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13 Luglio 2021


Retroattività in mitius e sanzioni amministrative “punitive”: spunti di riflessione a partire da una innovativa decisione di merito

Trib. Ragusa, Sez. civ., sent. 16 giugno 2021



1. Con il provvedimento allegato il Tribunale civile di Ragusa ha annullato la sanzione amministrativa di 300.000 euro, con contestuale confisca dell’imbarcazione, applicata dalla Prefettura di Ragusa nei confronti di Claus-Peter Reisch, capitano della motonave Eleonore, che nell’estate 2019, dopo avere salvato oltre 100 persone alla deriva nel Mediterraneo, le aveva sbarcate nel porto di Pozzallo, così violando il divieto di ingresso nelle acque nazionali emanato dal Ministro dell’interno sulla base delle norme introdotte nel Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998) con il cd. decreto Salvini-bis (d.l. n. 53/2019, conv. in l. 77/2019).

La sentenza qui annotata non fa alcun cenno alla questione, pur avanzata dai ricorrenti, relativa alla legittimità della condotta del capitano, che, come nel noto caso di Carola Rackete, si era trovato costretto a violare l’ordine ministeriale per poter sbarcare le persone soccorse in un luogo sicuro: il provvedimento perviene alla decisione di annullare le sanzioni applicate dall’autorità amministrativa esclusivamente in ragione del fatto che il cd. decreto Lamorgese (d.l. n. 130/2020, conv. in l. 173/2020) ha abrogato la sanzione amministrativa che era stata applicata al ricorrente, senza spendere alcuna considerazione in merito alla disciplina introdotta dal decreto Salvini.

Se dunque la decisione in commento non fornisce spunti di interesse in materia di diritto dell’immigrazione, sotto il profilo del diritto intertemporale applicabile alle sanzioni amministrative aventi natura punitiva il percorso argomentativo seguito dal giudice ragusano risulta invece decisamente innovativo, e merita per questo una pur sintetica ricostruzione dei passaggi salienti.  

 

2. Il provvedimento prende le mosse dalla constatazione che il decreto Lamorgese ha abrogato le norme del TUI che prevedevano la sanzione amministrativa applicata nel caso sub iudice, introducendo al loro posto un illecito penale: “il legislatore ha, da un lato, espunto la previsione di sanzioni amministrative di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, nel contempo introducendo, all’art. 1 co. 2 del medesimo d.l. 13/2020 una fattispecie penale pressoché sovrapponibile (salvo l’omesso riferimento all’ingresso delle navi), sul piano della tipicità, a quella abrogata” (§ 1).

Il Tribunale ricorda poi come, per quanto riguarda la successione di norme penali, sia da tempo pacifico nella giurisprudenza costituzionale e convenzionale il principio dell’applicazione retroattiva delle norme favorevoli al reo, che trova fondamento rispettivamente nell’art. 3 Cost. e nell’art. 7 CEDU (§ 2).

Per quanto riguarda invece la successione tra norme che prevedono sanzioni amministrative, la giurisprudenza costante interpreta l’art. 1 co. 2 della l. n. 689/1981 sull’illecito amministrativo (per cui “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”), nel senso di ritenerlo preclusivo dell’applicazione dello ius superveniens favorevole. La decisione ricorda come tuttavia la Corte costituzionale, dopo avere negato con la sentenza n. 193/2016 l’applicabilità generale del principio di retroattività in mitius alle sanzioni amministrative di cui alla l. 689/1981, con la sentenza n. 63/2019 abbia dichiarato incostituzionale una norma transitoria che escludeva l’applicabilità del nuovo e più mite trattamento sanzionatorio alle sanzioni amministrative relative a fatti pregressi; in tale occasione, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto, decisivo ai fini del caso di specie: “il principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale”. Sulla scorta di tale decisione dei giudici delle leggi, il Tribunale ritiene dunque che “si può desumere, pur nei limiti dell’apprezzamento del caso concreto indicato dalla Corte Costituzionale, l’applicabilità del principio di retroattività della lex mitior anche nel sistema dell’illecito amministrativo” (§ 3).

Posta dunque la vigenza del principio di retroattività in mitius anche per le sanzioni amministrative che hanno natura punitiva, e sono dunque da considerare penali ai sensi dei criteri Engel, il provvedimento passa a verificare se la sanzione sub iudice abbia tale natura, e la risposta è positiva: “ritiene il decidente che la sanzione amministrativa al tempo prevista dall’art. 12, comma 6-bis TUI abbia natura punitiva e debba dunque soggiacere alle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale, ivi incluso il principio di retroattività della lex mitior, ciò anche alla luce del mutato apprezzamento del legislatore. La misura ivi prevista (sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 150.000 a euro 1.000.000, oltre alla la confisca della nave utilizzata per commettere la violazione) non può infatti ritenersi meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti (..). Invero, già dall’ammontare della sanzione, nell’ampia cornice edittale ivi prevista, oltre che dalla previsione che la confisca della nave venga disposta sempre, senza essere ad esempio subordinata alla reiterazione della condotta, può desumersene l’elevata carica afflittiva, che può spiegarsi in funzione di una finalità di deterrenza o prevenzione generale negativa, certamente comune alle pene in senso stretto” (§ 4).

Tali premesse consentono al Tribunale ragusano di superare l’orientamento tradizionale in ordine all’impossibilità di applicare lo ius superveniens favorevole nelle ipotesi di illeciti amministrativi: “Si impone, pertanto, una interpretazione dell’art. 1 L. 689/1981 conforme a Costituzione e alla disciplina sovranazionale, dovendosi ritenere che il dettato normativo (laddove prevede che le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati) debba intendersi riferito alle sole modifiche in peius, trovando per il resto applicazione il principio, costituzionale e convenzionale, di retroattività della legge più favorevole, dovendosi sul punto ritenere che, nella misura in cui le norme convenzionali ricadano in spazi normativamente vuoti, ossia non regolati in modo antinomico dalla legislazione nazionale, esse potranno e dovranno essere direttamente applicate dal giudice comune, come una qualsiasi altra norma dell’ordinamento. (…) Tale soluzione, a parere del decidente, non si pone in contrasto con l’art. 11 delle Preleggi, che può piuttosto ritenersi espressivo del principio di irretroattività delle leggi a carattere non punitivo” (§ 5).

L’ultimo passaggio, in verità molto sintetico, riguarda la constatazione che l’illecito amministrativo abrogato è stato sostituito da un illecito penale che ne presenta il medesimo contenuto tipico: “, d’altronde, potrebbe giungersi a diverse conclusioni (l’annullamento delle sanzioni amministrative irrogate: n.d.r.), quand’anche, operando una comparazione in concreto tra l’illecito amministrativo previgente e la neo-introdotta fattispecie penale, si riscontrasse la natura più favorevole di quest’ultima. In primo luogo, infatti, a ciò conseguirebbe comunque l’inapplicabilità della sanzione formalmente amministrativa, in ipotesi, meno favorevole. In secondo luogo, e in ogni caso, in quanto l’individuazione della natura sostanzialmente penale di una sanzione amministrativa risponde piuttosto all’esigenza di evitare aggiramenti delle garanzie previste nell’ambito del diritto punitivo, non potendo dunque tale operazione avere come effetto l’estensione (anche temporale) dell’area della punibilità” (§ 5).

 

* * *

 

3. Il provvedimento allegato merita attenzione, perché, a quanto ci consta, rappresenta uno dei primi (se non il primo) in cui un giudice ordinario fa diretta applicazione del principio di retroattività in mitius in relazione ad una sanzione amministrativa a natura punitiva, pervenendo ad annullare la sanzione inflitta in ragione del fatto che, successivamente alla commissione del fatto illecito e all’applicazione della sanzione da parte dell’autorità amministrativa, è stata abrogata la disposizione che prevedeva l’illecito e la relativa sanzione.

Se è senz’altro questo l’aspetto più significativo della decisione, bisogna peraltro evidenziare come la vicenda concreta sottoposta all’attenzione del giudice presentasse dei profili peculiari, che meritano anch’essi a nostro avviso una pur breve riflessione.

Il primo aspetto da rammentare è che non ci si trova di fronte ad un caso di pura e semplice abrogazione dell’illecito amministrativo, ma si versa in un’ipotesi che, riprendendo una terminologia ormai diffusa, possiamo definire di successione impropria, con tale espressione alludendosi alle ipotesi in cui, contestualmente all’abrogazione di un illecito penale (o di un illecito amministrativo), il legislatore introduce un illecito amministrativo (o un illecito penale) dal medesimo contenuto precettivo. Si tratta di situazioni che già di per sé presentano profili di complessità, specie in mancanza di una disciplina transitoria. Nel caso di specie, poi, la questione è ancora più complicata, perché, con una soluzione assai singolare, la criminalizzazione di quello che era in precedenza un illecito amministrativo non è stata disposta nell’ottica di un inasprimento della risposta sanzionatoria, ma al contrario è stata politicamente motivata con l’intenzione di alleggerire tale risposta, in quanto la sanzione penale ora comminata risulterebbe (nelle intenzioni del legislatore storico) meno afflittiva della sanzione amministrativa oggetto di abrogazione.

Sui peculiari profili intertemporali che solleva la specifica vicenda oggetto della decisione in commento ci concentreremo al termine di questa nota; prima, però è utile soffermarsi sull’affermazione di portata generale circa la diretta applicabilità del principio di retroattività in mitius per le sanzioni amministrative “punitive”.

 

4. I passaggi logici seguiti dal Tribunale ragusano per motivare l’annullamento della sanzione amministrativa ci paiono ineccepibili. Il Tribunale parte dalla considerazione che, dopo la sentenza n. 63/2019 della Corte costituzionale[1], non vi possono essere dubbi circa l’applicabilità del principio di retroattività in mitius anche alle sanzioni amministrative di natura punitiva; passa poi a verificare se abbia natura punitiva la specifica sanzione amministrativa sottoposta al suo esame; e una volta data risposta positiva a tale quesito, fornisce un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1 l. 689/1981, e annulla la sanzione in ragione dell’abolizione della norma che la prevedeva.

Quanto al primo passaggio del ragionamento, non ci pare in effetti che la sentenza del 2019 lasci margini per interpretazioni di segno diverso. Già la sentenza 193/2016, che pure aveva respinto un’eccezione di costituzionalità dell’art. 1 l. 689/1981 mirante a far affermare la vigenza del principio di retroattività in mitius per tutte le sanzioni amministrative di cui alla legge del 1981, si era ben guardata dal negare l’applicabilità di tale principio alle sanzioni amministrative punitive, respingendo l’eccezione proposta solo in ragione del fatto che ciò che si chiedeva era l’affermazione di tale principio per tutte le sanzioni amministrative, quando invece risultava indispensabile una preliminare verifica circa la natura punitiva della specifica sanzione in oggetto[2]. Con la sentenza del 2019 ogni dubbio al riguardo viene fugato, e proprio il passaggio citato dalla sentenza di Ragusa, e riportato supra, è chiarissimo nell’affermare come, pur in mancanza di precedenti specifici della Corte di Strasburgo riguardo all’applicabilità della retroattività in mitius alle sanzioni penali ai sensi dei criteri Engel, non vi sia ragione per negare statuto costituzionale e convenzionale a tale principio rispetto alle sanzioni amministrative con carattere punitivo; come poi per la materia penale in senso stretto, non si tratta di un principio inderogabile al pari di quello dell’irretroattività in peius, posto che la sussistenza di controinteressi di rango costituzionale meritevoli di tutela può giustificare una deroga alla retroattività della norma punitiva più favorevole, ma in mancanza di specifiche e cogenti ragioni il principio deve valere anche nell’ambito della materia penale intesa in senso lato. Dopo tale sentenza, il rango costituzionale del principio di retroattività in mitius per tutte le sanzioni amministrative “punitive” ci pare possa essere affermato senza tema di smentite[3].

Il secondo passaggio logico, relativo alla concreta verifica che la specifica sanzione amministrativa oggetto di abrogazione avesse natura “punitiva”, non presenta nel caso di specie particolari difficoltà, ed è anche il passaggio meno interessante da un punto di vista generale. È pacifico infatti, anche alla luce delle due sentenze della Corte costituzionale cui si è appena fatto cenno, che il principio di retroattività in mitius non valga per tutte le sanzioni amministrative, ma solo per quelle che, in ragione della loro natura punitiva (oltre che della loro significativa carica afflittiva), siano da considerare sostanzialmente penali ai fini dell’applicazione delle garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale. Non è consentita insomma nessun’automatica estensione del principio all’intero genus delle sanzioni amministrative, ma solo a quella species di sanzioni che risultino “penali” ai sensi dei criteri Engel: anche questo punto ci pare possa darsi senz’altro per assodato.     

Dalla constatazione che il principio della retroattività in mitius vale per tutte le sanzioni “punitive”, e che la specifica sanzione sub iudice ha appunto finalità punitiva, la sentenza in commento trae poi rapidamente la conclusione che di tale principio il giudice ordinario deve fare diretta applicazione, e deve di conseguenza annullare la sanzione amministrativa irrogata in virtù di una norma non più vigente: un esito che, come già accennato, ci pare convincente, e che tuttavia crediamo meritare qualche riflessione più distesa.

 

 

5. È innanzitutto molto importante chiarire come, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 2019, il giudice (civile) che debba oggi decidere in ordine ad una sanzione amministrativa “punitiva” non più prevista dalla legge si trova di fronte ad un’alternativa binaria: o ritiene, come il Tribunale ragusano, di poter fare direttamente applicazione del principio di retroattività in mitius, annullando la sanzione inflitta, oppure deve sollevare questione di costituzionalità, in modo che sia la Corte costituzionale a rimuovere l’ostacolo che si frappone all’applicazione retroattiva della norma abrogatrice. Tertium non datur: la possibilità di continuare ad applicare la sanzione oggetto di abrogazione non può più essere considerata un’alternativa percorribile, dopo che la Corte costituzionale ha affermato senza incertezze l’applicabilità del principio anche alle sanzioni amministrative “punitive”.

Si tratta di una conclusione di grande importanza, e purtroppo ancora lontana dal costituire un’acquisizione pacifica per la nostra giurisprudenza. Di fronte all’emersione nella giurisprudenza costituzionale di un nuovo principio costituzionale, il giudice non può limitarsi a constatare che tale principio non è ancora stato recepito nella legislazione ordinaria, e nel mentre continuare ad adottare soluzioni che con esso si pongono in contrasto. È bene, infatti, chiarire in termini molto netti che l’estensione alle sanzioni amministrative del principio della retroattività in mitius non ha nulla a che vedere con l’applicazione analogica delle regole dettate dall’art. 2 co. 2 e ss. c.p.: regole che valgono per le sole sanzioni formalmente penali e non si applicano alle sanzioni amministrative (anche punitive), posto che il legislatore del 1981, nel disciplinare l’illecito amministrativo, ha esplicitamente deciso di non riprodurre in tale contesto normativo le regole in materia di retroattività, e dunque non vi è alcuna lacuna che possa essere colmata in via analogica[4]. Qui, però, non è questione di analogia, perché l’estensione del principio trova fondamento in una giurisprudenza costituzionale inequivoca, che ha affermato la vigenza del principio anche nel contesto delle sanzioni amministrative “punitive”: il giudice ordinario non ha alcun margine interpretativo, e se non vuole incorrere in una violazione del principio fissato dalla Corte costituzionale, o ne fa applicazione diretta, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata, o rimette la questione ai giudici delle leggi, qualora ritenga impossibile una tale interpretazione. Solo queste due, ci pare, sono le alternative praticabili, e non possiamo che augurarci che in futuro la giurisprudenza ne prenda atto, e non si assista più all’emissione di decisioni che, nonostante il dictum della Corte costituzionale, continuano a ritenere valida l’applicazione di sanzioni amministrative oggetto di abrogazione, trincerandosi dietro alla constatazione che non vi è, nel sistema degli illeciti amministrativi, alcuna norma che sancisca il principio di retroattività in mitius, e che le disposizioni di cui all’art. 2 c.p. non possono essere estese in via analogica alle sanzioni amministrative.         

 

6. Se riguardo al novero delle opzioni praticabili non ci pare possano esservi dubbi, più delicata è l’individuazione dei casi in cui è possibile un’interpretazione costituzionalmente conforme, o è invece necessario fare ricorso alla Corte costituzionale.

Nulla quaestio quando il legislatore abbia emanato una norma transitoria che espressamente escluda l’applicazione retroattiva della normativa più favorevole, come nella vicenda oggetto della decisione della Corte costituzionale del 2019. In tali ipotesi, di fronte ad una legge che si pone direttamente in contrasto con il principio di retroattività in mitius, il giudice non può che proporre un incidente di costituzionalità, posto che l’interpretazione costituzionalmente conforme gli è preclusa dall’esplicito tenore letterale della norma transitoria. Vi può, in verità, essere spazio per la disapplicazione di tale norma, e per l’applicazione diretta della nuova normativa più favorevole, quando la materia rientri tra quelle di competenza dell’Unione europea, e risultino dunque applicabili i principi della Carta europea dei diritti fondamentali, che come noto all’art. 49 prevede espressamente quello della retroattività in mitius. Il principio della supremazia delle fonti euro-unitarie direttamente applicabili (come appunto le norme della Carta) sulla normativa nazionale può in tali ipotesi consentire al giudice ordinario di disapplicare la norma interna in contrasto con il principio sovra-ordinato, senza passare dal vaglio della Corte costituzionale: ma in tutti gli altri casi, l’ostacolo normativo rappresentato dalla norma transitoria risulta insuperabile.

La situazione diventa più complessa quando il legislatore, come nel caso oggetto della decisione in commento, non abbia previsto alcuna disciplina intertemporale: può qui il giudice, mediante un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, fare applicazione della normativa più favorevole, o deve invece comunque rivolgersi alla Corte costituzionale?

La risposta a tale interrogativo dipende in buona sostanza dall’interpretazione che si intenda adottare dell’art. 1 co. 2 l. 689/1981, per cui “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”. Le intenzioni del legislatore storico erano senza dubbio quelle di escludere con tale norma l’applicazione del principio di retroattività in mitius, in netta opposizione alla disciplina prevista per le sanzioni penali dai co. 2 e ss. dell’art. 2 c.p.[5]: ma il tenore letterale della disposizione è tale da impedire un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, che al contrario riconosca tale principio, e dunque l’unica strada percorribile è il rinvio alla Corte costituzionale, o invece la formulazione della norma consente in via interpretativa il riconoscimento del principio che pure il legislatore storico intendeva negare?

Il Tribunale di Ragusa risolve la questione affermando che “il dettato normativo debba intendersi riferito alle sole modifiche in peius”, e facendo cenno alla categoria degli “spazi normativamente vuoti, ossia non regolati in modo antinomico dalla legislazione nazionale”, per sostenere in tali ipotesi la possibilità per il giudice ordinario di fare diretta applicazione dei principi convenzionali (e costituzionali).

Per quanto concerne tale ultima categoria, che la sentenza riprende dai lavori di autorevole dottrina[6], nel caso specifico essa non ci sembra pertinente, posto che proprio la presenza dell’art. 1 l. 689/1981 conduce ad escludere che si verta in un contesto privo di regolamentazione normativa. In altri termini, il tema della successione di leggi nel tempo trova una sua disciplina, per quanto riguarda le sanzioni amministrative, all’interno dell’art. 1 l. 689/1981 (che prevale, in quanto norma speciale, rispetto alle disposizioni sulla legge in generale contenute nelle Preleggi), sicché non può a nostro avviso essere invocata la categoria dello “spazio normativamente vuoto”, che ha come presupposto proprio l’assenza di disciplina nella materia in cui è chiamato ad operare il principio sovranazionale o costituzionale.      

Il problema, allora, è capire se il tenore letterale dell’art. 1 co. 2 l. 689/1981 sia tale da escludere la possibilità di riconoscere in via interpretativa il principio della retroattività in mitius, e le considerazioni sul punto del Tribunale ragusano, per quanto solo abbozzate, ci paiono da condividere. La norma, infatti, si limita ad enunciare la regola per cui le leggi in materia di sanzioni amministrative si applicano solo per i tempi in esse considerati, ma non esclude in modo esplicito che le modifiche più favorevoli possano essere applicate in via retroattiva: nulla vieta, dunque, che la norma venga interpretata, come fa il provvedimento in commento, come riferita alle sole modifiche in peius, che non sono coperte dal principio di irretroattività enunciato al co. 1 in relazione alle ipotesi di nuova incriminazione.

Ciò non significa, sia ben chiaro, affermare che quella sostenuta dal Tribunale di Ragusa sia l’unica interpretazione possibile dell’art. 1 co. 2 l. n. 689/1981: anzi, l’interpretazione opposta, che esclude l’applicabilità della retroattività in mitius, oltre ad essere conforme alle intenzioni del legislatore storico, è anche più agevole da argomentare alla luce del dato letterale. Tale interpretazione “facile” è tuttavia in contrasto con un principio costituzionale, e la domanda che deve porsi il giudice è allora se sia possibile una diversa interpretazione che, nei limiti del significato letterale della norma, sia in grado di evitare tale contrasto. Poco importa allora che l’interpretazione costituzionalmente (o convenzionalmente) conforme non sia quella più immediata, o vi siano ermeneutiche più solide da un punto di vista sistematico o storico: se la norma non presenta insuperabili ostacoli testuali all’adozione della sola interpretazione capace di renderla conforme a Costituzione, è a tale interpretazione che deve necessariamente accedere il giudice.

Tale modus procedendi ha trovato conferma, proprio in relazione al principio di retroattività in mitius, in una recentissima decisione della Corte costituzionale relativa al problema dell’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una sanzione amministrativa “punitiva”[7]. La questione era per molti versi simile a quella qui allo studio, posto che si trattava di valutare se il principio sancito all’art. 30 co. 4 l. 87/1953 (per cui “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”) dovesse valere anche quando la norma dichiarata incostituzionale non fosse una norma penale, ma una norma che prevedeva una sanzione amministrativa “punitiva”. La Corte, riprendendo proprio gli argomenti utilizzati nella sentenza n. 63/2019 già riportati sopra, giunge alla conclusione a fortiori per cui anche nei casi di sanzioni amministrative punitive dichiarate costituzionalmente illegittime debba valere il principio di retroattività della declaratoria di incostituzionalità[8].

L’aspetto della decisione che in questa sede più interessa è tuttavia quello relativo alla possibilità che a tale conclusione giungesse il giudice ordinario, senza bisogno dell’intervento della Corte costituzionale. La sentenza ricorda come la Cassazione avesse escluso l’applicazione retroattiva della declaratoria di incostituzionalità in quanto aveva ritenuto che la sanzione amministrativa in discussione (la revoca della patente) non avesse natura punitiva e non fosse dunque da considerare penale ai sensi dei criteri Engel: ma tale argomentazione, secondo i giudici delle leggi, “equivale al riconoscimento che la norma censurata (l’art. 30 l. n. 87/1953: n.d.a.) – già interpretata in modo estensivo dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base della ratio legis, quanto al tipo di declaratoria di incostituzionalità che incide sul giudicato – si presta a una lettura di analoga fatta anche quanto al novero delle sanzioni attinte dalla declaratoria di incostituzionalità, tale da ricomprendere, in particolare, le sanzioni amministrative con caratteristiche punitive al metro dei ‘criteri europei’”[9]. In conformità a tali premesse, il dispositivo della sentenza non dichiara incostituzionale l’art. 30 co. 4 l. n. 87/1953 in quanto tale, ma “in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida”.

La Corte costituzionale ritiene dunque che il giudice ordinario, qualora avesse qualificato come “punitiva” la sanzione amministrativa in questione, ben avrebbe potuto procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 30 co. 4 l. n. 87/1953 che lo ritenesse applicabile anche alle sanzioni amministrative punitive, benché tale norma sia stata formulata dal legislatore storico con riferimento alle sole disposizioni penali, e anche il testo della disposizione si riferisca agli “effetti penali” della condanna.   

Come allora il tenore letterale dell’art. 30 co. 4 l. n. 87/1953 non è da considerarsi ostativo ad un’applicazione del principio di retroattività delle declaratorie di incostituzionalità alle sanzioni amministrative “punitive”, così ci pare si possa argomentare che il contenuto testuale dell’art. 1 co. 2 l. n. 689/1981 non è d’ostacolo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che conduca all’applicazione della retroattività in mitius alle sanzioni amministrazioni “punitive”, senza che sia necessario l’intervento ablativo della Corte costituzionale. 

Rimane da ribadire, per concludere sul punto, che qualora si ritenga invece che il tenore dell’art. 1 co. 2 l. n. 689/1981 sia ostativo di una tale conclusione, l’unica soluzione che si prospetta al giudice, per le ragioni ricordate sopra, è quella di sollevare una questione di costituzionalità, che ci pare potrebbe essere strutturata in due modi diversi. Il giudice potrebbe sollevare questione di costituzionalità dell’art. 1 co. 2 l. n. 689/1981, nella parte in cui non consente l’applicazione retroattiva della disciplina più favorevole in relazione alla specifica sanzione amministrativa “punitiva” oggetto del giudizio (tale delimitazione del petitum ci pare indispensabile per superare gli argomenti che avevano condotto la Corte al rigetto della questione con la sentenza n. 193/2016 già ricordata sopra); oppure potrebbe eccepire l’incostituzionalità della norma che contiene la disciplina più favorevole, nella parte in cui non prevede l’applicazione di tale disciplina ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (soluzione che ci pare preferibile, perché evita di intervenire, sia pure “chirurgicamente, su una norma di portata generale come l’art. 1 l. n. 689/1981, che si applica anche a sanzioni amministrative non punitive, e interviene invece sulla norma che disciplina lo specifico illecito rispetto al quale si pone in concreto il problema del trattamento sanzionatorio applicabile).

 

7. La vicenda oggetto della pronuncia in commento presentava ulteriori profili di complessità in quanto, come già visto sopra, il legislatore del 2020 non si era limitato ad abrogare l’illecito amministrativo previsto dal cd. decreto Salvini, ma l’aveva sostituito con un delitto punito con la reclusione sino a due anni e la multa da 10.000 a 50.000 euro. Una volta allora stabilita l’applicazione retroattiva della legge abrogatrice dell’illecito amministrativo, rimane da chiarire se la contestuale introduzione del nuovo reato sia in qualche modo rilevante in relazione ai fatti compiuti prima della modifica normativa: la sentenza in commento molto recisamente lo esclude, ma ci pare opportuno svolgere brevemente qualche ulteriore considerazione al riguardo.

In effetti, l’esito dell’annullamento della sanzione amministrativa non può non lasciare perplessi, considerato come il legislatore non abbia affatto inteso rendere lecito il comportamento prima vietato, ma al contrario abbia elevato tale condotta ad illecito penale. Insomma, se all’abrogazione dell’illecito amministrativo si è accompagnata l’incriminazione della medesima condotta a titolo di reato, pare prima facie poco ragionevole la decisione di mandare esente da qualsiasi sanzione (amministrativa o penale) una condotta di cui il legislatore ha ancora ribadito il carattere illecito.

Per quanto non del tutto soddisfacente, la soluzione dell’annullamento era tuttavia l’unica praticabile, e la responsabilità per il vuoto di tutela che in questo modo si è venuto a creare è ascrivibile al legislatore, e non al giudice. È chiaro infatti sin dallo storico intervento di depenalizzazione del 1981 che, quando il legislatore dia luogo ad un fenomeno di successione impropria (cioè, come già visto sopra, quando un illecito penale è sostituito da un illecito amministrativo, o l’inverso) è assolutamente necessaria, per garantire la punibilità dei fatti commessi prima della riforma, l’adozione di una disciplina transitoria. E infatti, l’art. 40 della l. n. 689/1981 prevedeva espressamente che “le disposizioni  di questo Capo si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all'entrata in vigore della presente legge che le  ha  depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito”[10]; e più di recente, quando il legislatore ha proceduto ad un nuovo, massiccio intervento di depenalizzazione, tanto nel d.lgs. n. 7/2016 (che ha introdotto la figura dell’illecito civile), quanto nel d.lgs. n. 8/2016 (che ha invece proceduto ad una più classica conversione di alcuni reati in illeciti amministrativi) è presente una disciplina transitoria che espressamente stabilisce l’applicabilità dei nuovi illeciti ai fatti commessi in precedenza[11].

Nel caso di specie, l’introduzione di una disciplina transitoria si rendeva ancora più necessaria, perché non ci si trovava di fronte ad una “classica” successione impropria tra un illecito penale ed un illecito amministrativo, ma al fenomeno inverso: con l’ulteriore peculiarità che, al fine dichiarato di alleggerire l’impianto sanzionatorio nei confronti delle ONG che non avessero rispettato il divieto di ingresso nelle acque territoriali, si è sostituito ad un illecito amministrativo punito molto severamente (sanzione sino a 1 milione di euro e confisca obbligatoria dell’imbarcazione) un illecito penale dal blando contenuto sanzionatorio (reclusione senza minimo edittale, sanzione pecuniaria di importo 20 volte inferiore alla precedente, nessuna ipotesi speciale di confisca).

Non è questa la sede per ricostruire le complicate vicende politiche che hanno portato all’adozione di una soluzione normativa così anomala[12]. È opportuno peraltro ricordare come la possibilità che una sanzione amministrativa sia in concreto più afflittiva di una sanzione penale sia già stata espressamente riconosciuta dalla Corte costituzionale[13]. In un caso, opposto a quello qui allo studio, in cui la sanzione penale era stata sostituita da una complesso sanzionatorio amministrativo  in concreto più afflittivo (in ragione in particolare della previsione della confisca per equivalente), la Corte ha censurato la scelta del legislatore di prevedere una disciplina transitoria che rendeva applicabile la nuova e più grave sanzione amministrativa ai fatti commessi prima della riforma, criticando il formalistico presupposto che la qualificazione come amministrativa della sanzione la rendesse comunque più favorevole rispetto al previgente apparato penalistico[14].

Nel caso che ci interessa, la constatazione che una sanzione penale può in concreto essere meno afflittiva di una sanzione amministrativa non può in ogni caso condurre a soluzioni diverse da quella, adottata dalla sentenza in commento, di non applicare alcuna sanzione. Come correttamente messo in luce da uno dei primi commentatori della riforma Lamorgese, bisogna evitare di cadere nell’errore di prendere le mosse dall’attribuzione di carattere penale à la Engel alle sanzioni amministrative “punitive”, per qualificare come una successione tra norme “penali” il fenomeno qui allo studio, e ritenere di conseguenza applicabile la nuova e più favorevole sanzione penale[15].

A tale conclusione, osta in primo luogo il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., per cui in nessun caso una sanzione penale può essere applicata a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. È pur vero allora che, come nel caso che ci interessa, la nuova sanzione penale può essere meno afflittiva della sanzione ammnistrativa che va a sostituire, ma il carattere stigmatizzante proprio della sanzione penale in senso stretto rende inimmaginabile che essa possa essere applicata ad un soggetto che non era nelle possibilità di prevedere al momento del fatto le conseguenze giuridiche pregiudizievoli della propria condotta.

Ragionare diversamente condurrebbe anche ad un fraintendimento della nozione (costituzionale e convenzionale) di materia penale in senso lato, che in chiave storica e sistematica ha la funzione di estendere le garanzie penalistiche oltre i confini della nozione formale di sanzione penale, e non può essere posta a base di una ricostruzione che al contrario abbia l’effetto di violare il fondamentale presidio garantistico dell’irretroattività della norma penale in senso stretto.

Anche se fosse intervenuto con una disciplina transitoria, poi, il legislatore non avrebbe comunque potuto rendere applicabile la nuova norma penale ai fatti commessi in precedenza, appunto per il limite invalicabile rappresentato dall’art. 25 Cost. Ciò che avrebbe potuto fare il legislatore era prevedere che tali fatti restassero punibili a titolo di sanzione amministrativa, ma con eliminazione delle sanzioni non più presenti nella nuova disciplina (la confisca) e con riduzione della sanzione amministrativa pecuniaria allo spazio edittale previsto dalla nuova norma penale. In questo modo, il regime transitorio sarebbe risultato conforme al principio di irretroattività della norma penale e a quello dell’applicabilità della disciplina più favorevole, e si sarebbe evitata la creazione di una irragionevole area di non punibilità per i fatti illeciti commessi prima della riforma.   

In mancanza tuttavia di alcuna norma transitoria, il giudice non poteva che constatare la non applicabilità della (più grave) sanzione amministrativa abrogata, in ragione dell’applicabilità del principio di retroattività in mitius anche alle sanzioni amministrative “punitive”; e al contempo rilevare l’inapplicabilità della nuova (meno grave) sanzione penale in applicazione del principio di irretroattività della norma penale in senso stretto. Ogni volta che si verifica un fenomeno di successione impropria, in mancanza di disciplina transitoria l’esito è inevitabilmente quello della non applicabilità di alcuna sanzione ai fatti commessi prima della riforma[16], e la decisione qui in commento ci pare avere ben motivato, nel caso assai peculiare oggetto di scrutinio, le ragioni di una tale conclusione.

 

 

[1] C. cost. n. 63/2019, con nota ex multis di M. Scoletta, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte costituzionale, in DPC, 2.4.2019.

[2] C. cost., n. 193/2016, con nota di P. Provenzano, Sanzioni amministrative e retroattività in mitius: un timido passo in avanti, in DPC – Riv. Trim., 2016, n. 3, 270 ss.

[3] Cfr. per tutti di recente F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in RIDPP, 2020, n. 4: “Anche la retroattività in mitius ha fatto così ingresso nello statuto garantistico della sanzione amministrativa di carattere ‘punitivo’, con conseguente illegittimità costituzionale di eventuali discipline transitorie che mirino, senza adeguata giustificazione, a escludere l’applicazione retroattiva di modifiche sanzionatorie più favorevoli” (p. 10 ed. on-line).

[4] In questo senso, cfr. già C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa – profili sistematici, 1988, 176: “Tanto meno in questo caso si legittimerebbero siffatte operazioni analogiche, in quanto ne manca il presupposto giuridico (la ‘lacuna’: lo stesso legislatore, che pure ha voluto ricalcare, riproducendone la forma, molti istituti penalistici, ha mostrato esplicitamente di volere ‘lasciare fuori’ dalla ‘nuova disciplina’ il principio delineato nell’art. 2 co. 2 e 3 c.p.”.

[5] Per questa pacifica considerazione, cfr. per tutti C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, cit., 176 ss.

[6] Il riferimento è ai numerosi lavori di F. Viganò, in cui si sostiene appunto che il giudice ordinario può fare diretta applicazione del principio contenuto nella norma sovranazionale, quando tale principio non si trovi in contrasto con una disposizione interna, posto che esso è chiamato ad intervenire in uno “spazio normativamente vuoto”: cfr. in particolare F. Viganò, L’adeguamento del sistema penale italiano al “diritto europeo” tra giurisdizione ordinaria e costituzionale – Piccolo vademecum per giudici e avvocati penalisti, in DPC – Riv. Trim., 2014, n. 2, 171: “Ma – ed ecco il punto cruciale – nulla osta alla diretta applicazione da parte del giudice ordinario di una norma internazionale ‘incorporata’ allorché tale diretta applicazione non implichi la contestuale disapplicazione di altra norma interna contrastante: il che ben può accadere, nei casi in cui la norma internazionale in questione si inserisca in uno spazio giuridicamente ‘vuoto’, ossia non regolato dalle norme puramente interne. In questa ipotesi nulla, ripeto, si opporrà alla diretta applicazione da parte del giudice ordinario della norma internazionale” (corsivi nel testo).

[7] C. cost. n 68/2021, con nota di M. Scoletta, La revocabilità della sanzione amministrativa illegittima e il principio di legalità costituzionale della pena, in questa Rivista, 20.4.2021.

[8] Considerato in diritto, § 7: “a maggior ragione va escluso – come per le sanzioni penali – che taluno debba continuare a scontare una sanzione amministrativa “punitiva” inflittagli in base a una norma dichiarata costituzionalmente illegittima: dunque, non già oggetto di semplice “ripensamento” da parte del legislatore, ma affetta addirittura da un vizio genetico, il cui accertamento impone, senza possibili eccezioni, di lasciare immune da sanzione, o di sanzionare in modo più lieve, chiunque dopo di esso commetta il medesimo fatto”.

[9] Considerato in diritto, §4.2.

[10] Per una riflessione circa il significato di tale disposizione all’interno della legge del 1981, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, cit., p. 177: “Si tratta, come si è anticipato, di una disposizione non certo a favore, bensì contro l’incolpato. L’ipotesi prospettata integra infatti una abolitio criminis (tramite depenalizzazione) e, in assenza dell’art. 40, all’autore dell’illecito non sarebbe applicabile la sanzione criminale (a norma dell’art. 2 co. 2 c.p.), la sanzione amministrativa (giacché quest’ultima, a norma dell’art. 1 l. n. 689/1981, avrebbe già dovuto essere già prevista come tale – cioè come amministrativa – da una legge entrata in vigore prima e non dopo la commissione del fatto). L’art. 40 viene cioè ad assoggettare a sanzione amministrativa fatti che altrimenti sfuggirebbero a qualsiasi conseguenza sanzionatoria”.

[11] Art. 12 co. 1 d.lgs. n. 7/2018 (“Le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili  del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi  anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili”) e art. 8 co. 1 d.lgs. n. 8/2018 (“Le disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili”).

[12] Per un’analisi delle ragioni e dei limiti della riforma Lamorgese, sia consentito il rinvio a L. Masera, Il contrasto amministrativo alle ONG che operano soccorsi in mare, dal codice di condotta di Minniti, al decreto Salvini bis e alla riforma Lamorgese: le forme mutevoli di una politica costante, in Quest. giust., 15.6.2021, cui rinviamo anche per i riferimenti ai diversi commenti alla riforma in oggetto.

[13] C. cost. 223/2018, con note di G.L. Gatta, Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’. La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario), in DPC, 13.12.2018 e F. Mazzacuva, Successione di leggi punitive e principi costituzionali, in Giur. cost., 2018, 2575 ss.

[14] C. cost. 223/18, § 6.2: “la presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale nell’ipotesi di depenalizzazione di un fatto precedentemente costitutivo di reato non può che intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione risulti in concreto più gravoso di quello previgente. Con conseguente illegittimità costituzionale dell’eventuale disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione anche ai fatti pregressi, per violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.”.

[15] Cfr. S. Zirulia, Il diritto penale nel “Decreto Lamorgese”: nuove disposizioni, vecchie politiche criminali, in Dir. pen. proc., 2021, 567 ss.: “Ravvisare la natura sostanzialmente penale di un illecito formalmente amministrativo è un’operazione ermeneutica che, come è noto, risponde all’esigenza di evitare aggiramenti delle garanzie previste dalla legge e dalle fonti sovra-legali per il diritto “punitivo”, e non certo a quella, di segno opposto, di espandere l’area dell’illecito; esito quest’ultimo che invece si produrrebbe laddove la riqualificazione dell’illecito amministrativo fosse invocata per sostenerne la continuità normativa, altrimenti insussistente, con un successivo illecito penale. Per tale ragione appare preferibile concludere che tra le due previsioni in parola sussista una netta cesura temporale: con la conseguenza che i fatti commessi fino allo scorso 22 ottobre non potranno più essere sanzionati né ai sensi dell’illecito amministrativo “punitivo” di cui all’art. 12, comma 6-bis T.U. imm., abrogato con effetto retroattivo in bonam partem; né ai sensi della nuova fattispecie delittuosa, trattandosi di nuova incriminazione (art. 2, comma 1 c.p.)”.

[16] In questo senso, in relazione al fenomeno più comune di successione tra una sanzione penale e una sanzione amministrativa, cfr. le chiarissime conclusioni cui perviene F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., 8 versione-online: “Come la giurisprudenza della Cassazione ha da tempo riconosciuto, in assenza di disposizioni transitorie il giudice penale non potrà, in tali ipotesi, che definire il giudizio con una sentenza di proscioglimento ai sensi dello stesso art. 2 co. 2 c.p., senza trasmettere gli atti all’autorità amministrativa; la quale – dal canto suo – non potrebbe applicare le nuove sanzioni in forza del generale principio dell’art. 11 Preleggi, secondo cui la legge si applica soltanto per il futuro, salvo che sia diversamente stabilito”.