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28 Luglio 2022


La Cassazione riconosce la legittima difesa ai migranti che si erano opposti al respingimento verso la Libia

Cass., Sez. VI, sent 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), n. 15869, Pres. Mogini, rel. Silvestri



1. Con la sentenza in commento, la Cassazione pone fine ad un caso mediatico e giudiziario controverso, di cui questa Rivista ha già dato conto in occasione della pronuncia di secondo grado[1].

La vicenda, nota sui media come il “caso Vos Thalassa”, riguarda alcuni migranti soccorsi da un rimorchiatore italiano in acque internazionali, che si erano opposti con la forza al tentativo del capitano di riportarli sulle coste libiche da cui provenivano (per una più dettagliata ricostruzione dei fatti, rimandiamo alla nota alla sentenza d’appello); i due soggetti individuati come responsabili della rivolta erano stati rinviati a giudizio per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

In primo grado il Tribunale aveva ritenuto che i fatti provati dall’accusa integrassero gli estremi oggettivi e soggettivi dei delitti contestati, ma aveva assolto gli imputati, in quanto aveva riconosciuto loro la scriminante della legittima difesa, sul presupposto che essi avessero agito per tutelare il proprio diritto al non refoulement, cioè il diritto a non venire rinviati in un Paese, la Libia, ove sarebbero stati esposti al concreto pericolo di torture e trattamenti inumani o degradanti[2].

La sentenza d’appello era giunta invece a conclusioni opposte, sulla base del fatto che gli imputati si sarebbero posti volontariamente in una situazione di pericolo, provando, d’intesa con gli scafisti, a raggiungere irregolarmente l’Italia su un’imbarcazione inidonea, in attesa dell’arrivo dei soccorsi, e dunque sarebbe risultato insussistente il requisito della non volontaria causazione del pericolo, implicitamente richiesto dall’art. 52 c.p.; all’esito di una motivazione molto dura nei confronti della sentenza di primo grado (cui veniva rimproverato di avere stravolto i contorni della scriminante pur di pervenire ad una decisione assolutoria, motivata da ragioni ideologiche), entrambi gli imputati erano stati condannati alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione[3].

 

2. La sentenza della Cassazione prende le mosse dal ricordare come sui giudici d’appello, che intendano condannare un imputato assolto in primo grado, incomba un onere di motivazione rafforzata, che impone di: "a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, completa del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico, probatorio, giuridico – la nuova decisione assunta (…) Il ribaltamento della decisione di primo grado deve conseguire non ad una mera critica ‘orizzontale’, cioè solo ad una diversa valutazione dello stesso materiale di prova, quanto, piuttosto, all’accertamento di un ‘errore’ di giudizio commesso dal giudice di primo grado alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema devoluto”[4]. A giudizio della Cassazione, la sentenza della Corte d’appello di Palermo si mostra gravemente inadempiente a tale rigoroso onere argomentativo.

 

3. La Cassazione constata anzitutto che “dalla sentenza impugnata emerge come la Corte d’appello non abbia sostanzialmente affrontato e risolto nessuno dei temi e dei punti a lei devoluti, su cui il Giudice di primo grado, il Pubblico Ministero e le parti si erano a lungo impegnati; essendosi limitata a mostrare dubbi e perplessità – in realtà non esplicitati – sia sulla ricostruzione giuridica recepita dal tribunale, sia su quella portata alla sua cognizione dal Pubblico ministero appellante”[5].

Venendo poi all’analisi critica dei singoli argomenti utilizzati dalla sentenza d’appello per negare la legittima difesa, la Cassazione si confronta subito con la questione (decisiva per i giudici d’appello) della mancanza del requisito della non volontaria causazione del pericolo. La sentenza riporta testualmente i passaggi in cui la Corte d’appello di Palermo aveva argomentato la propria convinzione che gli imputati fossero responsabili in collusione con gli scafisti della situazione di pericolo cui si erano volontariamente esposti al fine di essere soccorsi ed entrare così irregolarmente in Italia: con le parole della sentenza d’appello, citate dalla Cassazione, “le condotte violente contestate ai due imputati non sono state poste in essere per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui da pericolo di un’offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio (per i migranti) di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte della Vos Thalassa di un ordine impartito da uno stato sovrano (la Libia: n.d.a.) che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi”[6].

Posta la lapidaria premessa che “quello della Corte d’appello è un ragionamento obiettivamente viziato, che viola l’obbligo di motivazione rafforzata per più ordini di ragioni e che non fa corretta applicazione della legge penale”, la Cassazione sottolinea in primo luogo come la ricostruzione dei fatti prospettata dalla corte palermitana, per cui come appena visto gli imputati avrebbero gestito insieme agli scafisti il viaggio verso l’Italia, non sia stata prospettata dal Pubblico ministero appellante (e dunque costituisca “un tema probatorio non devoluto e tuttavia riscritto d’ufficio dalla Corte d’appello”[7]), e risulti del tutto sfornita di alcun supporto probatorio.

Ad essere viziato secondo la Cassazione è poi anche il ragionamento giuridico della sentenza impugnata, che si fonda su una impropria “sovrapposizione tra il pericolo di naufragio e il pericolo derivante da un respingimento in un luogo non sicuro, con conseguente rischio per le persone di trattamenti inumani[8]”. È uno snodo a nostro avviso cruciale della motivazione, che merita di essere riportato per esteso: “ciò che rileva nel caso in esame non è il pericolo di naufragio, cioè il pericolo derivante da una situazione che, al momento in cui la condotta fu compiuta, aveva cessato di essere attuale per effetto dei soccorsi, quanto, piuttosto, la diversa situazione di pericolo derivante dal respingimento verso la Libia, per evitare la quale gli imputati tennero i contegni aggressivi a loro rimproverati. Ciò che non è stato spiegato dalla Corte è, da una parte, perché, pur volendo ipotizzare che i migranti fossero ‘complici’ degli scafisti quanto alla causazione del pericolo di naufragio, anche la seconda situazione di pericolo sarebbe comunque riconducibile alla prima ed entrambe sarebbero imputabili ai ricorrenti, e, dall’altra, perché, rispetto al respingimento in un luogo non sicuro ed alla connessa situazione di pericolo – in relazione al quale, solo, avrebbe dovuto essere verificata la sussistenza della legittima difesa – le persone migranti sarebbero state prive di diritti da far valere”[9].

 

4. Una volta constatata l’insostenibilità fattuale e giuridica della ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, la Corte individua i tre passaggi logici che la Corte d’appello avrebbe dovuto compiere, e non ha compiuto, per valutare la sussistenza della scriminante, cioè verificare se : “a) il respingimento verso la Libia causò una situazione di ‘pericolo di offesa ingiusta’; b) i migranti, in particolare, fossero titolari di un diritto a non essere respinti verso un Paese in cui sarebbero stati esposti al pericolo di torture e trattamenti inumani e degradanti; c) se fosse legittima una loro reazione”[10].

Per quanto riguarda il fondamento giuridico del diritto al non respingimento, rispetto al quale i giudici palermitani si erano espressi in modo ambiguo e perplesso, la Cassazione ne ripercorre i tratti salienti, a partire dalla sua configurazione nella fondamentale decisione Hirsi della Corte EDU del 2012 (che, come si ricorderà, aveva condannato l’Italia proprio per un caso di respingimento di migranti verso le coste libiche da cui provenivano); decisione che viene ampiamente ripresa anche in relazione al problema del fondamento della giurisdizione italiana rispetto a ipotesi di soccorsi avvenuti in acque internazionali. La Libia, ribadisce poi la Cassazione, non può considerarsi un luogo sicuro, e non inficia in alcun modo tale considerazione la circostanza, valorizzata invece dalla sentenza d’appello, che l’Italia abbia sottoscritto con tale Paese nel 2017 un memorandum d’intesa in materia di immigrazione.

 

5. La Cassazione individua ulteriori punti deboli della decisione impugnata (che non chiarisce perché gli imputati non avessero il diritto ad opporsi al tentativo di illecito respingimento, né perché la loro condotta non dovrebbe reputarsi necessaria e proporzionata rispetto alla tutela di tale diritto), e si conclude con parole molto severe: “una sentenza, quella impugnata, viziata sul piano della motivazione e nell’applicazione della legge penale in ordine ad entrambe le imputazioni, ai temi fondanti relativi alla oggettiva configurabilità dei reati contestati, alla responsabilità degli imputati. Dunque, una sentenza che deve essere annullata senza rinvio perché i fatti non sussistono”.

 

***

 

6. Quando avevamo commentato, sulle pagine di questa Rivista, le motivazioni della sentenza d’appello dei giudici palermitani, ci eravamo augurati che la Corte di Cassazione volesse porre rimedio a quella che ritenevamo una gravissima violazione del diritto al non refoulement; anche perché, concludevamo, in ipotesi di conferma della decisione di condanna il caso sarebbe stato sicuramente portato all’attenzione della Corte EDU, e la condanna dell’Italia sarebbe stata inevitabile, perché negare il diritto al non refoulement significa violare l’art. 3 CEDU, che come noto fa da fondamento normativo di tale diritto nel sistema convenzionale. Come appena visto, i giudici di legittimità hanno rimediato al vulnus al diritto al non refoulement arrecato dalla corte palermitana, annullando la decisione d’appello con toni di particolare durezza nell’articolazione delle censure.

 

7. L’argomento centrale utilizzato dalla sentenza d’appello per negare la legittima difesa stava nell’asserita mancanza del requisito della non volontaria causazione del pericolo, e proprio sull’inconsistenza di tale argomento si è concentrata anzitutto l’attenzione della Cassazione.

Il ragionamento dei giudici palermitani è insostenibile in primo luogo perché è priva di alcun riscontro probatorio la ricostruzione del fatto posta a suo fondamento, per cui gli imputati sarebbero stati corresponsabili insieme agli scafisti dell’organizzazione del viaggio, ed avrebbero volontariamente creato il pericolo di naufragio al fine di essere soccorsi ed arrivare irregolarmente in Italia sulle navi dei soccorritori. Proprio questo aspetto di totale carenza probatoria, in più passaggi messo in luce dalla Cassazione, è a nostro avviso particolarmente significativo del fortissimo pregiudizio ideologico che stava alla base della decisione riformata. La Corte d’appello ritiene accertato un fatto (la collusione tra i migranti-imputati e gli esponenti delle bande criminali che gestiscono i viaggi dalla Libia) che neppure è mai stato oggetto di indagine, perché evidentemente il suo pregiudizio nei confronti di chi intraprende il viaggio dalla Libia è talmente radicato, da farle ritenere come un dato di comune esperienza che migranti e scafisti agiscano di concerto per realizzare l’arrivo di stranieri irregolari in Italia. Poco importa che, nel caso concreto, non vi sia alcuna prova di legami tra gli imputati e gli organizzatori del viaggio; né importa a quali condizioni di detenzione fossero costretti gli imputati in Libia, e a quale rischio si esponessero qualora fossero stati costretti a tornarvi. La tesi politica e mediatica che esige l’impiego di ogni mezzo per fermare gli sbarchi dalla Libia prende il sopravvento su un’analisi rigorosa dei fatti (nella loro cornice generale come nella specificità del caso concreto), e i migranti nella sentenza d’appello diventano ex abrupto complici degli scafisti, che si oppongono alle legittime richieste delle autorità libiche.

Anche la cornice giuridica entro cui la sentenza d’appello inquadra la presunta cointeressenza tra imputati e scafisti non sfugge alla censura della Cassazione. Era proprio l’aspetto su cui più ci eravamo soffermati nella nostra nota alla sentenza palermitana, quando ne avevamo sottolineato l’errore consistente nel confondere il pericolo di naufragio (rispetto a cui eventualmente poteva sostenersi la volontaria causazione, qualora fosse risultato provato l’accordo tra gli imputati e gli scafisti) e il pericolo di respingimento (rispetto al quale invece l’eventuale accordo con gli scafisti non avrebbe comunque fatto venir meno il carattere non volontario). La Cassazione giunge alle medesime conclusioni, rimproverando alla sentenza impugnata di non avere in alcun modo chiarito perché l’eventuale accordo con gli scafisti avrebbe fatto venir meno il carattere involontario del pericolo di respingimento, rispetto al quale la sentenza di primo grado aveva impostato il riconoscimento della legittima difesa.

 

8. In effetti, la soluzione di negare il carattere involontario del pericolo costituiva un’evidente forzatura logica, in quanto presupponeva l’individuazione di un pericolo palesemente diverso da quello al quale si erano opposti gli imputati. Tale escamotage era tuttavia il solo che consentisse alla Corte d’appello di negare la legittima difesa, e condannare l’imputato, senza ammettere esplicitamente il vero presupposto logico della decisione, cioè la legittimità dei respingimenti verso la Libia. Avevamo evidenziato nella nota alla decisione di secondo grado come in più passaggi emergesse tale convinzione: quando la sentenza parlava della Guardia costiera libica come dell’autorità competente per la zona SAR ove era avvenuto il naufragio, ai cui ordini si erano illegittimamente ribellati gli imputati, dimenticando che proprio la Guardia costiera libica è sotto inchiesta presso la Corte penale internazionale per i crimini perpetrati nei confronti dei migranti che transitano dalla Libia; oppure quando venivano messe in discussione le tragiche condizioni dei campi di detenzione per migranti in Libia, oggetto di infiniti rapporti di ONG ed istituzioni internazionali, e peraltro accertate anche in decisioni definitive delle nostre giurisdizioni penali.

Anche rispetto a tale questione le parole della Cassazione sono chiarissime. La Libia non è un porto sicuro per i migranti, ed è contrario al rispetto dei diritti fondamentali operare respingimenti verso tale Paese: dopo questa esplicita ed inequivocabile presa di posizione dei giudici supremi, è lecito augurarsi che in futuro non debbano più registrarsi decisioni che, in modo più o meno esplicito, pongano in discussione tale assunto.

 

9. È infine il caso di ricordare che, se la sentenza della Cassazione, annullando la decisione che violava il diritto al non refoulement, ha impedito che la questione fosse portata all’attenzione dei giudici di Strasburgo per la violazione dell’art. 3 CEDU, sotto altro profilo la vicenda della Vos Thalassa sarà comunque oggetto di scrutinio da parte della Corte EDU, in ragione di un ricorso depositato nel gennaio 2019 (e comunicato al Governo nel dicembre 2021)[11]. All’attenzione della Corte sono state portate le dichiarazioni rese dagli allora Ministri Salvini (Ministro dell’interno) e Toninelli (Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture), che quando ancora la vicenda non si era conclusa, e dunque neppure era stato aperto alcun procedimento nei confronti dei responsabili dell’ammutinamento, si erano espressi in termini inequivoci in ordine alla loro colpevolezza: secondo i ricorrenti, tali dichiarazioni avrebbero comportato una violazione del principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 6 § 2 CEDU.

Nelle “questions aux parties” che la Corte formula al momento di comunicare il ricorso al Governo, vengono testualmente riprese due espressioni del Ministro dell’interno (in una delle quali egli dichiarava che non avrebbe autorizzato lo sbarco sino a quando non avesse avuto la garanzia che “i delinquenti, che non sono rifugiati, non andranno in albergo ma in prigione prima di essere rispediti nel loro Paese”), e la Corte chiede al Governo ed ai ricorrenti di esprimersi in ordine alla compatibilità di tali espressioni con la presunzione di innocenza come interpretata dalla giurisprudenza in materia di art. 6 § 2, oltre che alla sussistenza nell’ordinamento interno di “un recours, civil et/ou pénal, par lequel ils auraient pu invoquer de manière effective le droit à la présomption d’innocence dont ils se prévalent aujourd’hui devant la Cour”.

Anche alla luce della stessa giurisprudenza citata nelle questions dalla Corte[12], il ricorso ci pare fondato su argomenti molto solidi. Le decisioni citate, e più in generale la maggior parte dei casi in materia di violazione della presunzione di innocenza per dichiarazioni di autorità pubbliche in sedi extra-processuale, fanno riferimento ad ipotesi di conferenze stampa rese dagli organi inquirenti all’esito di un’operazione di polizia, e il problema è sino a che punto le autorità possano spingersi nel presentare gli elementi raccolti come sufficienti per un giudizio di colpevolezza[13]. Ci troviamo quindi di fronte a situazioni ben diverse da quella oggetto del ricorso nel caso in esame, ove il Ministro dell’interno si era espresso con toni triviali (“li voglio vedere in manette, devono andare in galera”) quando i migranti neppure erano ancora sbarcati in Italia, e dunque un procedimento neppure poteva essere stato avviato: la violazione della presunzione di innocenza, quando non un quisque de populo, ma il Ministro da cui dipendono gerarchicamente le forze di polizia del nostro Paese, dichiara senza mezzi termini che dei soggetti neppure indagati vanno “messi in galera”, ci pare davvero difficile da negare. Nel caso specifico la violazione è poi ancora più eclatante visto l’esito finale del procedimento in sede di legittimità, ma il dato non è di per sé decisivo ai fini del giudizio della Corte, la quale al momento della formulazione delle questions era a conoscenza della condanna della Corte d’appello, ma non della decisione assolutoria della Cassazione intervenuta successivamente.

Se dunque il ricorso alla Corte EDU è del tutto indipendente dall’esito della vicenda giudiziaria in sede penale, il tratto comune alle due procedure è la constatazione di quanto il non refoulement (verso la Libia) sia un diritto fondamentale a grave rischio di violazione, al punto che chi è stato costretto all’uso della forza per reclamarlo viene prima additato come un criminale dal Ministro dell’interno, e poi addirittura condannato (in sede d’appello). La sentenza in commento ha posto rimedio alla violazione arrecata dalla Corte d’appello palermitana; ora bisognerà attendere la decisione della Corte EDU per rimediare alla violazione arrecata dall’allora Ministro dell’interno.

 

 

 

[1] C. app. Palermo, 3 giugno 2020 (dep. 24 giugno 2020), in questa Rivista, con nota di L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia non possono invocare la legittima difesa: una decisione che mette in di-scussione il diritto al non refoulement, 21 luglio 2020

[3] Per un commento alla sentenza di secondo grado, cfr. anche A. Natale, Il caso Vos Thalassa: il fatto, la lingua e l’ideologia del giudice, in Quest. giust., 23.7.2020.

[4] Pag. 9

[5] Pag. 13

[6] Pag. 14

[7] Ibidem.

[8] Pag. 15

[9] Pag. 16

[10] Ibidem.

[11] Ricorso n. 3925/19, reperibile sul sito della Corte EDU.

[12] Le questions aux parties fanno riferimento, per quanto riguarda la giurisprudenza relativa all’art. 6 § 2, a Allenet de Ribemont c. France, 10.2.1995, e a Y.B. et al c. Turchia, n. 48173/99 et 48319/99, 28.10.2004.

[13] Per una rassegna della giurisprudenza in materia, cfr. per tutti R. Chenal, A. Tamietti, Art. 6, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova 2012, p. 222 ss.