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13 Febbraio 2023


Il d.l. Piantedosi sulle operazioni di soccorso in mare: l’ennesimo tentativo di impedire ciò che il diritto internazionale impone e il problema della depenalizzazione come fuga dalla giurisdizione


*Il presente contributo è destinato alla pubblicazione sul fascicolo 2/2023.

 

1. Premessa e precedenti normativi. - È attualmente in fase di conversione in Parlamento il decreto-legge n. 1/2023 (contenente “disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”), con cui il Governo ha inteso fornire una nuova regolamentazione delle attività delle ONG che svolgono operazioni di search and rescue (SAR) nelle acque del Mediterraneo centrale. La questione dei rapporti con tali ONG era emersa con clamore sin dai primi giorni dall’insediamento del nuovo Governo, con la ben nota vicenda delle due imbarcazioni (la Geo Barents, di Medici senza Frontiere, e la Humanity 1, di SOS Humanity) cui nel mese di ottobre era stato concesso di sbarcare nel porto Catania solo donne e minori (i cd. sbarchi selettivi), sino a che era stata l’autorità sanitaria ad imporre di fare scendere a terra dopo alcuni giorni tutte le persone presenti a bordo; e con l’episodio dell’altra nave (la Ocean Viking, di SOS Mediterranée) che, vistosi rifiutare l’ingresso nelle acque italiane, si era diretta in Francia, provocando la dura reazione diplomatica del Governo francese. La ragione dell’insuccesso nella gestione di tali vicende era stata individuata dalla compagine governativa anche nell’inadeguatezza della disciplina normativa relativa alle attività di soccorso in mare da parte di privati, e il decreto-legge ora in fase di conversione vuole, secondo gli intendimenti del Governo, fornire all’autorità amministrativa gli strumenti normativi necessari per gestire in modo efficace le operazioni di soccorso in mare da parte delle ONG. Dal momento tuttavia che l’attività delle ONG è già stata negli ultimi anni oggetto di diversi interventi di regolamentazione, per comprendere l’effettiva portata innovativa del decreto ci pare utile prima ripercorrere sinteticamente il contenuto di tali interventi[1].

 

1.1 Il Codice di condotta del 2017. - Il primo intervento di regolamentazione delle attività delle ONG che svolgono attività SAR si deve al Governo Gentiloni, con il cd. codice di condotta emanato dal Ministro dell’interno Minniti nel luglio 2017.

Nel 2016 si era assistito ad un consistente aumento del numero di arrivi via mare sulle nostre coste, e nei primi mesi del 2017 aveva iniziato a diffondersi a livello di opinione pubblica un atteggiamento di diffidenza se non di vera e propria ostilità nei confronti delle ONG, accusate da diverse parti di essere un pull factor delle partenze dalla Libia (celebre è rimasta la definizione di taxi del mare formulata dall’allora on. Di Maio); tale sentimento trova per la prima volta una veste formale con l’emanazione da parte del Governo, verso la fine del mese di luglio 2017, di un “Codice di condotta per le ONG impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare”, alla cui sottoscrizione viene subordinata la possibilità per le ONG di continuare a collaborare con le autorità italiane nella gestione dei soccorsi. Sul presupposto che “l’attività di salvataggio non può essere disgiunta da un percorso di accoglienza sostenibile e condiviso con gli altri Stati membri”, e richiamandosi alle conclusioni raggiunte nella riunione informale dei Ministri della giustizia e degli interni dell’UE svoltasi a Tallin il 6 luglio 2017, ove era stata accolta con favore la proposta italiana di formulare “una serie di regole chiare” che le ONG impegnate nei soccorsi in mare avrebbero dovuto rispettare, il Governo individua 13 “impegni” che le ONG devono assumere[2], pena la possibile “adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti della relative navi”.

La finalità del “codice” appare evidente sin dal primo impegno richiesto alle ONG, cui si domanda di “non ostacolare l’attività di Search and Rescue (SAR) da parte della Guardia costiera libica”: l’obiettivo politico che persegue il Governo è quello di far sì che i migranti in difficoltà in mare non arrivino in Italia, ma vengano rimandati in Libia, e alle ONG si richiede in maniera esplicita di non ostacolare il raggiungimento di tale proposito. Il testo, da un punto di vista del sistema delle fonti, ha un valore assai modesto, trattandosi semplicemente di raccomandazioni operative formulate dall’autorità governativa e sottoposte alla sottoscrizione delle ONG che intendano accoglierle; un testo quindi privo di rango normativo, anche regolamentare, in quanto non configura altro che un accordo tra il Governo e le ONG che vi aderiscono, al fine di stabilire i presupposti ritenuti necessari dal Governo perché le ONG vengano coinvolte dalla Guardia costiera nella gestione dei soccorsi.

L’opzione per uno strumento di soft law non è d’altra parte per nulla casuale. Il Governo è ben consapevole che l’attività delle ONG deriva la propria liceità dalle numerose convenzioni internazionali che regolano il soccorso in mare, e che rendono non solo lecito, ma altresì doveroso l’intervento a sostegno di qualsiasi imbarcazione che si trovi in pericolo, e il successivo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro. Introdurre in un testo di legge o di regolamento disposizioni volte ad ostacolare l’operatività delle ONG avrebbe comportato il rischio assai elevato di violazioni della normativa internazionale in materia di search and rescue, e si sceglie per questo una soluzione che, in ragione della sua valenza non direttamente precettiva, sfugge alle maglie del controllo giurisdizionale, consentendo così di lanciare all’opinione pubblica il messaggio di un cambio di politica nei confronti delle ONG, senza esporsi alla probabile censura in sede giudiziaria di una norma che ponesse ostacoli all’attività dei soccorritori.

 

1.2. Il cd. decreto Salvini-bis del 2019. - Il secondo intervento giunge poco più di 2 anni dopo, con l’emanazione del cd. decreto Salvini-bis (o decreto sicurezza-bis, d.l. n. 53 del 14.6.2019, conv. in l. n. 77 dell’8.8.2019), che intende portare ad ulteriori sviluppi la politica di crimmigration varata con il decreto-legge su “sicurezza e immigrazione” dell’autunno 2018 (cd. decreto Salvini, d.l. n. 113 del 4.10.2018, conv. in l. n. 132 del 1.12.2018). Per quanto riguarda i rapporti con le ONG, il Governo Conte 1, sin dai primi giorni dal suo insediamento, aveva rivendicato la politica dei cd. “porti chiusi”, caratterizzata dalle lunghe attese cui erano costrette le navi umanitarie prima di poter attraccare in Italia, e l’intervento del 2019 vuole fornire di una più solida base normativa i poteri di interdizione che nei mesi precedenti il Ministro dell’interno aveva comunque già esercitato nei confronti delle ONG.

Il decreto-legge interviene così sugli artt. 11 (Potenziamento e coordinamento dei controlli di frontiera) e 12 (Disposizioni contro le immigrazioni clandestine) del TUI (Testo unico sull’immigrazione, d.lgs. 286/1998), prevedendo un potere di interdizione all’ingresso di navi civili in capo al Ministro dell’interno, che può esercitarlo quando sussistano motivi di ordine pubblico o di sicurezza, o “quando si concretizzano le condizioni di cui all'articolo 19, paragrafo 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982”: in sostanza, non si fa che esplicitare a livello normativo un potere che, nella prassi dei mesi precedenti, il Ministro aveva già esercitato, negando sistematicamente il permesso di fare ingresso nelle acque territoriali alle navi delle ONG. La formulazione dei presupposti per l’esercizio del potere di negare l’ingresso sono ricavati facendo riferimento a quanto disposto dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, e nella norma approvata dal Parlamento, dopo che rispetto alla versione originaria del decreto erano state sollevate forti censure di illegittimità rispetto al dovere di soccorso invocato dalle ONG, si ha cura di precisare che l’attribuzione ministeriale deve essere esercitata “nel rispetto degli obblighi internazionali dell'Italia”.

La novità più significativa riguarda l’apparato sanzionatorio introdotto a corredo del nuovo divieto. Il Governo decide di non ricorrere, nei casi di inottemperanza, allo strumento della sanzione penale (peraltro, invece, sistematicamente utilizzata per le infrazioni alle disposizioni del TUI), che presupponendo l’attivazione dell’autorità giudiziaria, avrebbe sottratto all’autorità amministrativa il potere di applicare la sanzione. La comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo elevatissimo (sino a 1 milione di euro), accompagnata dalla previsione di sequestro e confisca obbligatoria (sempre in via amministrativa), attribuisce all’autorità amministrativa (i prefetti e dunque, in via gerarchica, il Ministro dell’interno) la potestà sanzionatoria, e rende solo successivo ed eventuale l’intervento dell’autorità giudiziaria: l’efficacia e la prontezza della sanzione amministrativa vengono preferite alla sanzione penale, la cui maggiore efficacia stigmatizzante viene evidentemente ritenuta subvalente rispetto alla maggiore “maneggevolezza” del sistema sanzionatorio amministrativo. In termini più prosaici: se il sequestro e la confisca della nave, che sono il vero obiettivo dell’intervento normativo, sono nelle mani del giudice penale, è molto improbabile che vengano disposte rispetto alle navi dei soccorritori, che agiscono in conformità al diritto internazionale del mare; se invece a decidere sono i prefetti, la misura ablativa può intanto essere eseguita, e se mai saranno le ONG a doverne fare valere l’illegittimità davanti all’autorità giudiziaria.

 

1.3. Il cd. decreto Lamorgese del 2020. - Poche settimane dopo la conversione in legge del decreto, il Governo Conte 1 viene sostituito dal Conte 2, che, a seguito del cambiamento della maggioranza politica che lo sostiene, muta atteggiamento nei confronti delle ONG, con la conseguenza che il nuovo Ministro dell’interno Lamorgese non esercita in alcuna occasione il potere di interdizione all’ingresso attribuitole dalla nuova normativa, che tuttavia rimane in vigore sino all’autunno del 2020, quando viene abrogata dal cd. decreto Lamorgese (d.l. 21.10.2020, n. 130, conv. in l. 18.12.2020, n. 173).

L’intervento riformatore deve tenere conto dei delicati equilibri della nuova maggioranza M5S-PD riguardo al tema in esame, e dunque all’abrogazione del decreto Salvini-bis, ritenuta politicamente irrinunciabile dal PD, si accompagna l’introduzione di una nuova disciplina, che a ben vedere non si distanzia poi molto da quella precedente.

Infatti, se il co. 1 dell’art. 1 del decreto Lamorgese procede appunto all’abrogazione delle norme introdotte nel 2019, il co. 2 del medesimo art. 1, riproduce in buona sostanza la disciplina abrogata, disponendo che “fermo restando quanto previsto dall'articolo 83 del codice della navigazione, per motivi di ordine e sicurezza  pubblica, in conformità alle previsioni della Convenzione delle Nazioni  Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre  1994,  n. 689, il Ministro dell'interno, di  concerto  con  il  Ministro  della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri, può limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale”: le sole differenze rispetto alla norma abrogata sono che non vi è più il richiamo all’art. 19 § 2 della Convenzione di Montego Bay, cui invece si fa ora rinvio con una clausola di portata generale, che comunque ricomprende logicamente anche il precedente riferimento esplicito all’art. 19, e che il divieto riguarda ora solo il transito e la sosta, e non più l’ingresso nelle acque territoriali.

Una modifica più significativa parrebbe rinvenirsi nel periodo successivo della norma, ove è previsto che “le disposizioni del presente comma non trovano comunque applicazione nell'ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in  materia di diritto del mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e delle norme  nazionali,  internazionali ed europee in materia di diritto  di  asilo, fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità  transnazionale   organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146”. E tuttavia, basta una lettura appena più attenta della norma per osservare che in concreto l’eventualità di disporre un divieto di ingresso si prospetterà solo qualora la nave dei soccorritori non abbia agito in adempimento delle indicazioni fornitele dalla Guardia costiera italiana, salvo in caso contrario immaginare l’assurdo di una nave che esegua quanto richiestole dall’autorità italiana, e si veda dalla stessa autorità negato il permesso di transitare o sostare nelle acque nazionali: e ciò dovrebbe bastare per ritenere questa parte della norma (tanto enfatizzata sui media, sia da parte dei sostenitori che dei detrattori della riforma) niente altro che un flatus voci, posto che se vi è stato il rispetto delle indicazioni dell’autorità italiana, neanche ha senso porsi il problema della possibilità di emanare un divieto di transito o di sosta.

Più significative risultano le modifiche all’apparato sanzionatorio. Al posto delle elevatissime sanzioni amministrative previste dalla normativa abrogata, il terzo periodo della norma dispone che “si applica l'articolo 1102 del codice della navigazione[3] e la multa è da euro 10.000 ad euro 50.000”. Da illecito amministrativo, la violazione del divieto diventa dunque un delitto, punito con pena cumulativa della reclusione (sino a due anni) e della multa (di importo assai elevato considerando la dosimetria sanzionatoria del nostro legislatore penale). Una riforma che ha l’esplicito e rivendicato scopo di “ammorbidire” il trattamento sanzionatorio nei confronti delle ONG vede quindi il passaggio dall’illecito amministrativo all’illecito penale (punito anche con pena detentiva): un dato perlomeno curioso, sul quale avremo modo di tornare nel prosieguo di queste note.

 

2. Il contenuto del decreto oggi in sede di conversione. - Il decreto-legge qui in commento interviene sulla disposizione del decreto Lamorgese appena analizzata sopra, lasciando inalterato il primo periodo della norma (dove, come visto appena sopra, è previsto il potere del Ministro dell’interno di vietare il transito e la sosta nelle acque nazionali per motivi di ordine e sicurezza pubblica), e abrogando invece il secondo periodo (relativo alla non applicabilità del divieto nelle ipotesi di operazioni compiute nel rispetto delle indicazioni dell’autorità) e il terzo (contenente l’apparato sanzionatorio).

In luogo del secondo periodo vengono introdotti due nuovi commi. Il co. 2-bis prevede che “Le disposizioni del comma 2 non si applicano nelle ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area  di responsabilità si svolge l'evento e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle  convenzioni internazionali in materia di  diritto del  mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali  ed  europee  in materia di diritto di asilo, fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni  Unite  contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146. Ai fini del presente comma devono ricorrere congiuntamente le seguenti condizioni: a) la nave che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare opera in conformità ad autorizzazioni o abilitazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato di bandiera ed è in possesso dei requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione; b) sono state avviate tempestivamente iniziative volte  a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità; c) è stata richiesta,    nell'immediatezza dell'evento, l'assegnazione del porto di sbarco; d) il porto di sbarco assegnato  dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell'intervento di soccorso; e) sono fornite alle autorità per la ricerca e  il  soccorso  in mare italiane, ovvero, nel caso di assegnazione del porto di sbarco, alle autorità di pubblica sicurezza, le informazioni  richieste ai fini dell'acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata dell'operazione di soccorso posta in essere;  f) le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non hanno concorso a creare situazioni di pericolo a bordo ne' impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco”.

Il co. 2-ter regola poi le ipotesi di pericolo per l’incolumità dei naufraghi, prevedendo che “il transito e la sosta di navi nel mare territoriale sono comunque garantiti ai soli fini di assicurare il soccorso e l'assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità, fatta salva, in caso di violazione del provvedimento adottato ai sensi del comma 2, l'applicazione delle sanzioni di cui ai commi 2-quater e 2-quinquies”.

I commi da 2-quater a 2-septies contengono infine la nuova e assai articolata disciplina sanzionatoria. In sintesi, per il comandante che violi il divieto disposto ai sensi del co. 2 è prevista la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro, e la sanzione accessoria del fermo amministrativo per due mesi dell’imbarcazione utilizzata per commettere la violazione, con nomina come custode dell’armatore che fa cessare la navigazione e provvede alla custodia della nave a proprie spese; in casi di reiterazione della violazione commessa con l’uso della medesima imbarcazione, si applica la sanzione amministrativa accessoria della confisca, previo sequestro cautelare del natante. Fuori dei casi di adozione del divieto di cui al co. 2, quando il comandante o l’armatore non fornisce le informazioni richieste dall’autorità competente o non si uniforma alle indicazioni della stessa, si applica la sanzione amministrativa da 2.000 a 10.000 euro, con fermo amministrativo della nave per 20 giorni (il fermo è di due mesi in caso di reiterazione della violazione, mentre è prevista la confisca in caso di ulteriore reiterazione).

Il decreto attualmente in fase di conversione presenta dunque profili di novità sotto due aspetti, che andremo ora ad analizzare nel dettaglio: quello del suo contenuto precettivo, e quello del suo apparato sanzionatorio.

 

3. Le novità sotto il profilo del contenuto precettivo.

3.1. Premessa. - Per quanto riguarda il primo profilo, la prima considerazione che appare evidente, alla luce di una valutazione diacronica delle diverse forme di regolamentazione delle attività delle ONG succedutesi negli ultimi anni, è quella di una continuità teleologica tra le stesse, tutte ispirate da una sostanziale diffidenza nei confronti degli operatori umanitari. La volontà di ostacolare l’operato delle ONG è esplicitamente posta a fondamento degli interventi del 2017 e del 2019, ma non viene meno neppure con l’intervento del 2020, che non rappresenta altro che un maquillage ad uso comunicativo della normativa dell’anno precedente, e torna ad essere politicamente rivendicata in relazione al decreto qui in esame.

La novità rappresentata da tale decreto è quella di operare una sintesi tra l’approccio del 2017 e quello del 2019 e del 2020. Come abbiamo appena visto sopra, nel 2017 si era deciso di formulare una serie di precise indicazioni cui le ONG dovevano attenersi nello svolgimento della loro attività, senza tuttavia stabilire normativamente alcuna conseguenza nell’ipotesi in cui tali indicazioni non venissero rispettate; nel 2019 e nel 2020 si era invece optato per attribuire con fonte di rango primario al Ministro dell’interno il potere di vietare il transito o la sosta delle navi ONG, prevedendo una sanzione qualora il divieto venisse violato, ma non erano state indicate in modo puntuale le condotte delle ONG che legittimavano l’emissione di un tale divieto. Ora il decreto da un lato ribadisce tale potere del Ministro dell’interno e l’applicazione di sanzioni in caso di violazione degli ordini impartiti dall’autorità competente, ma dall’altro indica anche con precisione alcune condotte delle ONG che legittimano l’esercizio di tale potere. La tecnica normativa è inutilmente contorta, in quanto il nuovo co. 2-bis prima stabilisce che il divieto di transito e sosta non può essere applicato quando siano state rispettate le indicazioni dell’autorità, e poi fissa le condizioni cumulative cui è subordinata tale inapplicabilità: in concreto, ciò equivale a indicare le ipotesi in cui il divieto può essere emesso. Non si tratta in verità di un’elencazione tassativa, in quanto il divieto può essere comunque disposto ogniqualvolta non siano rispettate le indicazioni fornite dall’autorità, anche se diverse da quelle indicate in maniera espressa dalla norma. Il reale significato della riforma è quindi quello di individuare alcune condizioni, tra le molteplici che possono legittimare il potere di interdizione del Ministro dell’interno, che si pongono come presupposti cumulativi di legittimità dell’operato delle ONG: una sorta quindi di mini-codice di condotta, questa volta però dotato di un significativo apparato sanzionatorio.

Se poi si vanno ad analizzare nel merito le singole condizioni poste dalla norma, si può constatare che si tratta in alcuni casi di condizioni già pacificamente soddisfatte nell’operato concreto delle ONG SAR, in altri di condizioni formulate in maniera coì generica, da potersi comunque interpretare nel senso di ritenerle compatibili con le pratiche normalmente attuate; ma non mancano anche condizioni che possono avere un impatto pratico significativo sul sistema di gestione dei soccorsi attualmente praticato dalle ONG.

Ma analizziamo ora singolarmente le singole condizioni previste in via cumulativa dal decreto.

 

3.2. Le singole condizioni individuate dal decreto. -  A) La prima (la verifica che le navi operino “in conformità ad autorizzazioni o abilitazioni in conformità ad autorizzazioni o abilitazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato di bandiera” e siano “in possesso dei requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione”) non fa altro che ribadire l’ovvio. È pacifico, infatti, che le navi delle ONG (come tutte le altre navi, verrebbe da ricordare) possono operare solo se sono dotate di autorizzazione o abilitazione dello Stato di bandiera, e sono in possesso dei requisiti tecnici richiesti per l’attività che svolgono: è una condizione talmente generica, da non avere alcun reale contenuto innovativo. Se mai, come noto, il problema che si è posto negli ultimi anni riguardo alle abilitazioni delle navi delle ONG straniere concerneva i poteri dello Stato del porto (cioè nel nostro caso l’Italia) di operare verifiche speciali per le navi che svolgevano attività SAR, anche se di bandiera straniera; questione complessa, su cui è di recente intervenuta la Corte di giustizia UE[4] (su rinvio pregiudiziale del TAR Sicilia), e sulla cui soluzione ovviamente non è in alcun modo in grado di incidere l’intervento in esame.

 

B) La seconda condizione, relativa al tempestivo avvio delle “iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità”, rientra invece tra le condizioni formulate in modo estremamente generico, al punto che il suo significato risulterebbe oscuro se non si tenesse conto del dibattito politico che ha accompagnato l’approvazione del decreto.

Tra i punti su cui il Governo aveva dichiarato di voler intervenire, vi era quello relativo alla competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice piuttosto che di quello di primo approdo per la raccolta e la valutazione delle domande di protezione internazionale eventualmente presentate dai naufraghi. Secondo la prospettazione di diversi esponenti del Governo, il fatto che le navi delle ONG battano bandiera straniera faceva sì che fosse lo Stato di bandiera (nella maggior parte dei casi, la Germania), e non l’Italia, a doversi fare carico della raccolta delle richieste, in quanto la nave è una porzione di territorio dello Stato di cui porta la bandiera, che sarebbe quindi il vero Stato di primo approdo dei naufraghi. Si tratta di una tesi giuridicamente bizzarra a parere degli internazionalisti che si sono espressi sul punto[5], che non hanno anche mancato di sottolineare che, qualora venisse effettivamente applicata, potrebbe produrre conseguenze di sicuro non previste dai suoi sostenitori, come quella di dover ritenere che chiunque, in qualsiasi parte del mondo, salga a bordo di una nave con bandiera italiana, potrebbe presentare domanda di protezione internazionale ed avrebbe il diritto di essere accolto in Italia per la valutazione della propria domanda.  

Al momento di formulare in termini normativi l’obiettivo politico appena indicato, i redattori della norma si sono evidentemente resi conto della sua irrealizzabilità, posto che si tratterebbe in sostanza di imporre ad un pubblico ufficiale di uno Stato terzo – il capitano della nave battente bandiera straniera – di esercitare il potere di raccogliere formalmente le richieste di protezione internazionale: potere la cui attribuzione invece, come appare ovvio, è di competenza della legislazione dello Stato di bandiera, che a sua volta dovrà conformarsi alla pertinente normativa internazionale e regionale (nel caso di bandiera dell’Unione, il diritto europeo in materia di formalizzazione della richiesta di protezione). È in effetti arduo pensare che la legge italiana possa attribuire ad un capitano, ad esempio tedesco, di esercitare la funzione (ovviamente regolata dalla legge tedesca) di organo idoneo alla raccolta delle richieste di protezione internazionale, così da fondare la competenza dello Stato di bandiera per la valutazione delle domande.

Se allora nei talk-show o sui giornali si può discutere di questa ipotesi come di un’ipotesi seria, il drafting normativo impone di venire a patti con la realtà, e la norma si limita a richiedere ai capitani delle navi di “informare” le persone soccorse e di “raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione della autorità”. Due condotte che all’evidenza non sono idonee a fondare la responsabilità dello Stato di bandiera per la raccolta e la valutazione delle domande di protezione; responsabilità che dunque rimane in capo all’Italia, come Stato di primo ingresso in Europa degli eventuali richiedenti protezione. Se mai si vorrà cambiare tale sistema, sarà necessario lavorare in sede europea per una modifica dell’attuale disciplina in materia; ma certo non può essere una legge italiana ad attribuire ad un organo di uno Stato terzo un potere (quello di raccogliere in modo formale le domande di asilo) che la legge di quello Stato non gli riconosce!

Rimane infine da sottolineare che le attività indicate nel decreto (informazione e raccolta dati) sono già di prassi tenute da molte delle ONG operanti in ambito SAR. Quando la nave ha dimensioni che permettono la presenza a bordo di interpreti e/o mediatori culturali, e quando lo consentono le condizioni del mare e del numero di naufraghi presenti, già oggi le linee-guida seguite dalle ONG prevedono l’illustrazione delle forme di protezione cui i naufraghi possono avere accesso, una volta sbarcati, in ragione della nazionalità di provenienza e di eventuali esigenze personali di protezione; e già ora è prassi delle ONG segnalare all’autorità di polizia di frontiera la presenza di casi da cui emergano particolari fattori di vulnerabilità.

L’informazione e la raccolta dei dati non sempre però è possibile, in quanto diverse delle imbarcazioni coinvolte nelle attività SAR non hanno spazi adeguati per una informazione adeguata in materia di protezione internazionale, che necessita dello svolgimento di colloqui personali e riservati. La nuova disposizione non può allora che venire interpretata alla luce del generale principio dell’ad impossibilia nemo tenetur: se le navi delle ONG hanno, secondo il diritto applicabile, i requisiti per svolgere attività di soccorso, ma non hanno strutture idonee e condizioni logistiche e di personale tali da poter garantire lo svolgimento di una seria informativa sulla protezione internazionale, non può essere loro contestato ciò che risulta materialmente impossibile.

L’esito di tale condizione, per concludere, è quello di sottolineare, in modo tutto sommato condivisibile, l’opportunità di fornire ove possibile una pronta ed adeguata informazione ai naufraghi della possibilità di chiedere il riconoscimento di qualche forma di protezione internazionale, condizione che non dovrebbe creare problemi alle ONG oggi attive in ambito SAR, considerata l’attuale policy delle stesse riguardo l’informativa sulla protezione. Nulla a che vedere con la competenza in materia di raccolta formale e presa in carico delle domande di protezione, che non può che rimanere in capo allo Stato italiano; e nulla ci pare di particolarmente dirompente sulla prassi attualmente in vigore.

 

C-D) La terza e quarta condizione vanno lette congiuntamente, in quanto disciplinano l’attribuzione del POS (place of safety) e le modalità del suo raggiungimento: la nuova norma prevede che deve essere “richiesta, nell'immediatezza dell'evento, l'assegnazione del porto di sbarco, e “il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità (deve essere) raggiunto senza ritardo per il completamento dell'intervento di soccorso”.

Anche in questo caso, il senso della disposizione si comprende alla luce del dibattito che ne aveva preceduto l’approvazione. La nuova normativa si prefiggeva di contrastare la prassi, spesso seguita dalle navi di maggiori dimensioni, di non rientrare subito in porto dopo l’effettuazione di un primo soccorso, se la disponibilità di spazio sulla nave era ancora ampia, attendendo in acque internazionali per qualche giorno eventuali ulteriori richieste di intervento. Il divieto di soccorsi multipli: era questo lo slogan che sui media sintetizzava uno degli obiettivi fondamentali del decreto.

In realtà, dalla lettura della norma, non si evince affatto che le navi, una volta operato un primo soccorso, non possano operare ulteriori operazioni SAR, qualora risultino situazioni di pericolo che richiedono il loro intervento. La disposizione chiede di recarsi “senza ritardo” verso il posto assegnato, ma in alcun modo prescrive di violare la normativa SAR, e di non intervenire se durante la traversata di ritorno vengano segnalati casi di distress.

L’opposta lettura, per cui la nuova norma vieterebbe di operare soccorsi multipli, è stata tuttavia portata all’attenzione della pubblica opinione nella nota inviata al Ministro dell’interno Piantedosi dalla Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović del 26 gennaio, ove si afferma che “this provision risks being applied in such a way taht it culd prevent effective search and rescue by NGO vessels. As had already happened in practice, the provision prevent NGOs from carrying out multiple rescues at ea, forcing them to ignore other distress calls in the area if they already have rescued persons on board, even when they still have capacity to carry out another rescue. By complying with this provision, NGOs’ shipmasters would in fact fail to fulfill their rescue duties under international law[6].

La nota della Commissaria – che peraltro presenta molteplici profili di grande interesse, su cui torneremo oltre – sul punto non pare cogliere esattamente nel segno. Se è vero che nel dibattito pubblico intorno alle ONG il Governo ha a più riprese sostenuto di voler impedire i soccorsi multipli, il decreto non contiene affatto un tale divieto. Il testo della Commissaria si esprime in verità in termini dubitativi circa la possibilità che la norma venga interpretata nel senso di impedire i soccorsi multipli, ma ci pare comunque una preoccupazione poco fondata, considerato il tenore letterale della disposizione. Ritenere che la prescrizione di “raggiungere senza ritardo” il porto assegnato debba venire interpretata come un’imposizione al capitano di violare il diritto internazionale del mare e di non operare altri soccorsi, ci pare una forzatura della semantica della norma, poco compatibile con una sua ragionevole interpretazione letterale e sistematica.

Ha allora buon gioco il rappresentante del Governo italiano presso il Consiglio d’Europa, nell’informativa fornita il 1 febbraio, a replicare sul punto alla Commissaria, ricordando che “le nuove disposizioni non impediscono alle ONG di effettuare interventi multipli in mare, né, meno che mai, le obbligano ad ignorare eventuali ulteriori richieste di soccorso nell’area, qualora già abbiano preso a bordo delle persone”. E del resto, nel primo caso in cui, dopo l’entrata in vigore del decreto, una nave ONG ha operato soccorsi multipli (la Geo Barents, di MSF), il prefetto territorialmente competente per l’applicazione delle sanzioni previste dalla nuova normativa in caso di violazione del decreto (il prefetto di La Spezia, dove la nave aveva ricevuto l'ordine di sbarcare i soccorsi) non ha applicato alcuna sanzione, e la nave, una volta sbarcati i naufraghi, ha potuto riprendere senza indugi la propria attività SAR. È pur vero che al momento in cui si scrivono queste note non sono ancora decorsi i termini per un’eventuale attivazione della potestà sanzionatoria, e da notizie di stampa il Viminale avrebbe fatto trapelare che la decisione se applicare o meno sanzioni è ancora sub iudice. Tuttavia, dopo la formale presa di posizione del Governo in sede di Consiglio d’Europa, ove si esclude che il decreto vieti i soccorsi multipli, ci pare davvero improbabile che un’articolazione periferica dello stesso Governo arrivi ad applicare una sanzione perché, dopo il primo soccorso, si è dato seguito alle richieste di soccorso pervenute nel frattempo.

Piuttosto, l’avere concentrato l’attenzione sul divieto di soccorsi multipli (di cui tanto si è parlato a livello mediatico, ma che nel decreto non c’è), non deve distogliere l’attenzione da quello che rappresenta il vero nodo problematico della nuova disciplina, che viene in evidenza proseguendo nella lettura della risposta del Governo italiano alla Commissaria. Appena dopo avere a ragione negato che il decreto contenga un divieto di soccorsi multipli, il Governo esplicita che “ciò che la nuova norma intende evitare è, piuttosto, la sistematica attività di recupero dei migranti nelle acque antistanti le coste libiche o tunisine, al fine di condurli esclusivamente in Italia, senza alcuna forma di coordinamento. Tale modus operandi diffuso tra le ONG, si pone al di fuori delle fattispecie previste dalle Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare; inoltre, ingenerando nei trafficanti di essere umani l’aspettativa di sicuro ed immediato intervento appena al largo della aree di partenza, ha finito con il determinare – a prescindere dalle intenzioni delle ONG – una modulazione del modello criminale che precede l’impiego di imbarcazioni inadeguate (sic) alla navigazione in alto mare che, se per un verso garantiscono maggiori guadagni alle organizzazioni criminali, per altro verso, innalzano sensibilmente l’esposizione a rischio dei migranti”.

La vera portata innovativa della condizione del “raggiungere senza ritardo” il porto di destinazione sta proprio in questo. La prassi seguita in questi anni dalle imbarcazioni di grandi dimensioni, quando il primo soccorso operato avesse coinvolto un numero di naufraghi lontano dall’esaurire le capacità ricettive della nave,  e le condizioni del mare fossero favorevoli, era quella di attendere in acque internazionali alcuni giorni, nell’eventualità di riscontrare o di ricevere notizia di altri eventi SAR sui quali intervenire, prima di fare rotta verso la terraferma per sbarcare i naufraghi soccorsi nelle diverse operazioni. Ora il decreto, imponendo di chiedere il porto di sbarco appena effettuato il primo soccorso, e di recarsi “senza ritardo” verso tale destinazione, sembra effettivamente rendere illegittimo tale modus operandi.

Tale divieto ha un contenuto ben diverso da quel divieto di soccorsi multipli, di qui tanto si è discusso, ma che nel decreto non c’è. Un conto infatti è vietare alla nave che abbia operato un primo soccorso di effettuarne altri: un tale divieto sarebbe in palese violazione del diritto internazionale del mare, e non è mai stato scritto nel decreto (che altrimenti, ci permettiamo di immaginare, difficilmente avrebbe superato il primo vaglio di costituzionalità ad opera del Presidente della Repubblica). Altro invece è vietare alla nave, dopo il primo soccorso, di rimanere in alto mare, nell’eventualità che si verifichino altre situazioni che richiedono il suo intervento, ma senza avere ricevuto alcuna chiamata di soccorso.

Qui, come noto, il diritto internazionale non fornisce coordinate altrettanto sicure, perché il quesito è inedito. Il sistema convenzionale di regolazione dei soccorsi in mare è stato costruito intorno al presupposto che siano gli Stati costieri a farsi carico delle operazioni di salvataggio, e ad assicurare la sicurezza della navigazione nelle zone SAR di rispettiva competenza, e non regola in maniera espressa l’intervento di soggetti privati che agiscano in maniera sistematica in ambito SAR, specie se l’intervento ha caratteristiche umanitarie e trova l’opposizione politica di uno Stato costiero importante come l’Italia. La presenza di privati nel sistema dei soccorsi in mare, in sé, non rappresenta alcun inedito: si pensi alla gestione della sicurezza delle piattaforme in alto mare, che è tradizionalmente gestita in totale autonomia dalle compagnie private proprietarie degli impianti. La peculiarità è che nel caso delle ONG il contesto politico che ben conosciamo ha portato ad un aspro e prolungato conflitto (questo sì inedito) tra una civil fleet di navi umanitarie, che intervengono in supplenza delle autorità statali che in questi anni non hanno impedito la morte di migliaia di persone nel Mediterraneo centrale, e le autorità di uno Stato costiero, che ritengono la presenza di tali navi un pull factor delle partenze dal Nord Africa (come non manca di ribadire il Governo nel passaggio citato sopra) e intendono limitarne le capacità di intervento. Lo Stato costiero può disciplinare le attività SAR svolte da privati in acque internazionali, comminando pesanti sanzioni qualora attracchi in Italia una nave che, dopo il primo soccorso, non si è recata “senza ritardo” verso il porto di destinazione, ma ha atteso in alto mare eventuali ulteriori casi che avrebbero potuto richiedere il suo intervento?

Nel diritto internazionale una risposta univoca a tale interrogativo non c’è, e la risposta è dunque da ricavare dai principi generali che regolano il diritto internazionale (consuetudinario e soprattutto pattizio) in materia SAR, che come noto mette al centro del sistema l’obiettivo della massima tutela della vita in mare. Può ritenersi che una misura, che ha come obiettivo dichiarato quello di “evitare la sistematica attività di recupero dei migranti”, possa ritenersi compatibile se non con la lettera, almeno con i principi ispiratori del diritto del mare, che sin dai tempi dell’antichità ha sempre posto il valore della vita in mare al di sopra di qualsiasi altro interesse, al punto da richiedere il dovere di salvare dalle acque anche il nemico sconfitto in battaglia? Sino a che punto invocare la tutela dei confini e della sicurezza può essere sufficiente a giustificare una previsione che non ha altro scopo, che quello di ridurre la presenza di navi soccorritrici in uno dei tratti di mare ove nel mondo è più alto il rischio di naufragi e di morti?

Bisognerà attendere le prossime settimane per verificare se tali questioni saranno o meno oggetto di effettiva controversia, e se tale controversia si svilupperà in sede politica e/o giudiziaria. Le cronache di queste settimane (prima settimana di febbraio) non hanno riferito ipotesi riconducibili allo scenario che stiamo ipotizzando, cioè di una nave che, operato un primo soccorso, e senza avere ricevuto alcuna richiesta di intervento, decida di non dirigersi verso il porto assegnato, ma di rimanere in attività SAR in acque internazionali. I casi riferiti sono di imbarcazioni che, operato il primo soccorso e ottenuta l’indicazione del POS, si dirigono verso la destinazione, intervenendo soltanto se, durante la navigazione di rientro, vi siano segnalazioni di casi ove è opportuno l’intervento della nave soccorritrice.

In effetti, la pratica di sostare in acque internazionali dopo il primo o i primi soccorsi è senz’altro stata praticata in passato, ma per lo più dalle navi di grandi dimensioni, e comunque per periodi molto limitati (pochi giorni); ma non è da escludere, visto il poco tempo trascorso dall’emanazione del decreto (pubblicato sulla GU del 2 gennaio), che la circostanza per cui non si siano sinora realizzati casi del genere dipenda da specifiche contingenze operative, e in futuro si verifichino casi di attesa dopo il primo soccorso, che potrebbero configurare una violazione della condizione del rientro “senza ritardo” introdotta dal decreto.

Se la questione giungerà o meno all’attenzione dell’autorità giudiziaria, e vi sarà dunque occasione di far valutare da un giudice la legittimità della nuova disciplina e i suoi esatti confini applicativi, dipenderà in primo luogo dalla scelta delle diverse ONG che operano in mare. Se aderiranno all’interpretazione della norma per cui tale prassi è da ritenere vietata, e dopo il primo soccorso è necessario intraprendere subito il viaggio di ritorno (fatta salva l’ovvia legittimità di ulteriori soccorsi, operati in seguito a segnalazioni di eventi SAR), la nuova norma sul rientro senza ritardo avrà raggiunto il suo effetto, riducendo la capacità operativa delle navi umanitarie. Sarebbe un caso esemplare di chilling effect, per riprendere la nota espressione con cui si indicano gli effetti di una pratica non espressamente vietata dalla legge (come non lo è quella di cui stiamo discutendo), e che tuttavia si rinuncia ad esercitare nel timore che essa possa comportare gravi conseguenze legali.

Qualora invece una o alcune delle ONG riprendessero le pratiche del passato, ritenendo che il nuovo divieto debba cedere il passo al principio generale della liceità delle operazioni di soccorso, e qualora in tale evenienza l’autorità amministrativa competente (cioè il prefetto del luogo di approdo della nave) decidesse di esercitare il proprio potere sanzionatorio, l’eventuale (ma alquanto probabile…) giudizio di impugnazione della sanzione da parte del capitano della nave e della ONG costituirebbe il primo momento di possibile coinvolgimento nella controversia dell’autorità giudiziaria.

Ciò che interessa sottolineare, per concludere sul punto, è come l’avere orientato il dibattito pubblico verso un obiettivo (il divieto di soccorsi multipli) evidentemente impossibile da realizzare, perché in palese contrasto con il diritto internazionale, e del resto assente nel testo del provvedimento, ha permesso al Governo di fare passare quasi sotto traccia quella che è la vera novità del decreto, e cioè il divieto di stazionamento in acque internazionali dopo il primo soccorso, che introduce un ostacolo di non poco conto alla migliore operatività delle ONG. Sarebbe davvero un magro risultato se, in sede di conversione, per venire incontro alle osservazioni della Commissaria del Consiglio d’Europa, si specificasse che i soccorsi multipli non sono vietati, quando già una lettura obiettiva della norma attuale conduce a tale risultato, e passassero invece sotto silenzio le vere conseguenze della riforma; ma la qualità del nostro dibattito pubblico rende difficile sperare che si possa andare oltre il mero ripetersi di slogan, e sia possibile confrontarsi con la realtà dei problemi e del dato normativo di cui si pretende di dibattere.  

 

E) La quinta condizione è di modestissimo impatto. Il decreto prevede di fornire alle autorità “le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata dell’operazione di soccorso posta in essere”. La disposizione riecheggia alcune delle prescrizioni indicate nel Codice di condotta del 2017, dove in realtà il Governo si era spinto ben oltre l’attuale disposizione, sino a richiedere alle ONG “l’impegno a ricevere a bordo, eventualmente e per il tempo strettamente necessario, su richiesta delle Autorità italiane competenti, funzionari di polizia giudiziaria affinché questi possano raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di migranti e/o la tratta di esseri umani” (impegno n. 10 del Codice di condotta). L’odierno decreto è molto più soft, ma va nella medesima direzione di intimare alle ONG di collaborare nella ricostruzione della dinamica delle operazioni di soccorso.

Viene da chiedersi perché il decreto-legge senta la necessità di ribadire un dovere che è già ovvio ai sensi delle norme generali che impongono di collaborare con le autorità competenti a chiunque abbia assistito ad un fatto su cui sono in corso indagini penali. Già prima dell’emanazione del decreto, il personale delle ONG, se sentito in qualità di persona informata dei fatti dall’autorità giudiziaria o di polizia, doveva riferire tutte le informazioni rilevanti in suo possesso ai fini dell’accertamento di fatti penalmente rilevanti, come chiunque venga sentito da una di tali autorità.

In realtà, il messaggio che la clausola intende veicolare è che le ONG agiscono in modo poco chiaro e non vogliono realmente collaborare con le autorità, e nei talk-show una disposizione del genere permette di affermare che finalmente da oggi le ONG dovranno collaborare con la polizia; tanto nessuno farà notare che tale dovere di collaborazione già esiste, e non vale per il personale delle ONG, ma per chiunque…, né risulterà interessante notare come, dopo anni ormai in cui si parla di questi temi, non sia mai emersa alcuna vicenda in cui le ONG siano indagate per avere omesso informazioni o fornito indicazioni non veritiere alle autorità italiane. Sono dettagli noiosi, che in un dibattito televisivo farebbero solo sbadigliare il pubblico, mentre lo slogan “ora non potranno più nascondere le prove alla polizia” ha tutt’altro impatto.

Una norma quindi scritta per poter declamare che ora le cose devono cambiare, anche se in realtà da un punto di vista normativo non cambia nulla. Come tutte le norme declamatorie, è una norma un po' fastidiosa, specie alla luce del pregiudizio anti-ONG che surrettiziamente vuole veicolare, ma è anche una norma sostanzialmente inutile, che non ci pare in buona sostanza dotata di alcuna capacità innovativa della normativa vigente.

 

F) La sesta ed ultima condizione riguarda il fatto che “le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non (abbiano) concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco”.

Si tratta della condizione di cui è più difficile comprendere non solo la reale portata novatrice, ma anche gli scopi cui negli intendimenti del legislatore era mirata. La seconda parte della condizione (cioè non realizzare attività SAR che possa “impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco”) è esattamente sovrapponibile a quella di cui alla lettera D già analizzata sopra (l’avere raggiunto “senza ritardo” il porto di sbarco); ci pare operazione troppo ardua intravedere una differenza contenutistica tra il “tempestivamente” e il “senza ritardo”, quindi le due condizioni prescrivono la stessa condotta materiale, vietando alla navi di fermarsi in acque internazionali, dopo aver operato un primo soccorso.

La prima parte della disposizione, poi, ci pare da ascrivere al nutrito novero di quelle condizioni formulate in modo così generico, da risultare priva di reale portata innovativa. Le “modalità di ricerca e soccorso” non devono “

concorrere a creare situazioni di pericolo a bordo”: difficile immaginare una disposizione dal contenuto così generico e così inutile, posto che i doveri dei diversi soggetti garanti della sicurezza della navigazione sono stabiliti puntualmente in una serie di norme (penali e extra-penali), che concorrono a delineare la responsabilità di armatore e capitano ben più della generica prescrizione di non creare pericolo a bordo.

Se, ancora una volta, si allarga lo sguardo al dibattito intorno al decreto, vi era in realtà un’altra modalità di gestione dei soccorsi da parte delle ONG, che era stata particolarmente presa di mira dagli esponenti del Governo, e che forse era in qualche modo la condotta che la nuova disposizione avrebbe mirato a vietare. Facciamo riferimento alla pratica del transhipment, cioè dell’intervento sulla scena di navi più piccole e veloci, e quindi più efficienti nelle prime fasi di soccorso, che tuttavia per le loro dimensioni e l’elevato numero di naufraghi in molti casi solo con grande difficoltà sarebbero riuscite a portare in Italia tutti coloro che avevano soccorso, e li trasferivano allora su altre imbarcazioni più grandi di altre o della medesima ONG, riprendendo l’operatività senza rientrare in porto. Una pratica che, conviene ricordarlo, era stata espressamente vietata dal Codice di condotta del 2017 (cfr. supra, punto n. 7), e che per i primi anni dall’entrata in vigore del Codice stesso era stata effettivamente abbandonata dalle ONG, salvo negli ultimi mesi essere ripresa, senza che dalle autorità italiane sia pervenuta alcuna osservazione nei confronti degli autori dei trasbordi.

In realtà, come nel caso del presunto divieto di soccorsi multipli, dal testo approvato dal Governo non si evince alcuna espressa indicazione in tal senso, ed anzi ci pare davvero difficile fare discendere il divieto di trasbordo dei naufraghi dall’obbligo di non creare situazioni di pericolo a bordo. Ma anche in questo caso, non rimane che attendere i prossimi mesi per valutare in primo luogo se la pratica del transhipment verrà nuovamente utilizzata dalle ONG, e, in caso positivo, se e su quali basi l’autorità amministrativa riterrà di esercitare la potestà sanzionatoria attribuitale dal decreto.

 

3.3. La garanzia del soccorso e dell’assistenza a terra a tutela dell’incolumità. - La parte precettiva del decreto si conclude con l’art. 2-ter, per cui, fatta salva l’applicazione delle nuove sanzioni in caso di violazione degli ordini dell’autorità, “il transito e la sosta di navi nel mare territoriale sono comunque garantiti ai soli fini di assicurare il soccorso e l'assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità”.

Si tratta di una disposizione importante, che parrebbe escludere in futuro il ripetersi di vicende come quella di Catania di ottobre dello scorso anno, quando era stato dato il via alla pratica (peraltro tenuta nelle sole due occasioni che abbiamo citato all’inizio di queste note) dei cd. sbarchi selettivi, consistente nel concedere lo sbarco solo a donne e minori e soggetti affetti da particolari problemi di salute, lasciando per diversi giorni sulla nave gli uomini adulti, sino a che una commissione medica aveva attestato che il protrarsi ulteriore della permanenza sulla nave rappresentava un pericolo per la salute dei naufraghi.

Il dato normativo ci pare in effetti inequivoco. Se nella gestione dei soccorsi e del successivo approdo nei nostri porti la nave soccorritrice ha violato le indicazioni provenienti dell’autorità competente, potranno del caso essere applicate le sanzioni previste in tali casi dal decreto, ma il soccorso e l’assistenza a terra sono “comunque garantiti”, a tutela dell’incolumità dei naufraghi. Dunque, nelle prossime occasioni in cui una nave delle ONG arriverà nei nostri porti, anche nell’ipotesi in cui abbia violato l’espresso divieto di transito e sosta emanato dal Ministro dell’interno, comunque i naufraghi dovranno essere assistiti a terra. Non solo le donne e i minori, ma tutti i soggetti soccorsi, visto che la norma non fa alcuna differenza di genere o di età, né fa riferimento a particolari condizioni di vulnerabilità o di malattia: la possibilità di operare sbarchi selettivi, lasciando per giorni interi sulla nave gli uomini adulti sani, non dovrebbe più essere ipotizzabile dopo l’entrata in vigore del decreto.

Si tratta di una conclusione ad avviso di chi scrive assolutamente condivisibile, ma che certo può risultare bizzarra se collocata nel contesto politico e parlamentare ove è maturata. Gli sbarchi selettivi sono stati il “biglietto da visita” del Governo Meloni in materia di soccorso in mare e controllo delle frontiere, e ora lo stesso Governo, nel provvedimento che dà veste giuridica agli intendimenti politici della maggioranza, introduce una norma che vieta di procedere come si è fatto in ottobre.

Vediamo possibili due diverse spiegazioni di tale incongruenza. La prima è che il decreto intendesse, al contrario di quanto sin qui sostenuto, legittimare gli sbarchi selettivi, ed il riferimento alla “tutela dell’incolumità” sarebbe in questa prospettiva la conferma che la discesa a terra è consentita solo quando sia in gioco, come nelle vicende di Catania, la salute dei soggetti a bordo. Se questo fosse l’intendimento del Governo, non si potrebbe tuttavia che constatare come la norma sia formulata molto male, posto che il suo tenore letterale dice una cosa diversa, e cioè che lo sbarco a terra è consentito “a tutela dell’incolumità”, senza alcun riferimento a condizioni di particolare vulnerabilità dei soccorsi o a un imminente pericolo per la loro salute. L’altra spiegazione è che il Governo, pur senza fare pubblicamente autocritica riguardo agli episodi di sbarchi selettivi di ottobre, abbia in realtà tenuto conto delle moltissime obiezioni sollevate rispetto a tale modus operandi, sia in sede nazionale che internazionale, ed abbia inteso evitare che in futuro simili soluzioni vengano riproposte. Quale che sia la spiegazione che si ritenga preferibile, rimane il dato oggettivo di una norma che si pone in decisa contro-tendenza rispetto al resto delle disposizioni del decreto, tutte invariabilmente volte ad irrigidire il contrasto alle ONG, mentre qui ci troviamo di fronte ad una disposizione che pone davanti a qualsiasi altra esigenza la tutela dell’incolumità dei naufraghi, cioè proprio l’obiettivo perseguito dalle ONG: la definitiva conferma che la linearità e la congruenza del dato normativo rispetto agli scopi non sono caratteristiche del decreto in commento.

 

4. Il nuovo sistema sanzionatorio: dal penale all’amministrativo per aggirare il controllo di legalità. - Venendo ora alle modifiche che hanno interessato il sistema sanzionatorio, non vogliamo qui attardarci in una sua descrizione minuta. In sostanza, è prevista la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro quando vi è stata la violazione del divieto di transito e sosta, emesso alle condizioni analizzate sopra; anche in caso non sia stato previamente emanato alcun divieto, è prevista la sanzione amministrativa da 2.000 a 10.000 euro “quando il comandante o l’armatore non fornisc(a) le indicazioni richieste dalla competente autorità nazionale o non si uniforma alle indicazioni della medesima autorità”. Nel primo caso è altresì prevista la sanzione accessoria del fermo amministrativo per due mesi, con confisca del mezzo in caso di reiterazione della violazione con la medesima nave; nel secondo, il fermo amministrativo della nave ha durata di 20 giorni, che diventano due mesi in caso di reiterazione, mentre la confisca è disposta in caso di ulteriore reiterazione.

Il dato su cui ci pare utile soffermarci, e che risulta di particolare interesse nella prospettiva del penalista, si coglie analizzando lo sviluppo diacronico del sistema sanzionatorio, che presenta tratti di sicura singolarità. Ricordiamolo in poche battute. La prima volta che il legislatore, con il cd. decreto Salvini-bis del 2019, decide di prevedere apposite sanzioni per la violazione del divieto di ingresso e sosta nelle acque territoriali, non prevede sanzioni penali, ma sanzioni amministrative durissime (molto più severe di quelle previste dal nuovo decreto: sanzione pecuniaria sino a 1 milione di euro e confisca già alla prima violazione). Quando la nuova maggioranza, con il cd. decreto Lamorgese del 2020, intende rendere meno aspro il confronto con le ONG, decide non già di abolire tout court le sanzioni previste nel 2019, ma di sostituire la sanzione amministrativa con la sanzione penale cumulativa della reclusione sino a due anni e della multa da 10.000 a 50.000 euro, senza la previsione di ipotesi speciali di confisca. Oggi, quando l’obiettivo del Governo è quello di re-inasprire la reazione punitiva, il delitto viene abrogato, ed al suo porto torna applicabile una sanzione amministrativa (di identico importo della multa che va a sostituire), con confisca amministrativa della nave.    

Si delinea un trend che ha trovato conferma in tutti e tre gli interventi analizzati, risalenti a tre diverse maggioranze succedutesi nel tempo. Quando il legislatore intende apprestare un apparato sanzionatorio più gravoso nei confronti delle ONG, fa ricorso alla sanzione amministrativa, mentre quando vuole “ammorbidire” il carico sanzionatorio vengono comminate sanzioni penali (anche detentive): un vero e proprio sovvertimento di quella che dovrebbe essere la struttura in termini di afflittività del nostra sistema sanzionatorio, che al contrario dovrebbe vedere al suo vertice in chiave di severità la sanzione penale (specie quando incidente sulla libertà personale, attraverso la minaccia di una pena detentiva), e storicamente considera la depenalizzazione (come quella operata dal decreto in commento: sostituzione della reclusione e della multa con sanzione amministrativa del medesimo importo della multa sostituita) un modo per alleggerire, e non per inasprire la risposta sanzionatoria nei confronti di una certa condotta illecita. Nel caso che ci interessa, è avvenuto esattamente il contrario di quanto ci si sarebbe dovuti aspettare, con la criminalizzazione di una condotta prima punita in sede amministrativa adottata in quanto considerata più favorevole per le ONG, mentre la depenalizzazione di una condotta prima incriminata è salutata come un inasprimento della risposta punitiva. Eppure, nel dibattito pubblico è una questione di cui si è discusso pochissimo, mentre vale la pena spendervi qualche riflessione.

Il fenomeno per cui la sanzione ammnistrativa può in concreto risultare più afflittiva della sanzione penale che va a sostituire non è certo nuovo per il nostro ordinamento. La Corte costituzionale ha già avuto modo di affermare che il passaggio da una sanzione penale ad una amministrativa può non essere più favorevole per l’autore del fatto, essendo necessario verificare la concreta afflittività di entrambi i dispositivi sanzionatori, ben potendo nel caso concreto la sanzione amministrativa risultare più onerosa per l’autore dell’illecito, specie quando corredata di misure ablative del diritto di proprietà (sequestro preventivo e confisca)[7]. Si potrebbe allora ritenere il fenomeno descritto sopra come la mera conferma della più generale tendenza dell’illecito amministrativo ad acquisire una sempre crescente centralità nella configurazione dell’apparato sanzionatorio, tanto in ragione della sua concreta portata afflittiva (la sanzione pecuniaria amministrativa ha spesso contenuto più elevato della multa o dell’ammenda), quanto della celerità ed effettività della sua applicazione (la sanzione ammnistrativa viene disposta in temi molto rapidi, mentre la sanzione penale giunge all’esito di un procedimento complesso, dall’esito incerto e comunque spesso dai tempi molto lunghi). Nulla di diverso, insomma, di quanto osservato in altri contesti, dove da tempo è ben noto che la risposta amministrativa può risultare più efficace ed afflittiva del ricorso alla sanzione penale: le sanzioni in materia di illeciti societari sono al riguardo esemplari, e non a caso è proprio a questa materia che attengono le sentenze della Corte costituzionale appena citate.

Tale spiegazione non ci pare, tuttavia, nello specifico caso che ci interessa, idonea a fornire una risposta davvero soddisfacente. In materia di crimmigration, infatti, il legislatore, anche in tempi recenti, ha dimostrato a più riprese di non essere affatto disponibile a sostituire, in una prospettiva di maggiore efficienza, la sanzione penale con la sanzione amministrativa, non volendo rinunciare all’effetto simbolico in chiave stigmatizzante proprio della giustizia penale. Ricordiamo in particolare le vicende relative alla questione della depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno irregolare di cui all'art. 10-bis TUI, quando, nell’ambito di un ampio intervento di depenalizzazione realizzato con il meccanismo della legge-delega, il legislatore delegato non ha dato seguito alla richiesta del Parlamento di trasformare il reato in illecito amministrativo, ritenendo di non poter rinunciare alla forza simbolica espressa dalla qualificazione come reato della condizione di clandestinità. E del resto, il TUI è ricchissimo di fattispecie penali totalmente ineffettive, che il legislatore ha dimostrato negli anni di non avere alcuna intenzione di sostituire con sanzioni amministrative: si pensi ancora, oltre che alla contravvenzione di cui all’art. 10-bis, ai delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento di cui all’art. 14 co. 4-ter e 5-quater, che comminano pene pecuniarie di inusitata durezza a soggetti da parte dei quali è sostanzialmente impossibile ottenerne l’esecuzione. 

Per quanto concerne poi le linee politico-criminali che hanno ispirato i primi interventi del nuovo Governo, la rinuncia per ragioni di efficienza repressiva alla sanzione penale in vista dell’utilizzo di più severe sanzioni amministrative è tutt’altro che la regola, anzi. Il pensiero va ovviamente al primo intervento in materia penale del Governo Meloni, con il cd. decreto rave-party, e l’introduzione con la legge di conversione del nuovo delitto di “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica” all’art. 633-bis c.p. Da più parti era stato fatto notare come, ben più che un nuovo reato, sarebbe stata più efficace la previsione di sanzioni amministrative nei confronti degli organizzatori, specie se fosse stata introdotta la confisca del materiale utilizzato. In quel caso, però, la maggioranza parlamentare era stata granitica nel ritenere che solo la sanzione penale fosse comunicativamente adeguata a punire il fenomeno, senza neppure prendere in esame considerazioni efficientiste a favore della sanzione amministrativa. Perché invece quando non si tratta di punire più duramente gli organizzatori dei rave, ma di inasprire le sanzioni dei confronti dei capitani e degli armatori delle ONG, si ricorre de plano alla sanzione amministrativa, addirittura sostituendola alla sanzione penale (detentiva) prevista dalla normativa abrogata?

La ragione della scelta di rinunciare alla sanzione penale nello specifico caso delle ONG sta a nostro avviso nel fatto che la magistratura penale ha ormai a più riprese affermato la legittimità dell’operato delle navi umanitarie. A partire del leading case della capitana Carola Rackete, ove per la prima e sinora unica volta anche la Cassazione è intervenuta (in sede cautelare) sullo specifico argomento della responsabilità penale del personale delle ONG, sono ormai numerose le occasioni in cui sono state archiviate le ipotesi di reato inizialmente ipotizzate[8]; e l’unico processo in corso attualmente è quello a carico del Ministro Salvini, proprio per il suo rifiuto di concedere lo sbarco dei naufraghi alla nave di una ONG.

L’obiettivo della depenalizzazione allora risulta evidente. Consapevole che la magistratura penale ha già affermato la legittimità dell’operato delle ONG, il Governo sembra voler sottrarle il potere sanzionatorio, ad attribuirlo alla struttura amministrativa del Ministero dell’interno, che si ritiene evidentemente più sensibile dell’ordine giudiziario alle aspettative della politica. Certo, qualora i prefetti applichino le sanzioni previste dai decreti, le ONG potranno impugnarle davanti all’autorità giudiziaria; ma intanto le sanzioni saranno state applicate e i fermi disposti, e quando poi intervenisse una decisione negativa in sede di impugnazione il risultato comunicativo sarà già stato raggiunto.

Proprio questo ragionamento costituisce, a nostro avviso, l’aspetto più pericoloso del decreto sulle ONG. La depenalizzazione disposta dal Governo rappresenta un tentativo di fuga dalla giurisdizione, al cui giudizio ci si intende sottrarre affidando all’autorità amministrativa la potestà sanzionatoria[9]; un tentativo reso più grave dalla circostanza che la magistratura ha già fornito un giudizio chiaro di liceità della pratica dei soccorsi in mare, e perseguire lo stesso da parte del Governo una strategia di criminalizzazione (intesa nel senso lato della crimmigration, che comprende anche l’apparato punitivo di natura amministrativa) ha il preciso significato di aggirare le indicazioni provenienti dal sistema giudiziario.

La constatazione che il nostro sistema prevede comunque il vaglio di legittimità dell’operato dell’autorità amministrativa in sede giudiziaria, durante il giudizio di impugnazione della sanzione eventualmente applicata, non può rappresentare una garanzia sufficiente[10]. Prima dell’eventuale intervento di un giudice, le sanzioni possono già avere esercitato il loro effetto afflittivo e deterrente, e comunque in uno Stato di diritto non è ammissibile che il Governo contrasti pratiche dichiarate legittime dall’autorità giudiziaria. La tutela dei diritti dei soggetti coinvolti è garantita solo ove sia già l’autorità amministrativa (nel caso di specie, i prefetti) ad esercitare con rigore il vaglio di legittimità delle richieste provenienti dai vertici politici della struttura ministeriale, e a non applicare politiche che sono già state dichiarate illegittime dalla magistratura, o sono palesemente in contrasto con il diritto internazionale. La fuga dalla giurisdizione si potrà tradurre in una più grave fuga dalla legalità solo se la struttura ministeriale non eserciterà sino in fondo il proprio potere di verifica che l’esercizio del potere sanzionatorio, pur auspicato in sede politica, sia conforme alla normativa nazionale e sovranazionale. Sinora, a quanto risulta, non è stata applicata alcuna sanzione alle ONG che hanno operato soccorsi dopo l’entrata in vigore del decreto; nelle prossime settimane verificheremo se vi saranno iniziative da parte delle prefetture competenti, o se in buona sostanza l’attività delle ONG proseguirà con le medesime modalità del passato.

 

5. Conclusioni: i veri nodi problematici della questione SAR. - Mancano poche settimane alla scadenza del termine per la conversione in legge del decreto appena analizzato, ed alla luce dell’odierno quadro politico è poco probabile che il Parlamento voglia procedere a modifiche sostanziali del testo. Forse, dopo il puntuale rilievo contenuto nel parere della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, verrà precisato che le nuove norme non impediscono soccorsi multipli, ma come abbiamo visto si tratta di una conclusione cui già si perviene alla luce del testo approvato dal Governo. La sensazione, alla luce di un’analisi del dato normativo e non degli slogan che ne hanno accompagnato l’approvazione, è che l’applicazione della nuova normativa non porterà ad uno stravolgimento del modus operandi delle ONG che operano in ambito SAR[11], anche se molto dipenderà dall’atteggiamento che al riguardo terranno gli attori della vicenda (ONG e Governo). 

Ciò, tuttavia, non significa che non sia in atto una strategia politico-amministrativa che può mettere in serie difficoltà le ONG SAR. Il vero ostacolo, però, non deriva tanto dall’approvazione del nuovo decreto, quanto dalle prassi che saranno adottate dall’autorità amministrativa nelle prossime occasioni in cui si tratterà di gestire un soccorso operato dalle ONG. Il punto è quello dell’assegnazione di porti di sbarco molto lontani dal luogo ove viene effettuato il soccorso, ed è stato chiaramente individuato dalla nota della Commissaria presso il Consiglio d’Europa, che abbiamo già ripreso sopra a proposito del decreto. “I also note with concern that in practice, NGO vessels have been assigned distant places of safety such as ports in Central and Northern Italy. This prolongs the suffering of people saved at sea and unduly delays the provision of adequate assistance to meet their basic needs. It unnecessarily exposes the people onboard to the potential danger of adverse weather conditions. Prolonged stay onboard tends to lead to the rapid deterioration of the health situation of alla involved”.

Ben più che l’approvazione del nuovo decreto (che come visto ampiamente sopra non contiene alcuna disposizione al riguardo, benché leggendo certe dichiarazioni o certi commenti sui media sembrerebbe il contrario), è l’assegnazione di porti lontani anche migliaia di chilometri dal luogo dei soccorsi ad incidere davvero sulla gestione delle operazioni SAR da parte delle ONG. La Commissaria giustamente mette in luce i pericoli che una navigazione così lunga può comportare sulla salute dei naufraghi, spesso già provati da terribili esperienze in Africa ed in mare. Ma percorrere migliaia di chilometri è anche un costo enorme in termini di tempo e di risorse economiche, che riduce sensibilmente la concreta possibilità delle ONG di essere presenti nelle acque del Mediterraneo centrale.

L’assegnazione di un porto di sbarco in caso di soccorso è una scelta che l’amministrazione può adottare con un ampio margine di discrezionalità, e sicuramente non sono prima facie implausibili gli argomenti del Governo (nella risposta sul punto alla Commissaria), per cui la scelta di porti nel Centro e Nord Italia sarebbe funzionale ad una più razionale distribuzione del carico dell’accoglienza su tutte le regioni del Paese, e non solo su quelle dell’Italia meridionale. In realtà, la genuinità di tale intendimento si scontra con la circostanza che gli sbarchi delle ONG rappresentano intorno al 10% del totale dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale, mentre l’altro 90 % è operato dai mezzi delle nostre Guardia di Finanza e Marina Militare, o da navi commerciali che hanno incontrato i naufraghi lungo la loro rotta, ed in questo caso vengono sempre assegnati porti di sbarco collocati nell’Italia meridionale.

Ci pare questo un argomento forte a sostegno del fatto che la prassi inaugurata nelle ultime settimane dal Ministro dell’interno non sia affatto dettata da ragioni di funzionalità del sistema, tra l’altro molto discutibili nel merito: se è vero, infatti, che la distribuzione dell’accoglienza dei naufraghi deve sicuramente essere operata a livello nazionale, è altrettanto vero che, per quanto riguarda le primissime fasi di sbarco ed identificazione dei naufraghi, sono ormai quasi dieci anni che il nostro Paese, su impulso dell’Unione europea, ha adottato il cd. approccio hotspot, con la previsione di pochi Centri appositamente allestiti in prossimità del luogo di sbarco (Sicilia e regioni meridionali), da cui poi le persone soccorse dovrebbero essere rapidamente (almeno in teoria…) smistate verso destinazioni più stabili, collocate su tutto il territorio nazionale. Del resto, la prassi adottata nel caso di soccorsi operati da soggetti diversi dalle ONG mostra come l’indicazione del porto di sbarco a La Spezia o Livorno valga solo per le ONG, a conferma che la vera ragione della scelta di porti così lontani sta solo nella volontà di tenere quanto più possibile lontane le ONG dal Mediterraneo centrale, addossando altresì loro costi di carburante così elevati, da rendere difficile la sostenibilità finanziaria delle operazioni

Il dibattito intorno al decreto non deve rappresentare allora l’occasione per distogliere l’attenzione da quelli che sono i veri pericoli cui è esposto l’attuale sistema di salvataggio in mare. Da un punto di vista normativo, è ben difficile che il Governo o il Parlamento possano approvare riforme davvero restrittive della attività dei soccorritori, perchè si tratterebbe di norme palesemente contrarie al diritto internazionale, che non supererebbero il vaglio del Presidente della Repubblica. Il contrasto alle ONG non avviene tanto a livello di norme, quanto di prassi operative che possono in concreto ridurre considerevolmente le attività di soccorso. Se e in che modo la legittimità di tali prassi sarà poi portata all’attenzione dell’autorità giudiziaria, ad opera delle ONG destinatarie di porti di sbarchi lontanissimi che vogliano opporsi a tale nuova prassi, è ora difficile da prevedere.

Prima di chiudere queste note, ci pare doveroso però porre l’attenzione su un tema che sta sullo sfondo di quello del contrasto alle ONG, ma cui è indispensabile accennare per ricostruire correttamente la posta in gioco in questo dibattito. Vogliamo qui soffermarci sulla situazione dei campi in Libia da cui fuggono molti dei naufraghi, su cui giustamente si sofferma la Commissaria del Consiglio d’Europa nella nota più volte citata. Scrive al riguardo la Commissaria: “The Memorandum of Understanding with the Lybian Government of National Accord, which will be automatically renewe on 2 February, plays a central role in facilitating the interception of refugees, asylum seekers and migrants at sea, and their subsequent return to Lybia. Notwithstanding the considerable evidence documenting grave human rights violation faced by refugees, asylum seekers, and migrants in Lybia, no concrete action has so far been taken to adress this issue. Therefore, I take the opportunity to reiterate my call[12] to suspend cooperation with the Lybian Government on interceptions at sea, and to make any future co-operation with third countries in the field of migration conditional on comprehensive human rughts safeguards”.

Soltanto pochi giorni dopo questa dichiarazione, è stata resa nota la consegna da parte del Governo italiano alla Guardia costiera libica di una nuova motovedetta da utilizzare nel contrasto all’immigrazione, o in termini meno ovattati e più realistici per riportare nei campi di tortura coloro che in qualche modo sono riusciti ad uscirne. Il nostro Governo continua quindi la sua cooperazione con un’entità, la Guardia costiera libica, che in più sedi è sospettata di diretto coinvolgimento con i crimini contro l’umanità perpetrati nei campi di detenzione libici, veri e propri gironi danteschi di cui sono state rese innumerevoli e strazianti testimonianze[13]. Parlare molto del decreto alle ONG e non della collaborazione con la Guardia costiera libica rischia allora di sembrare come colui che guarda il dito e non la luna, come se il vero problema fosse la tutela delle navi delle ONG, e non la tutela dei diritti fondamentali dei disperati che queste navi vanno a salvare. La discussione sul decreto dovrebbe essere al contrario l’occasione per riportare l’attenzione su quella che è davvero una brutta pagina della nostra Storia, con il nostro Paese (nel succedersi dei diversi Governi, di ogni colore politico, e con il costante plauso dell’Unione europea) a sostenere l’attività di intercettazione e respingimento dei disperati che fuggono dall’inferno libico. Ma nel dibattito pubblico i racconti dei sopravvissuti e delle atroci violenze che hanno subito suscita ormai scarso interesse, mentre il tema del contrasto alle ONG rappresenta un tema identitario per le attuali forze di maggioranza, che hanno evidente interesse a polarizzare su questo le controversie, nella silenziosa continuità di una cooperazione con le autorità libiche che rappresenta da anni l’incrollabile costante della nostra politica estera in tema di gestione dei flussi migratori.

 

 

 

[1] Per una ricostruzione più distesa dell’evoluzione della normativa e delle prassi in materia di soccorsi in mare, cfr. L. Masera, Il contrasto amministrativo alle ONG che operano soccorsi in mare, dal codice di condotta di Minniti, al decreto Salvini bis e alla riforma Lamorgese: le forme mutevoli di una politica costante, in Quest. giust., 15.6.2021, cui rinviamo anche per i riferimenti bibliografici ai numerosi commenti agli interventi normativi cui si farà conto.

[2] Il testo dell’accordo è ancora disponibile sul sito del Ministero dell’interno. I 13 punti sono comunque i seguenti: “1) l’impegno a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata, e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue (SAR) da parte della Guardia costiera libica (..) ; 2) impegno a rispettare l’obbligo di non spegnere o ritardare la regolare trasmissione dei segnali AIS (Automatic Identification System) e LRIT (Long Range Identification and Tracking), qualora installati a bordo (Cap. V SOLAS) (..); 3) l’impegno a non effettuare comunicazioni o inviare segnalazioni luminose per agevolare la partenza e l’imbarco di natanti che trasportano migranti, fatte salve le comunicazioni necessarie nel corso di eventi SAR per preservare la sicurezza della vita in mare (..); 4) impegno a comunicare al competente MRCC l’idoneità tecnica (relativa alla nave, al suo equipaggiamento e all’addestramento dell’equipaggio) per le attività di soccorso, fatte salve le applicabili disposizioni nazionali ed internazionali concernenti la sicurezza dei natanti e le altre condizioni tecniche necessarie alla loro operatività (..); 5) l’impegno ad assicurare che, quando un caso SAR avviene al di fuori di una SRR ufficialmente istituita, il comandante della nave provveda immediatamente ad informare le autorità competenti degli Stati di bandiera, ai fini della sicurezza, e il MRCC competente per la più vicina SRR, quale “better able to assist”, salvo espresso rifiuto o mancata risposta di quest’ultimo (..); 6) impegno ad osservare l’obbligo previsto dalle norme internazionali di tenere costante-mente aggiornato il competente MRCC o l’OSC (On Scene Coordinator) designato da quest’ultimo in merito allo scenario in atto ed all’andamento delle operazioni di soccorso (..); 7) l’impegno a non trasferire le persone soccorse su altre navi, eccetto in caso di richiesta del competente MRCC e sotto il suo coordinamento anche sulla base delle informazioni fornite dal Comandante della nave (..); 8) impegno ad assicurare che le competenti autorità dello Stato di bandiera siano tenute costantemente informate dell’attività intrapresa dalla nave ed immediatamente informate di ogni evento rilevante ai fini di “maritime security” (..); 9) impegno a cooperare con l’MRCC, eseguendo le sue istruzioni ed informandolo preventivamente di eventuali iniziative intraprese autonomamente perché ritenute necessarie ed urgenti (..); 10) l’impegno a ricevere a bordo, eventualmente e per il tempo strettamente necessario, su richiesta delle Autorità italiane competenti, funzionari di polizia giudiziaria affinché questi possano raccogliere informazioni e prove fina-lizzate alle indagini sul traffico di migranti e/o la tratta di esseri umani, senza pregiudizio per lo svolgimento delle attività umanitarie in corso (..); 11) l’impegno a dichiarare, conformemente alla legislazione dello Stato di bandiera, alle autorità competenti dello Stato in cui l’ONG è registrata tutte le fonti di finanziamento per la loro attività di soccorso in mare (..); 12) l’impegno ad una cooperazione leale con l’Autorità di Pubblica Sicurezza del previsto luogo di sbarco dei migranti, anche trasmettendo le pertinenti in-formazioni di interesse a scopo investigativo alle Autorità di Polizia (..); 13) impegno a recuperare, durante le attività, una volta soccorsi i migranti e nei limiti del possibile, le imbarcazioni improvvisate ed i motori fuoribordo usati dai soggetti dediti al traffico/tratta di migranti e ad informare immediatamente l’ICC (International Coordination Centre) dell’operazione TRITON (..)”.

[3] Art. 1102 cod. nav., Navigazione in zone vietate: “Fuori dei casi previsti nell'articolo 260 del codice penale, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire un milione: 1) il comandante della nave o del galleggiante, nazionali o stranieri, che non osserva il divieto o il limite di navigazione stabiliti nell'articolo 83; 2) il comandante dell'aeromobile nazionale o straniero, che viola il divieto di sorvolo stabilito nell'art. 793”.

[4] Corte di giustizia UE, 1 agosto 2022, C-14/21 e C-15/21, Seawatch.

[5] Ci riferiamo in particolare all’intervento della prof.ssa Francesca De Vittor nell’ambito dell'audizione informale del 17 gennaio 2023 presso le competenti Commissioni Camera; per un’analisi dei profili di frizione del decreto con il diritto internazionale, cfr. anche A. Di Florio, L’influenza del diritto europeo ed internazionale sui diritti fondamentali dei migranti: a proposito del d.l. 1/2023, in Quest. giust., 6.2.2023.

[6] Non aggiunge molto al riguardo il più articolato parere reso dall’Expert Council on ONG LAW in data 30 gennaio (Opinion on the compatibility with European standars of Italian Decree Law. N. 1 of 2 January 2023 on the management of migration flows”), che al riguardo si limita a sostenere che “Decree Law n. 1/2023 has the effect of prohibiting vessels from carrying out more than one rescue mission prior to returning to port”.

[8] Per una ricostruzione dei diversi procedimenti penali avviati a carico delle ONG e poi archiviati, sia consentito rinviare a L. Masera, Soccorsi in mare e diritto penale nella stagione dei porti chiusi – Alcune riflessioni a partire dal caso di Carola Rackete, in Leg. pen., 22.4.2022, 1-26.

[9] Per questa osservazione, cfr. la lucida analisi di L. Ferrarella, Decreto ONG, conseguenze e dubbi, sul Corriere della sera del 30.12.2022.

[10] Sottolinea in particolare questo aspetto il parere del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, del 30.12.2022.

[11] In questo senso si esprime anche il comunicato dal titolo Contro la Costituzione, le ONG e i diritti umani: l’insostenibile fragilità del d.l. n. 1/2023, emesso il 5.1.2023 dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione,

[12] Sottolineato nel testo.