di una ricostruzione in più parti meramente congetturale operata dalla Corte d’assise e dovuta alla necessità di colmare gravi lacune investigative apertesi nella prima fase delle indagini preliminari, il Giudice del rinvio ritiene che le dichiarazioni dei familiari siano complessivamente attendibili sulla scorta di riscontri oggettivi che non consentono di smentirle. La motivazione, cioè, adotta una formula dubitativa, riconducibile all’art. 530 co. 2 c.p.p., secondo cui il quadro istruttorio non consente di ritenere provata oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’imputato, in quanto non fornisce univoci elementi di smentita delle dichiarazioni discolpanti dei suoi familiari.

Tali riscontri oggettivi consistono in dati di fatto dimostrati che si riferiscono al clima di fortissima tensione familiare, alla ricostruzione dei fatti immediatamente precedenti all’aggressione, alla richiesta di aiuto sollecitato dal fratello dell’imputato allo zio, alla telefonata con cui l’imputato confessava alle forze dell’ordine di aver ucciso il padre e alla presenza di ferite sia sul corpo dell’imputato che del fratello. Su ciascuno di questi profili, la Corte si sofferma analiticamente: rinviando alla lettura integrale delle motivazioni, si richiameranno in questa sede gli elementi che più immediatamente danno corpo ai presupposti della legittima difesa, come definiti dall’art. 52 c.p.

7.1. Il contesto maltrattante, pur irrilevante per la legittima difesa, è utile per la valutazione dell’attendibilità estrinseca delle testimonianze: esso è provato sulla base di plurimi ed indiscutibili riscontri, dati dalle dichiarazioni di vicini di casa, dello stesso fratello della persona offesa e dei colleghi di lavoro della moglie, che univocamente hanno riferito di un clima caratterizzato da fortissima tensione e frequentissimi ed accesi litigi, anche violenti, dettati da una gelosia ossessiva e caratterizzata da compulsive ansie di controllo verso tutti i più minuti aspetti di vita della donna, spesso controllata dal marito anche sul luogo di lavoro.

Le incongruenze emerse nel processo su questo aspetto vengono considerate marginali, dovute a lacune nelle indagini preliminari, ma comunque non tali da minare il quadro generale che restituiva nitidamente l’immagine di una donna umiliata e vessata dalle prevaricazioni del marito.

7.2. Quanto al contesto fattuale immediatamente precedente all’aggressione, risulta provato lo stato di ubriachezza in cui versava la persona offesa, che proprio nel corso della serata del 30 aprile manifestava un’aggressività inedita, determinata dal fatto che per la prima volta la moglie gli aveva manifestato l’intenzione di separarsi da lui.

7.3. La richiesta di aiuto da parte del fratello dell’imputato allo zio paterno, iniziativa fin lì mai intrapresa, immediatamente dopo che questo era stato contattato dalla persona offesa per lamentarsi dei comportamenti della moglie è, altresì, altamente sintomatica dell’eccezionalità del momento in cui si sono svolti i fatti e dell’imminente precipitare degli eventi.

Sotto questo profilo, viene disattesa la tesi della Procura generale, secondo cui il messaggio sarebbe stato predisposto artatamente per prepararsi una scusa; la Corte, infatti, ritiene del tutto verosimile che il comportamento del fratello dell’imputato fosse ascrivibile ad un disperato tentativo di chiedere aiuto allo zio, per quanto, in passato, avesse dimostrato di non riporre in lui grande fiducia.

7.4. Ulteriore elemento a sostegno dell’attendibilità estrinseca dei protagonisti presenti sulla scena è la chiamata effettuata dall’imputato al numero unico delle emergenze: nel corso della conversazione, alle 22:40 del 30 aprile, l’imputato, con tono concitato, riferiva che il padre aveva espresso l’intenzione di uccidere lui, la madre ed il fratello, parlava di una colluttazione e del fatto di essere riuscito ad armarsi di coltello ed ucciderlo. Tale dinamica è poi stata sempre confermata lungo tutto l’arco del procedimento, fin dalle prime fasi immediatamente successive alla drammatica telefonata.

A tal proposito, si considerano meramente congetturali le ipotesi formulate dalla Procura generale rispetto al fatto che anche questa chiamata, come la sollecitazione del fratello verso lo zio, siano state artatamente organizzate prima per prepararsi una scusa.

7.5. Quanto alla sproporzione tra il numero di ferite riportate dal figlio e quelle inferte al padre, la Corte valorizza anche questo elemento come favorevole alla difesa dell’imputato.

La Procura generale ha valorizzato la presenza di queste ferite come elemento a carico che proverebbe l’aggressione verso il padre, il quale, non presentando alcuna ferita da difesa, sarebbe stato aggredito repentinamente senza alcuna possibilità di difendersi.

Inoltre, secondo la ricostruzione della Pubblica Accusa, la ferita da taglio dal figlio al mignolo sarebbe significativa di una sua azione offensiva nei confronti del padre: egli, si opina, stava impugnando uno dei coltelli utilizzati per l’omicidio e la sua mano sarebbe scivolata lungo il manico, procurandosi così un taglio.

Tale ricostruzione, definita «certamente plausibile e molto suggestiva» è, tuttavia, considerata non fondata su dati certi, al pari della tesi opposta, secondo cui la ferita sarebbe riconducibile ad un’azione difensiva: ciò, dunque, in ossequio al canone del ragionevole dubbio viene valorizzato dalla Corte come elemento idoneo a rinforzare il giudizio di attendibilità delle testimonianze.

A rendere verosimile l’ipotesi che anche il padre fosse amato, inoltre, anche la presenza di una ferita da taglio sul pollice e di un’altra sull’anulare destro del figlio, ugualmente compatibili con l’ipotesi di una sua azione difensiva, così come le ferite sugli avambracci e sul dorso delle mani, repertate sul fratello dell’imputato che egli ha affermato essergli state inferte dal padre durante una prima colluttazione dopo che aveva appena smesso di parlare al telefono col fratello.

 

8. Viene, quindi, affrontato il tema dell’attendibilità intrinseca della madre e del fratello, le cui dichiarazioni si sono caratterizzate per profili di parzialità, incoerenza e non perfetta linearità, con l’aggiunta nel corso del processo di elementi precedentemente taciuti.

Sul punto, la Cassazione ha stigmatizzato la pronuncia di condanna ritenendo che la Corte territoriale non avesse adeguatamente considerato la drammaticità della situazione, idonea a determinare ricordi non sempre univoci, inquinati da una visione parziale delle dinamiche intrafamiliari che avevano condotto fino all’uccisione della persona offesa. Ciò, a parere della Suprema Corte rescindente, ben avrebbe potuto determinare un condizionamento della soglia di percezione soggettiva degli eventi e della capacità di memorizzazione da parte dei familiari della vittima, che assistevano in condizioni psicofisiche estremamente precarie e con reazioni inevitabilmente differenziate.

A parere del Giudice del rinvio, in considerazione degli elementi sopra enucleati, risulta accertato che la serata poi tragicamente conclusasi con l’uccisione abbia rappresentato un momento di inedita e peculiare drammaticità in un contesto già caratterizzato da vessazioni e maltrattamenti. Non pare, dunque, sorprendente che la madre ed il fratello abbiano ricordi non del tutto nitidi di quanto accaduto tra l’invio del messaggio di aiuto alle 22:46 e la telefonata dell’imputato delle 22:42 alle Forze dell’Ordine, arco di tempo in cui si è consumato il fatale esito della vicenda.

È comprensibile, dunque, la drammaticità del contesto e la durezza dei fatti occorsi abbiano generato nei presenti una condizione di shock, peraltro subito rilevata dagli operatori del 118 intervenuti sul posto.

A nulla, secondo il Giudice del rinvio, rileva il fatto che essi abbiano in dibattimento riferito circostanze inedite: i testi, infatti, erano stati sentiti solo a sommarie informazioni nell’immediatezza dei fatti, non erano mai stati escussi in sede di incidente probatorio e solo la sede dibattimentale ha costituito il momento in cui, con la giusta distanza temporale dall’accaduto, hanno potuto riferirne i contorni con un maggior livello di dettaglio e, per quanto possibile, distacco e serenità.

8.1. A parere del Procuratore generale, inoltre, l’attendibilità dei testimoni sarebbe incrinata dal rilievo che nulla di particolarmente inedito avrebbe caratterizzato la sera del 30 aprile: i rapporti familiari erano da tempo tesi ed incrinati e la condotta della persona offesa vessatoria e maltrattante, ma solo in quell’occasione il figlio avrebbe deciso di ucciderlo.

Ciò è smentito dalla Corte d’assise d’appello che sottolinea la novità del contesto venutosi a determinare in quella serata e disattende i dubbi della Pubblica Accusa rispetto alla mancata reazione verso pregresse condotte dello stesso tenore da parte della persona: tale atteggiamento remissivo, infatti, è ritenuto un’ulteriore prova del quadro di violenza psicologica in cui era costretta a vivere la famiglia e, segnatamente, la moglie dell’ucciso.

Ad avviso della Procura generale, anche l’intenzione riferita dal fratello dell’imputato di volersi rivolgere ad un centro antiviolenza non appena fosse venuto meno il regime di lockdown sarebbe non genuina e determinata dalla sola volontà di precostituirsi una scusa.

La Corte disattende completamente questa linea di ricostruzione, ritenendola congetturale e ribadisce che, anche a voler ritenere dimostrato che in realtà il quadro di maltrattamenti denotasse una sorta di reciprocità, per cui anche i figli avrebbero spesso reagito agli atteggiamenti del padre, non è comunque possibile operare alcuna forma di compensazione[5].

8.2. Ulteriori elementi, tra i molti addotti dalla Procura generale, che si possono leggere nella sentenza, si riferiscono allo stato dei luoghi.

8.2.1. Si è evidenziato, infatti, che tutti i mobili apparivano perfettamente in ordine, e che ciò appare incompatibile con la situazione di tensione ed alterco descritta dall’imputato e dai testimoni nel riferire gli accadimenti della sera del 30 aprile.

La Corte d’assise d’appello, in modo, forse, un po’ ellittico, non si sofferma più di tanto su questo dato, ritenendo assorbente la constatazione che la scena del crimine è stata irrimediabilmente compromessa dall’intervento dei soccorritori e nel corso delle operazioni tecniche effettuate dai Carabinieri nell’immediatezza, ciò che trova riscontro nel fatto che alcuni particolari oggetti appaiono posizionati in punti diversi a seconda delle diverse fotografie scattate.

A conforto dell’attendibilità della versione secondo cui prima dell’aggressione era avvenuta una violenta colluttazione nei termini descritti dai testi, anche i racconti dei vicini di casa che univocamente hanno riferito di rumori compatibili con un violento litigio.

8.2.2. La Procura generale constata, inoltre, che il cadavere indossava calze completamente inzuppate di sangue: da qui inferisce che la persona offesa era stata immobilizzata da uno dei due figli per essere poi accoltellata dall’altro, e così costretto a restare in piedi nella pozza di sangue che sgorgava dalle ferite riportate.

Secondo il Giudice del rinvio, viceversa, tale rilievo non è concludente nel senso dell’aggressione da parte dei figli, in quanto è comunque compatibile con il racconto di un episodio di violenza pregressa del tipo di quello che si ritiene aver interessato il nucleo familiare la sera dei tragici eventi. Il sangue, insomma, è da ricondursi ad un’aggressione già in corso che ha avuto il suo tragico epilogo della morte dell’aggressore stesso.

8.2.3. Quanto al dato che la collocazione del cadavere si trovava nei pressi della porta di ingresso, valorizzato dalla Procura generale come sintomatico di un tentativo di fuga da parte della persona offesa, anch’esso è diversamente interpretato dal Giudice che non ritiene conclusiva la constatazione del posizionamento del cadavere in quanto l’appartamento era di piccole dimensioni ed esso era comunque equidistante sia dall’ingresso che dalla cucina, l’ambiente in cui i figli riferiscono che il Padre si stesse recando per armarsi di coltello.

Né viene dato seguito alle perplessità della Procura generale rispetto al fatto che la persona offesa, dopo aver, a loro dire, minacciato i figli invitandoli a seguirlo fuori casa per regolare i conti, si stesse andando a procurare un’arma mentre era ancora scalzo. A tal proposito, la sentenza si rassegna all’impossibilità di una descrizione davvero accurata dei fatti, in quanto la lacunosità delle investigazione ne ha compromesse le possibilità di esatta ricostruzione, riconoscendo che, comunque, non sono emersi elementi sufficienti ad infirmare il giudizio di complessiva attendibilità delle dichiarazioni testimoniali che hanno riferito l’accaduto.

8.2.4. Un altro elemento di fatto è offerto dalla Procura generale alla riflessione.Il Fratello dell’imputato ha riferito che il Padre stesse andando in cucina a procurarsi un coltello: come si è visto, egli indossava delle calze, come è possibile, dunque, che l’unica traccia fotografata in quell’ambiente sia di un piede nudo?

La Corte, su questo punto, stigmatizza le macroscopiche lacune investigative, dolendosi sia della scarsità del materiale fotografico sia dell’assenza di rilievi ed accertamenti effettuati su quelle importantissime tracce del reato, così come su altre tracce presenti in altri punti dell’abitazione, di cui non si è stabilito se appartenessero al padre o al figlio.

Il Giudice ritiene, tuttavia, comunque non concludente tale osservazione, in quanto, fosse anche acquisito che quella in cucina non era l’orma del padre-aggressore, ciò sarebbe sufficiente a ritenere che la madre ed il fratello dell’imputato abbiano mentito. Secondo la Corte, infatti, non si può escludere che il padre sia entrato in cucina per armarsi prima di essere ferito e di perdere sangue, mentre le tracce fotografate sul pavimento della cucina siano state prodotte in un momento successivo, né può escludersi che la persona offesa non sia mai riuscita ad entrare in cucina, ma si sia armata con un coltello che l’imputato aveva utilizzato per difendersi dalla sua aggressione.

 

9. Sulla base di questa analitica motivazione sull’attendibilità dei testi, si perviene alla ricostruzione del fatto per come è stato possibile accertarlo processualmente.

Fin dal pomeriggio del 30 aprile 2020, il marito si presentava al supermercato in cui la moglie lavorava come cassiera per controllarla, dando sfogo ad una furiosa gelosia determinata dal convincimento di essere da lei tradito con un collega con cui, a suo dire, ella si intratteneva a ridere.

Rientrato in casa, iniziava a tempestare la moglie chiamandola per circa cento volte, per poi rinfacciarle, più tardi, di non aver risposto alle sue chiamate, nel corso di un litigio particolarmente acceso dopo che la donna era rientrata dal turno di lavoro, con toni inediti e più esacerbati rispetto a quelli già solitamente molto tesi che caratterizzavano la vita della coppia.

A quel punto, dopo l’intervento dei figli in suo soccorso, la moglie si è tolta dalla vista del marito e recata in bagno per sottrarsi alla sua furia e struccarsi: il dato è riferito dalla teste come qualcosa di consueto, essendo parte della triste routine di quella famiglia il togliersi dalla vista del marito furioso per cercare di placarne così, almeno indirettamente, l’aggressività.

I contorni della vicenda sono stati riferiti in termini sostanzialmente analoghi anche dal fratello dell’imputato, che riferisce altresì che il padre si era ubriacato e aveva manifestato in modo molto chiaro il fatto di voler passare a vie di fatto e non limitarsi ad un alterco verbale; congruente è, altresì, la spiegazione relativa all’allontanamento della madre in bagno, riconducibile all’opportunità di sottrarla alla vista del padre per placarne l’ira.

Questi accadimenti, secondo la Procura, rientravano in un quadro di tragica normalità familiare, ma ciò non è condiviso dal Giudice che, come già emerso, individua come eccezionale la vicenda occorsa in quella sera e l’accesso di rabbia della persona offesa, alterata dall’alcool e particolarmente agitata per il fatto che la moglie aveva, per la prima volta, manifestato l’intenzione di separarsi da lui.

In questo contesto, dunque, si collocava un quid pluris rispetto all’usuale quadro di maltrattamenti, rappresentato dall’intenzione di voler ammazzare i componenti della famiglia, espressa con tale veemenza e convinzione da indurre il Fratello dell’imputato a chiedere aiuto allo zio.

La ricostruzione delle fasi successive è affidata alla sola testimonianza del fratello che, per quanto frammentaria e confusa, non è considerata falsa ed è confermata, per quanto ciò possa valere, anche dalle dichiarazioni dell’imputato.

Unici riscontri obiettivi esterni sono il numero delle coltellate e la collocazione delle ferite riportate sul cadavere del Padre, così come le dichiarazioni dei vicini di casa che hanno riferito il forte trambusto provocato dalla colluttazione che si stava consumando nell’abitazione. Ciò a cagione delle lacune investigative che hanno irrimediabilmente compromesso le possibilità di un pieno accertamento dei fatti.

È solo dalle testimonianze dei vicini che si può inferire il dato di una colluttazione protratta nel tempo e non repentina in cui sono stati utilizzati sei coltelli, rinvenuti sulla scena del crimine, senza, tuttavia, potersi stabilire chi abbia utilizzato quali coltelli per infliggere quali ferite. La stessa collocazione dei fendenti sulla schiena della persona offesa, molto valorizzata nella prospettiva accusatoria, è ritenuta non incompatibile con lo scenario di un’aggressione.

 

10. In base alla ricostruzione necessariamente frammentaria dei fatti, il Giudice del rinvio ritiene di dover aderire alla ricostruzione della Corte d’assise di primo grado in ordine alla sussistenza della legittima difesa.

Non vi sono elementi di smentita rispetto al fatto che l’imputato fosse nella necessità di difendersi da un’aggressione alla vita: ciò, dunque, rende necessaria la pronuncia di assoluzione lasciando sussistere quantomeno il dubbio sulla presenza di una causa di giustificazione.

La sproporzione tra le ferite riportate dalla persona offesa e quelle dell’imputato è ritenuta, del pari, non decisiva nel senso della responsabilità del secondo, in quanto il Giudice del rinvio la riconduce alla necessità per l’imputato di continuare a difendersi fino a quando l’aggressore non fosse stato ridotto a totale, e definitiva, inoffensività.

Quanto alla inevitabilità del pericolo, si valorizza il dato delle ridotte dimensioni dell’appartamento con la porta di ingresso chiusa a chiave, e se ne inferisce che, trovandosi senza vie di fuga a dover affrontare il padre violento ed aggressivo, l’imputato abbia necessariamente dovuto tutelare se stesso ed i suoi familiari.

Egli era, inoltre, così come il fratello e la madre, direttamente esposto al pericolo attuale di essere aggredito dal padre, essendo incontroverso nel diritto vivente che «non è necessario che l’offesa da cui scaturisce la necessità della difesa abbia già cominciato a realizzarsi», in quanto è «sufficiente il pericolo attuale – nel senso di pericolo in corso o comunque imminente – di detta offesa, il quale ben può essere integrato anche da una semplice minaccia».

 

11. Per completezza, in considerazione della frammentaria ricostruzione del quadro fattuale, viene anche analizzato il tema della legittima difesa putativa, le cui condizioni di configurabilità vengono ricostruite sulla base dell’insegnamento giurisprudenziale secondo cui «la legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti. Tale errore, che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta la responsabilità di cui all’art. 59, ultimo comma, c.p. quando sia determinato da colpa, deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sicché la legittima difesa putativa non può valutarsi al lume di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d’animo dell’agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo invece essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l’errore. Essa, pertanto, può configurarsi se ed in quanto l’erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell’animo dell’agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo; persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l’azione della difesa venga ad estrinsecarsi»[6].

Data questa premessa, sulla base della ricostruzione di fatto che è stato possibile operare, si ritiene che quantomeno in forma putativa la legittima difesa fosse sussistente, essendo stati raccolti «dati di fatto concreti, idonei ad indurre nell’imputato la ragionevole persuasione di trovarsi in pericolo».

 

 

 

 

[1] Così Cass. pen., Sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2548, imp. P.G. in proc. Segura, Rv. 262280. Tale definizione, già formulata da Cass. pen., Sez. I, 3 marzo 2010, n. 17921, imp. M., Rv. 247449; Cass. pen., Sez. I, 18 aprile 2013, n. 44324, imp. P.G., P.C. in proc. Stasi, Rv. 258321; Cass. pen., Sez. II, 19 settembre 2013, n. 42482, imp. Kuzmanovic, Rv. 256967, si è poi consolidata in Cass. pen., Sez. I, 12 aprile 2016, n. 20461, imp. P.C. in proc. Graziadei, Rv. 266941; Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2018, n. 48541, imp. P.G. c. Castelli, Rv. 274358; Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2018, n. 1282/19, imp. Brancaccio, Rv. 275299; Cass. pen., Sez. I, 18 novembre 2020, n. 8863/21, imp. S., Rv. 280605

[2] Non a caso, fin dagli albori della vigente codificazione di rito, è stato valorizzato dalla Corte costituzionale il principio della necessaria completezza delle indagini preliminari, oggi ulteriormente valorizzato dalle più recenti modifiche introdotte dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. Riforma Cartabia). A tal proposito, è utile richiamare Corte cost., 28 gennaio 1991, n. 88, mass. 16998, in cui si spiega che «tra vecchio e nuovo codice […] vi è […] una fondamentale differenza. Nel primo, la decisione sull’archiviazione, assunta in base alla sola notizia di reato o a più o meno scarni elementi acquisiti nel corso degli atti preliminari all’istruzione, tendeva a stabilire se vi fosse o no un’infondatezza così manifesta da far rendere superflua o meno l’istruzione vera e propria. Nel secondo, invece, si tratta di decidere all’esito, e sulla base, di indagini preliminari anche “complete” e talvolta integrate da investigazioni suppletive […]».

[3] Tale principio è consolidato almeno a partire da Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, imp. Mannino, Rv. 231679, secondo cui «in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato», con nota di G. Leo, Il giudizio di appello contro le sentenze assolutorie in primo grado, in Il Corriere del merito, 2006, 1, pp. 116ss. Tale principio è stato, successivamente, ribadito da Cass. pen., Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 10130, imp. Marsili, Rv. 262907, precisando che il giudice d’appello «non può limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato», e poi da Cass. pen., Sez. II, 18 luglio 2018, n. 41784, imp. Edilscavi, Rv. 275416; Cass. pen., Sez. II, 7 giugno 2019, n. 38277, imp. Nuzzi, Rv. 276954; Cass. pen., Sez. VI, 11 luglio 2019, n. 51898, imp. P., Rv. 278056; Cass. pen., Sez. VI, 23 novembre 2022, n. 11732, imp. S., Rv. 284472; Cass. pen., Sez. III, 20 dicembre 2022, n. 16131, imp. B., Rv. 284493; Cass. pen., Sez. III, 20 giugno 2024, n. 36333, imp. Genovese, Rv. 286915.

[4] Cass. pen., Sez. V, 19 dicembre 2019, n. 12727, imp. Morabito, Rv. 278861; Cass. pen., Sez. III, 10 ottobre 2019, n. 49883, imp. Capozzo, Rv. 277419; Cass. pen., Sez. I, 21 giugno 2018, n. 48291, imp. Gasparini, Rv. 274534; Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2019, n. 25810, Rv. 276129; Cass. pen., Sez. I, 2 aprile 1992, n. 6931, imp. Pellini, Rv. 190587; Cass. pen., Sez. I, 28 gennaio 1991, n. 3494, imp. Manti, Rv. 187110; Cass. pen., Sez. I, 16 marzo 1987, n. 11482, imp. Cioffi, Rv. 176986; Cass. pen., Sez. I, 24 novembre 1984, n. 4194, imp. Bari, Rv. 168982; Cass. pen., Sez. I, 10 febbraio 1984, n. 8820, imp. Carnevale, Rv. 166201; Cass. pen., Sez. IV, 2 febbraio 1984, n. 4742, imp. Salvato, Rv. 164336; Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 1982, n. 2032, imp. Quaranta, Rv. 157809; Cass. pen., Sez. I, 15 dicembre 1976, n. 5857, imp. Pilla, Rv. 135819.

[5] Come chiarito da Cass. pen., Sez. I, 14 aprile 2024, n. 19769, imp. P., Rv. 286399 «il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri, poiché l’art. 572 cod. pen., non prevedendo spazi di impunità in relazione ad improprie forme di autotutela, non consente alcuna “compensazione” fra condotte penalmente rilevanti poste in essere vicendevolmente».

Tale orientamento consolida quanto già espresso da Cass. pen., Sez. III, 24 gennaio 2020, n. 12026, imp. M., Rv. 278968, ma non è del tutto univoco, in quanto, in precedenza, Cass. pen., Sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935, imp. M., Rv. 274617 aveva affermato, con sfumatura lievemente diversa, che «in tema di maltrattamenti in famiglia, integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze fisiche o morali a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità ed intensità equivalenti». Quest’ultima lettura è stata, parzialmente, accolta da Cass. pen., Sez. VI, 3 luglio 2023, n. 37978, imp. B., Rv. 285273, che, decidendo ai soli effetti civili, ha ricordato che «in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato agli effetti civili la sentenza che aveva ritenuto la condotta sopraffattrice unilateralmente tenuta dall’imputato ai danni della convivente more uxorio come espressiva di ordinaria “litigiosità di coppia”, la quale presuppone invece che le parti della relazione si confrontino, anche veementemente, ma su un piano paritetico, di reciproca accettazione del diritto di ciascuno ad esprimere il proprio punto di vista)».

[6] Così Cass. pen., Sez. III, 25 gennaio 1991, n. 3257, imp. P.M. e Calabria, Rv. 186611, citata nella motivazione ed espressiva di un orientamento consolidatosi, benché con sfumature in parte diverse, anche più di recente in Cass. pen., Sez. I, 5 luglio 2024, n. 30608, imp. C., Rv. 286808; Cass. pen., Sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 24084, imp. Perrone, Rv. 273401; Cass. pen., Sez. IV, 3 maggio 2016, n. 33591, imp. Bravo, Rv. 267473; Cass. pen., Sez. I, 5 marzo 2013, n. 13370, imp. R., Rv. 255268; Cass. pen., Sez. I, 24 novembre 2009, n. 3464/10, imp. Narcisio, Rv. 245634; Cass. pen., Sez. I, 6 dicembre 2005, n. 4337/06, imp. La Rocca, Rv. 233189; Cass. pen., Sez. I, 17 febbraio 2000, n. 4456, imp. Tripodi, Rv. 215808.