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  Editoriale  
28 Giugno 2023


Prescrizione e improcedibilità: alla Camera prove tecniche di una ennesima, improvvida, riforma

A proposito dei disegni di legge n. 745, Costa, n. 893, Pittalis, n. 1036 Maschio



*Leggi il contributo nel fascicolo n. 6/2023

 

1. La giustizia penale è sempre più politicamente gestita come la tela di Penelope: un fare e disfare. È il prezzo da pagare alla crescente centralità del penale come terreno di scontro politico e di acquisizione del consenso elettorale. Mentre il Governo, sulla spinta dei sindaci, presenta un disegno di legge per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, riformato solo tre anni fa, il Parlamento, aderendo a richieste che provengono soprattutto da una parte dell’avvocatura, ha avviato alla Camera l’esame di tre disegni di legge d’iniziativa parlamentare, due dei quali presentati da deputati della maggioranza, che si propongono di riaprire per l’ennesima volta il cantiere della prescrizione del reato. Un proposito annunciato a febbraio anche dal Ministro della giustizia Carlo Nordio. Come è accaduto per l’abuso d’ufficio, è verosimile che alle iniziative parlamentari, che fanno da apripista, possa far seguito la presentazione di un disegno di legge governativo.

I tre disegni di legge (n. 745, Costa, n. 893, Pittalis, n. 1036 Maschio), che pubblichiamo in allegato, intervengono su un istituto che negli ultimi diciotto anni – dalla legge ex Cirielli del 2005 ad oggi – è stato riformato già quattro volte: dopo la legge ex Cirielli si sono infatti succedute la riforma Orlando, nel 2017, la riforma Bonafede, nel 2019 e, da ultimo, la riforma Cartabia nel 2021. Una quinta riforma dell’istituto – sarebbe addirittura la quarta negli ultimi sei anni – rappresenterebbe un record.

È comprensibile il mal di testa di interpreti e magistrati, chiamati a confrontarsi con complesse questioni di diritto intertemporale dipendenti dai diversi regimi della prescrizione succedutisi a stretto giro di tempo; un mal di testa rispetto al quale la prospettiva di una ulteriore riforma non dà sollievo. Quale che sia il giudizio che si possa avere sull’attuale assetto della disciplina, è indubbio che l’instabilità di un istituto così centrale nelle dinamiche del processo penale, come la prescrizione del reato, rappresenta un problema ormai strutturale, fonte di grande disorientamento nella prassi, e non solo.

 

2. Tralasciando alcuni pur rilevanti aspetti di dettaglio, e andando al cuore delle proposte, tutti e tre i disegni di legge all’esame della Camera propongono di abrogare l’art. 161 bis c.p. e, quindi, la regola, introdotta dalla riforma Bonafede e confermata dalla riforma Cartabia, del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

I disegni di legge degli On.li Costa (Azione-Italia Viva), Pittalis (Forza Italia) e Maschio (Fratelli d’Italia, Presidente della Commissione giustizia della Camera) mirano dunque a far sì che i reati possano tornare a prescriversi in appello e in Cassazione, come accadeva prima della riforma Bonafede. Va infatti ricordato che l’art. 161 bis c.p. è stato introdotto dalla riforma Cartabia (l. n. 134/2021) che si è limitata a un più preciso inquadramento sistematico-formale della sentenza di condanna di primo grado: non causa di sospensione del corso della prescrizione, come nella riforma Bonafede, ma dies ad quem. Al di là di questa precisazione, la sostanza, dalla riforma Bonafede alla riforma Cartabia, è rimasta invariata: la sentenza di primo grado blocca per sempre il corso della prescrizione.

 

2. Detto della pars destruens, i disegni di legge Costa e Maschio propongono, quanto alla pars costruens, di tornare alla riforma Orlando, che fu superata come è noto proprio dalla riforma Bonafede. Essi propongono infatti di reintrodurre nell’art. 159 c.p. il meccanismo automatico di sospensione del corso della prescrizione, in appello e in cassazione, per non più di diciotto mesi ciascuno, limitato al caso di sentenza di condanna pronunciata nel giudizio precedente. Si supera Bonafede e si torna a Orlando. Si sblocca la prescrizione dopo il primo grado e, solo in caso di condanna, si dà al giudice più tempo – tre anni, complessivamente, tra secondo e terzo grado – per definire il procedimento prima che maturi la prescrizione del reato.

Esattamente questo significherebbe tornare al sistema Orlando. Un sistema ben congegnato in una stagione in cui l’obiettivo del sistema era di ridurre le prescrizioni nei giudizi di impugnazione – specie in appello – ma che è oggi del tutto disfunzionale rispetto all’obiettivo del PNRR di ridurre i tempi del giudizio penale del 25% entro il 2026. Introdurre ora, in piena fase di attuazione del PNRR, meccanismi sospensivi del corso della prescrizione, legati alle fasi del giudizio, allungherebbe i tempi medi del processo penale proprio mentre lo sforzo del sistema giudiziario è massimamente teso a ridurli.

Per la stessa ragione, altrettanto disfunzionale sarebbe, a mio parere, la proposta A della Commissione Lattanzi (non ripresa, peraltro, dai disegni di legge in discussione); per quanto di indubbio pregio sul piano tecnico, e migliorativa della stessa soluzione Orlando, anche questa proposta, presentata tra quelle alternative dalla Commissione Lattanzi, è imperniata su un meccanismo sospensivo del corso della prescrizione, che allungherebbe inevitabilmente i tempi del processo proprio quando – questo è il punto – il Paese non può permetterselo. Mancano tre anni e mezzo, ormai, alla deadline per raggiungere gli obiettivi del PNRR. Non scordiamocelo mai.

 

3. Vi è però di più. Le proposte Costa e Maschio, mentre superano la riforma Bonafede abrogando l’art. 161 bis c.p. e reintroducendo nei giudizi di impugnazione la sospensione per fase prevista dalla riforma Orlando, non incidono sulla disciplina dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione, di cui all’art. 344 bis c.p.p., che lasciano inalterata.

Questo significa che, nel sistema che risulterebbe dalle proposte di legge Costa e Maschio, correrebbero nei giudizi di secondo e terzo grado due diversi termini: quello di prescrizione del reato e quello di improcedibilità dell’azione penale. Sarebbero cioè operativi due diversi timer: l’uno, avviato con la commissione del reato; l’altro, avviato con l’inizio del giudizio di impugnazione (più precisamente, novanta giorni dopo la data della scadenza del termine di impugnazione della sentenza di primo o di secondo grado). Il procedimento penale potrebbe andare in fumo, dopo il primo grado, o perché il reato si prescrive o perché l’azione penale diventa improcedibile, a seconda del termine che matura per primo. E’ una soluzione certo molto favorevole per le difese degli imputati ma per nulla per le vittime e per le parti civili (che pure hanno dei difensori, non altrettanto presenti però nel dibattito pubblico) e, ancor prima e soprattutto, per la funzione naturale del processo, che è deputato all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. La prescrizione del reato, come l’improcedibilità, devono essere eventi eccezionali: la fisiologia del processo è la sua ragionevole durata, che impedisce sia la prescrizione sia l’improcedibilità.

D’altra parte, i disegni di legge Costa e Maschio sembrano non considerare che l’improcedibilità è una soluzione tecnica alternativa alla prescrizione del reato: o l’una, o l’altra. Un sistema ibrido renderebbe i giudizi di impugnazione come una sorta di campo minato; incentiverebbe le impugnazioni per aumentare le chance di una morte anticipata del procedimento penale. La prescrizione del reato, in un sistema in cui la ragionevole durata del processo nei giudizi di impugnazione è già assicurata dall’improcedibilità – per effetto della riforma Cartabia – non avrebbe alcuna ragion d’essere. Per non dire poi, sul piano tecnico, dell’assenza, nelle proposte di legge, di un coordinamento tra prescrizione e improcedibilità (si pensi, ad esempio, alle cause di sospensione dell’un termine o dell’altro e alla disciplina delle proroghe dell’improcedibilità). 

 

4. Più lineare è la proposta Pittalis, l’unica, tra quelle in discussione, che prevede l’abrogazione dell’art. 344 bis c.p.p. Come le proposte Costa e Maschio, la proposta Pittalis supera la riforma Bonafede rendendo possibile la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado.

A differenza delle proposte Costa e Maschio, tuttavia, la proposta Pittalis non ritorna alla riforma Orlando (al relativo meccanismo di sospensione del corso della prescrizione nei giudizi di impugnazione), ma all’assetto di disciplina precedente alla riforma Orlando. Non basta, la proposta Pittalis ‘cancella’ non solo le riforme Bonafede e Orlando, ma anche la riforma Cartabia: supera infatti, come si è detto, il sistema della improcedibilità dell’azione penale per decorso dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione.

Si tratta sì di una proposta più lineare, perché nel reintrodurre la prescrizione del reato nei giudizi di impugnazione elimina l’improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. e, quindi, la concorrenza tra i due istituti. Non è però una proposta esente da rilievi critici che, anzi, sono forse ancora maggiori.

 

5. Abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del PNRR, sarebbe un suicidio. Non va dimenticato che la legge 134 del 2021, cui si deve la riforma della prescrizione e l’introduzione dell’improcedibilità, è un provvedimento adottato nell’ambito del PNRR, sotto la lente di Bruxelles. Il Parlamento, con senso di responsabilità, nella passata legislatura ha saputo trovare una soluzione tecnica apprezzabile, ispirata dai lavori di una autorevole Commissione studio – la Commissione Lattanzi –  e frutto di una complessa mediazione politica, volta ad un tempo a superare le criticità mostrate dalla riforma Bonafede – per il rischio di processi “all’infinito” nei giudizi di impugnazione – e a raggiungere l’obiettivo PNRR della riduzione del 25% dei tempi medi del processo, anche e proprio nella fase critica del giudizio di impugnazione.

Se la prescrizione del reato è un cerino che brucia passando di mano in mano, da giudice a giudice, l’improcedibilità è un cerino che brucia tutto nelle mani del giudice di appello o di cassazione. È un meccanismo che responsabilizza il magistrato e, come nella teoria economico comportamentale del nudge – che è valsa l’attribuzione del premio Nobel – induce gli uffici giudiziari – le corti d’appello e la Corte di cassazione – a comportamenti virtuosi per evitare che quel cerino bruci in mano a chi lo ha.

Sia consentita un'efficace semplificazione: l’improcedibilità è colpa del giudice dell’impugnazione; la prescrizione non è colpa di nessuno, perché è colpa di tutti.

 

6. Reintrodurre la prescrizione nei giudizi di impugnazione, abolendo l’improcedibilità, darebbe al sistema giudiziario un messaggio di lassismo, rispetto agli obiettivi PNRR, proprio mentre gli investimenti e gli sforzi organizzativi della macchina giudiziaria – della magistratura e del Ministero della giustizia – sono massimi e stanno dando ottimi risultati. È per questo rimettere mano a prescrizione e improcedibilità, a PNRR in corso di attuazione, sarebbe una mossa suicida, dannosa per il Paese.

Quanto affermo è sorretto da evidenze empiriche. Parlano i dati che il Ministero della Giustizia sta raccogliendo e pubblicando sul proprio sito internet, in un’area dedicata al monitoraggio continuo degli obiettivi PNRR, accessibile cliccando qui.

Mi riferisco ai dati del Disposition Time (DT): il parametro concordato dal Governo con la Commissione Europea per misurare l’obiettivo della riduzione del 25% dei tempi medi del processo penale nei tre gradi del giudizio; un obiettivo da raggiungere da qui a tre anni e mezzo.

Ebbene, l’ultimo monitoraggio del Ministero della giustizia (accessibile cliccando qui) evidenza, per il 2022, una diminuzione del DT nel giudizio penale di appello, su base nazionale, pari al 9,6% rispetto alla baseline del 2019, concordata con la Commissione UE come punto di riferimento per il conseguimento dell’obiettivo PNRR. Il dato è ancora migliore per il giudizio di Cassazione: - 20,7%.

Il Parlamento – e, se dovesse davvero presentare una proposta di legge, anche il Ministro Nordio – deve essere consapevole, nell’esaminare le proposte di legge in discussione, che i tempi medi dei giudizi di impugnazione si stanno già riducendo in modo significativo. Le cause sono molteplici, certo, e tra queste vi è senz’altro lo sforzo degli uffici giudiziari italiani volto a cambiare l’organizzazione del lavoro, anche – questo è il punto – in conseguenza e per effetto delle modifiche normative apportate dalla riforma Cartabia, comprese quelle della prescrizione e dell’improcedibilità.

 

7. È noto come la fase più critica sia rappresenta dall’appello penale. La baseline del 2019 è pari a 835 giorni, da ridurre del 25% a 626 giorni entro il 2026. Ebbene, il 62% delle Corti d’appello italiane – 18 su 29 – ha già ridotto il DT, in misura variabile e anche molto significativa.

La dimostrazione più evidente di come gli sforzi organizzativi delle corti d’appello volti a ridurre i tempi del processo – per evitare l’improcedibilità – stiano già dando ottimi risultati, è rappresentata da un dato assai significativo. 8 corti d’appello italiane hanno già ridotto i tempi medi del giudizio d’appello in misura superiore al 25% come da obiettivo PNRR.

A Napoli il DT è diminuito del 59,3%; a Brescia del 43,6%, a Salerno del 33,9%, a L’Aquila del 31%, a Torino del 28%, a Reggio Calabria del 27,4%, a Caltanissetta del 26,7%, a Bologna del 26,2%. Molto buoni o buoni sono anche i risultati di altri distretti, che vanno rapportati alla baseline di partenza (dove era già buona, la percentuale di riduzione del DT è generalmente inferiore): Bari (- 19,3%), Campobasso (- 16,8%), Cagliari (-7, 4%), Messina (-6,7%), Venezia (- 6,4%), Ancona (- 3,6%), Milano (- 0,2%). E molto vi è ancora da fare, in rapporto agli attuali tempi medi del processo d’appello, negli 11 distretti di corte d’appello che non hanno invece ancora registrato diminuzioni del DT e che, al contrario, hanno registrato aumenti, anche significativi o preoccupanti (è il caso ad es. di Catanzaro, Firenze e Genova), che andrebbero monitorati dal Ministero con attenzione, per comprenderne le cause.

I risultati degli 8 distretti che hanno già ridotti i tempi del processo d’appello del 25% e più sono straordinari e hanno la loro spiegazione in un combinato disposto tra modifiche normative apportate dalla riforma Cartabia, interventi del Ministero e, soprattutto, riorganizzazione del lavoro dei magistrati, che in distretti come questi si sono evidentemente rimboccati le maniche e hanno aperto gli armadi muovendo i fascicoli, per citare un’espressione cara al Presidente Giovanni Canzio.

In un grande distretto come quello di Napoli il DT in appello è stato ridotto da 2031 giorni – pari a cinque anni e mezzo – a 826 giorni, pari a 2 anni e 4 mesi. È un fatto di grandissima importanza del quale ritengo il Parlamento e il Governo dovrebbero tenere conto nel valutare se davvero rimettere mano alla disciplina della prescrizione e dell’improcedibilità. A me pare evidente, infatti, che proprio il timore dell’improcedibilità e il conseguente sforzo per evitarla abbia finalmente determinato in buona misura gli sforzi organizzativi di uffici giudiziari come la Corte d’Appello di Napoli; sforzi che non vanno ignorati e disincentivati e che, invece, vanno riconosciuti e incentivati, anche da parte della politica e dell’amministrazione, anche attraverso interventi volti a colmare le lacune negli organici e a sviluppare quanto prima la digitalizzazione del processo penale.  

Ed è da simili sforzi che dipende il raggiungimento degli obiettivi del PNRR e il miglioramento del servizio giustizia penale. Sono sforzi del quale il Paese deve essere grato alla magistratura e che a mio avviso la politica deve sostenere e non disincentivare con proposte di ritorno al passato; a quel passato che, anche con responsabilità della magistratura, oltre che dell’amministrazione e della politica, ha consentito di determinare risultati imbarazzanti per il Paese sul piano nazionale e internazionale. Perché, ad esempio, è imbarazzante, e calpesta il principio di ragionevole durata del processo, un dato come quello di partenza (baseline 2019) per il distretto di Napoli: 5 anni e mezzo per il giudizio di appello come tempo medio; un dato che è garanzia di prescrizione del reato e che sarebbe garanzia di improcedibilità dell’azione penale. Ed è sempre imbarazzante – non fa onore alla reputazione internazionale del nostro Paese – costatare come la Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ, dati 2020) collochi l’Italia al primo posto tra i paesi dell’area del Consiglio d’Europa per lentezza (DT) del giudizio di appello penale: al primo posto in un podio non invidiabile condiviso con Albania e Malta, oltre il livello “warning”. Per i dati del CEPEJ, clicca qui.

 

8. Nel dibattito pubblico si parla tanto, troppo, di giustizia penale e si parla poco, molto poco, dei dati del monitoraggio PNRR sulla durata del processo penale. Penso che, con senso di responsabilità, bisognerebbe valutare con attenzione i rischi elevatissimi che comporta rimettere mano alla disciplina della prescrizione del reato e dell’improcedibilità: piaccia o meno. Finalmente il Paese si è avviato verso obiettivi di civiltà del diritto come quelli dell’efficienza e della ragionevole durata del processo, nell’interesse di imputati e vittime. Sarebbe un grave errore ignorare quei dati, ignorare l’inestricabile nesso tra prescrizione, improcedibilità e obiettivi del PNRR, e tornare al passato continuando a comportarsi con la prescrizione come con la tela di Penelope.

Se si continuano a cancellare le riforme delle maggioranze parlamentari precedenti - Orlando, Bonafede, Cartabia -, con interventi bandiera, si avvia un percorso politico pericoloso e non utile al sistema-giustizia, perché ci sarà sempre una maggioranza diversa, un domani, pronta a cancellare le riforme di quella precedente. Anziché ‘procedere’, in questo modo, si continuerebbe a ‘retrocedere’, anche quando, come nel caso oggi al vostro esame, i dati suggeriscono di non fare pericolosi passi indietro, per il bene del Paese, del sistema giustizia, delle garanzie e dei principi costituzionali. E del PNRR.

A mio parere la vera riforma liberale e garantista, per il bene del Paese, non è oggi quella che reintroduce la prescrizione o cancella l’improcedibilità. È quella che, con opportuni investimenti, aiuta gli uffici giudiziari a ridurre i tempi dei processi, attuando il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Ai cittadini non interessano prescrizione e improcedibilità: due eventualità che diventano del tutto eccezionali e poco significativi se il processo, appunto, è di ragionevole durata.