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28 Dicembre 2023


Il Disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo tra Italia ed Albania in materia di immigrazione: analisi del progetto e questioni di legittimità

D.d.l. AC 1620 di ratifica ed esecuzione del Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, fatto a Roma il 6 novembre 2023, nonché norme di coordinamento con l’ordinamento interno, presentato il 18 dicembre 2023



1. Premessa. – Lo scorso lunedì 18 dicembre il Governo ha presentato alla Camera il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del “Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, firmato a Roma il 6 novembre: il Protocollo in cui, come noto, si prevede la creazione di centri in territorio albanese, destinati al trattenimento di stranieri irregolari e richiedenti asilo.

In un primo momento, in verità, le intenzioni manifestate dal Governo (in persona del Ministro per i Rapporti con il Parlamento) erano state quelle di dare diretta applicazione al Protocollo, senza alcun passaggio parlamentare, sulla base dell’argomento che esso costituisse un semplice accordo attuativo del “Trattato di Amicizia e di Collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania”, siglato a Roma il 13 ottobre 1995, e del “Protocollo tra il Ministero dell’interno della Repubblica italiana e il Ministero dell’interno della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione bilaterale nel contrasto al terrorismo e alla tratta di essere umani”, firmato a Tirana il 3 novembre 2017. Molte voci, sia dal mondo della politica che del diritto[1], avevano tuttavia posto in evidenza come nel Trattato del 1995 fosse presente solo un generico consenso a future intese da siglare in tema di immigrazione, mentre il Protocollo del 2017 non fosse neppure mai stato reso pubblico[2]: sicché il disposto dell’art. 80 Cost. (per cui, come noto, devono essere ratificati dal Parlamento gli accordi internazionali che “sono di natura politica (…) o importano oneri alle finanze o modificazioni di leggi”) non poteva in alcun modo ritenersi rispettato con il mero richiamo agli accordi del passato. Evidentemente il Governo si è presto reso conto dell’insostenibilità della propria posizione, e già nell’intervento di illustrazione alla Camera del Protocollo da parte del Ministro degli esteri, il 21 novembre scorso, era stata annunciata la presentazione del disegno di legge qui in commento.

Di seguito procederemo anzitutto ad analizzare da vicino il contenuto del testo che viene sottoposto al vaglio parlamentare, cercando di delineare le linee essenziali dell’intervento che si va in concreto a delineare. Conclusa la prima parte essenzialmente ricostruttiva della proposta normativa, cercheremo poi di comprendere l’effettiva portata pratica del disegno politico che il Governo ha inteso promuovere, e indicheremo le maggiori criticità che ci pare di riscontrare sotto il profilo della legittimità costituzionale, convenzionale e di diritto dell’Unione della nuova normativa.

Nel testo non ci soffermeremo invece sugli aspetti organizzativi e finanziari del progetto, che pure trovano ampio spazio all’interno del d.d.l, in modo particolare all’art. 5 (Disposizioni organizzative) che individua le esigenze di personale che ciascuna articolazione dello Stato si troverà a dover affrontare e specifica le risorse finanziarie per farvi fronte, e all’art. 6 (Disposizioni finanziarie), che individua le coperture per le diverse fonti di spesa (per un totale di diverse centinaia di milioni di euro). La corposa relazione tecnica (più di 30 pagine) completa il quadro con dettagli relativi ai siti ed ai lavori necessari per renderli operativi, delineando i contorni di un progetto pronto ad entrare nella fase realizzativa.

 

2. La natura giuridica dei centri di prossima costruzione. – Il d.d.l. in esame contiene anzitutto l’individuazione della tipologia di centri che potranno essere predisposti sul territorio albanese. Al riguardo, in effetti, il Protocollo non forniva una risposta precisa. Dal testo dell’accordo siglato con il Governo albanese emerge solo che si tratta senza ombra di dubbio di luoghi chiusi, da cui i “migranti” (definiti ai sensi dell’art. 1 c. 1 lett. d) come “cittadini di Paesi terzi o a apolidi per i quali deve essere accertata o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza nel territorio italiano”) non possono uscire; l’art. 6 co. 6 del Protocollo al riguardo è chiarissimo: «le competenti autorità italiane adottano le misure necessarie al fine di assicurare la permanenza dei migranti all’interno delle Aree, impedendo la loro uscita non autorizzata nel territorio della Repubblica d’Albania».

Posto allora che si tratta di luoghi di detenzione amministrativa di stranieri irregolari, nel nostro ordinamento come ben noto sono diversi, e forniti di autonoma disciplina legislativa, i luoghi ove tale detenzione può avere luogo: anzitutto gli attuali CPR, che sin dal 1998 trovano la loro disciplina nell’art. 14 del TUI; ma più di recente anche i cd. hotspot (o punti di crisi), ove la legge prevede possano essere creati spazi per il trattenimento amministrativo. La mancanza di chiarezza al riguardo del Protocollo aveva dato adito a ricostruzioni differenti da parte delle stesse fonti di governo: in alcuni casi si parlava solo della creazione di uno o due hotspot, in altri casi anche della costruzione di un nuovo CPR.

Il disegno di legge al riguardo fa chiarezza: si tratterà di entrambe le tipologie di centri di detenzione amministrativa. L’art. 3 del d.d.l. (rubricato “disposizioni di coordinamento”, ma in realtà contenente alcune delle disposizioni più rilevanti del decreto) dispone infatti al co. 4 che alcune strutture siano equiparate a quelle previste dall’art. 10 ter del TUI, che prevede la possibilità di creare, all’interno dei “punti di crisi” ove viene gestita nelle zone di frontiera la fase di prima accoglienza, appositi luoghi di trattenimento per stranieri irregolari o richiedenti protezione per i quali si profili il rischio di fuga[3]; ma dispone altresì che sia allestita una “struttura per il rimpatrio”, equiparata ai centri previsti dall’art. 14 TUI, ove sono disciplinati i CPR. Il percorso della detenzione amministrativa deve insomma trovare, nel disegno legislativo, piena e completa attuazione nel territorio albanese, tanto nella fase di identificazione e prima valutazione delle domande, quanto in quella successiva di esecuzione dell’eventuale decisione di rimpatrio; e solo “in casi eccezionali”, su decisione del responsabile del centro, lo straniero “può essere trasferito in strutture situate nel territorio italiano” (art. 3 co. 6).

Nelle pieghe del d.d.l. viene poi prevista un’ulteriore e diversa forma di detenzione, che nel dibattito pubblico è stata del tutto ignorata. I co. 6 e ss. dell’art. 4 del d.d.l. dispongono infatti che, per i reati commessi dallo straniero all’interno di uno dei centri di nuova costituzione, sussista la giurisdizione italiana (in parziale deroga, come vedremo, a quanto disposto dall’art. 10 c.p.) e la stessa possa venire esercitata dalla polizia e dall’autorità giudiziaria italiana, con modalità di partecipazione a distanza delle parti e del giudice; per quanto ora interessa, poi, il co. 11 dispone che, quando il giudice applichi la misura cautelare della custodia in carcere, la stessa venga eseguita “mediante trasferimento presso idonee strutture” collocate nelle aree ove si applica il Protocollo. In sostanza, quindi, si prevede la creazione di un mini-carcere in territorio albanese, destinato all’esecuzione delle sole misure cautelari, e del quale il d.d.l. non contiene alcuna ulteriore disciplina: una novità molto significativa, anche dal punto di vista sistematico, e che ci auguriamo riceva in sede parlamentare la necessaria attenzione.

 

3. I soggetti che potranno essere detenuti in Albania. – Oltre alla natura dei centri, un’altra fondamentale questione che il Protocollo lasciava aperta a soluzioni diverse era quella dei possibili destinatari del trattenimento in Albania. Nelle prime dichiarazioni successive alla firma, si era parlato della destinazione a tali centri dei soli migranti soccorsi da navi italiane in acque internazionali, anche se nel testo del Protocollo non vi era alcuna specifica disposizione al riguardo; tanto che in dichiarazioni successive era stata anche ventilata la possibilità di trasferirvi dall’Italia soggetti destinati al rimpatrio, che non avevano trovato posto nei CPR presenti nel territorio nazionale.

L’art. 3 co. 2 d.d.l. chiarisce la questione, confermando le intenzioni originarie: nei centri di futura costruzione «possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso».

La decisione del Governo pare avere una ragione chiara, per quanto mai espressamente esplicitata. Si vuole evitare che la nuova pratica possa essere definita come una forma di “deportazione”, intesa in senso lato come trasferimento non volontario al di fuori del territorio nazionale di soggetti privati della libertà personale, e si intende confinare nei centri albanesi solo soggetti che non sono mai entrati nel territorio (o nel mare territoriale) dell’Italia o dell’Unione europea, e che quindi non vengono “trasferiti” dal territorio dell’Italia o dell’Unione. Vedremo meglio in seguito, quando valuteremo i profili di legittimità del d.d.l., se ed in che termini la scelta di portare in Albania direttamente dalle acque internazionali, invece che di trasferire dal territorio italiano, i soggetti di cui viene “esternalizzata” la detenzione, costituisca davvero un elemento determinante ai fini della valutazione circa la legittimità della nuova prassi. Ciò che al momento si può senz’altro constatare, è che gli scenari circolati nelle settimane successive alla ratifica del Protocollo, ove si ipotizzava la previsione di possibili trasferimenti in Albania di soggetti trattenuti in Italia[4], sono stati infine esclusi dal Governo, che ha optato per una ristretta delimitazione soggettiva dei destinatari della nuova misura.

Non ha trovato invece riscontro nel testo del d.d.l. l’esclusione dalla nuova procedura dei minori e dei soggetti vulnerabili, che pure è stata più volte data per pacifica in sede mediatica. Forse perché il Governo si è reso conto che sarebbe stato impossibile compiere sulle navi l’individuazione di tali soggetti, il d.d.l. non contiene nessuna specifica indicazione al riguardo, non prevedendo alcun tipo di selezione tra i soggetti soccorsi in mare, prima del loro sbarco in Albania. Dal momento che secondo la normativa italiana i minori non possono essere trattenuti in ragione della loro condizione di irregolarità, una volta riconosciuti come tali essi dovrebbero essere immediatamente trasferiti in strutture collocate in Italia, e idonee alla loro accoglienza; ma il d.d.l. non spende una parola sul punto, lasciando al percorso parlamentare l’onere di colmare questa gravissima lacuna nella regolamentazione del progetto. 

Prima di procedere oltre, solo un cenno ad un profilo specifico, su cui non torneremo in sede di commento critico del d.d.l. La norma, come visto, prevede che possano essere condotti in Albania solo migranti “imbarcati su mezzi delle autorità italiane”, così escludendo che la nuova normativa possa trovare applicazione quando il soccorso è stato operato da navi di organizzazioni umanitarie straniere, ma anche italiane, posto che la norma parla di mezzi delle “autorità” italiane. Del resto, che le navi delle ONG dovessero rimanere estranee alla nuova procedura, risultava implicitamente anche dal tenore del Protocollo, ove all’art. 4 co. 4 si precisa che «l’ingresso dei migranti in acque territoriali e nel territorio della Repubblica di Albania avviene esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane». La formulazione del Protocollo in realtà non esclude che i migranti vengano trasferiti dal territorio italiano, posto che si riferisce solo alle modalità di ingresso in Albania, e non alla loro provenienza, ed infatti abbiamo notato sopra come sia stato necessario l’intervento del d.d.l. per chiarire la questione dei destinatari della nuova normativa. Il riferimento ai mezzi delle “autorità” italiane mostra invece come già in sede di stesura del Protocollo sia stata ritenuta preferibile l’opzione di lasciare il Governo albanese estraneo alla controversia che da anni ormai agita i rapporti tra il Governo italiano e la civil fleet umanitaria che opera nel Mediterraneo centrale, prevedendo che in Albania vengano trasferiti solo migranti sottoposti al controllo delle autorità italiane.

 

4. La giurisdizione e la normativa applicabile nei centri. – Il principio di fondo che ispira il d.d.l. nel risolvere il problema più complesso, rappresentato dall’individuazione della normativa applicabile nei nuovi centri, è in sostanza quello della creazione di una enclave italiana in territorio albanese, esclusivamente dedicata alla detenzione (amministrativa e penale, come visto sopra) di migranti privi di valido titolo per l’ingresso in Italia. Né il Protocollo, né il d.d.l. parlano espressamente di acquisizione della sovranità da parte dell’Italia su una parte del territorio albanese, perché così formulato l’accordo sarebbe risultato davvero problematico per la nostra controparte, ma in sostanza il modello che si delinea è proprio quello di una enclave italiana, ove si applica in toto il diritto italiano (ed europeo), e le autorità albanesi sono competenti solo per garantire la sicurezza del perimetro esterno dell’area, potendo farvi ingresso solo con l’espresso consenso del responsabile italiano della struttura[5]. In effetti, tutte le soluzioni proposte in tema di giurisdizione e legge applicabile, che andremo ora ad analizzare, vanno proprio in questa direzione, cioè verso l’istituzione di “centri italiani di detenzione”, eccezionalmente collocati in territorio straniero, ma integralmente sottoposti alla normativa e alla giurisdizione italiane.

 

4.1. La normativa in materia di ingresso e di richiesta della protezione internazionale applicabile agli stranieri detenuti. – L’art. 4 del d.d.l. (titolato Giurisdizione e legge applicabile) esordisce al co. 1 precisando che ai migranti che saranno detenuti in Albania «si applicano, in quanto compatibili, il d.lgs. 286/1998 (il cd. TUI), il d.lgs. 251/2007 (normativa di attuazione della direttiva 2004/83/CE, cd. direttiva qualifiche), il d.lgs. 25/2008 (normativa di attuazione della direttiva 2005/85/CE, cd. direttiva procedure), il d.lgs. 142/2015 (normativa di attuazione della direttiva 2013/33/UE, cd. direttiva accoglienza) e la disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale».

Si tratta della disposizione a nostro avviso più significativa dell’intero decreto, in quanto delinea i termini essenziali dell’operazione. La collocazione fuori dall’Italia delle strutture detentive non comporta la sottrazione dei detenuti alla normativa italiana ed europea, che continua ad applicarsi loro, esattamente come se i centri si trovassero in Italia. La norma fa espressamente riferimento ai quattro decreti legislativi che rappresentano la base normativa più significativa in materia di immigrazione e di protezione internazionale, ma si tratta di un’elencazione solo esemplificativa, considerata l’ampia clausola di chiusura: ad essere applicabile nei nuovi centri è tutto il corpus normativo (nazionale ed europeo) che disciplina l’ingresso e il soggiorno dello straniero in Italia, e che regola l’accesso alle diverse forme di protezione internazionale.

A determinare la disciplina concretamente applicabile concorre poi un’altra importante disposizione, l’art. 3 co. 2, per cui «ai fini dell’esecuzione del Protocollo, le aree (…) sono equiparate alle zone di frontiera o di transito individuate dal decreto ministeriale adottato ai sensi dell’art. 28 bis co. 4 d.lgs. 25/2008». La norma richiamata è quella ove trova disciplina la cd. procedura accelerata (di valutazione della domanda di protezione), applicabile nelle zone di frontiera nei casi di domande reiterate e negli altri casi ivi previsti. Dunque, l’equiparazione ex lege dei centri collocati in Albania alle zone di frontiera, serve per rendere applicabile, oltre alla disciplina generale richiamata all’art. 4, anche la specifica normativa sulla procedura accelerata di valutazione delle domande di protezione[6].

 

4.2. La giurisdizione in materia di immigrazione e di protezione e in materia penale. – La seconda parte dell’art. 4 co. 1 d.d.l., dopo che il primo periodo ha individuato nei termini di cui sopra la normativa applicabile allo straniero, dispone che «per le procedure previste dalle disposizioni indicate al primo periodo sussiste la giurisdizione italiana e sono territorialmente competenti, in via esclusiva, la sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del Tribunale di Roma e l’ufficio del giudice di pace di Roma».

La scelta pare ovvia, viste le premesse. Una volta decisa l’applicabilità nei centri della normativa italiana, la giurisdizione non può che essere dei giudici italiani, e come di consueto per i fatti commessi all’estero, rispetto ai quali vi è giurisdizione italiana, gli uffici giudiziari territorialmente competenti sono quelli di Roma (in via esclusiva, si premura di precisare la norma per evitare possibili conflitti di giurisdizione).

Coerente con l’idea della creazione di una enclave è poi anche la normativa del d.d.l. in materia di giurisdizione per i fatti di reato eventualmente commessi dagli stranieri all’interno dei nuovi centri. Ai sensi dell’art. 4 co. 6 d.d.l., «in deroga all’art. 10 c.p., salvo che il fatto sia commesso in danno di un cittadino albanese o dello Stato albanese, lo straniero sottoposto alle procedure di rimpatrio che commette un delitto all’interno delle aree (…) è punito secondo la legge italiana, se vi è richiesta del Ministro della giustizia, fermo il regime di procedibilità previsto per il delitto. La richiesta del Ministro non è necessaria per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni».

Si tratta di una disposizione di grandissima importanza, specie nella prospettiva del penalista; si propone di legiferare in modo espressamente derogatorio alla disciplina del codice penale in materia di giurisdizione del giudice penale, senza che la questione sia stata neppure discussa sui media o nel dibattito pubblico, la cui attenzione è stata esclusivamente rivolta ai profili relativi all’applicazione della normativa in tema di immigrazione e asilo. In realtà, la norma va ad incidere profondamente sull’ampiezza della nostra giurisdizione, posto che, nelle ipotesi (come quelle ora allo studio) di delitto comune dello straniero all’estero, l’art. 10 c.p. prevede, quando il delitto sia commesso a danno dello Stato o di un cittadino, l’applicazione della legge italiana per i delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno, alla duplice condizione che l’indagato si trovi nel territorio dello Stato e che vi sia richiesta del Ministro della giustizia (se il reato è a danno di stranieri o di Stati esteri, il limite edittale è della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni).

La nuova norma va ad eliminare uno o addirittura entrambi gli speciali requisiti previsti per il reato commesso all’estero dallo straniero: per i reati commessi dagli stranieri detenuti nei centri viene sempre eliminato il requisito della presenza dell’indagato sul territorio dello Stato, e per i reati di media-alta gravità (delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni) non serve neppure la richiesta del Ministro della giustizia. In sostanza, è come se si trattasse di reati commessi in Italia, salvo che per i reati di scarsa gravità è richiesta la richiesta del Ministro della giustizia: non si dice mai espressamente che si tratta di un territorio sottratto all’autorità albanese, ma anche in tema di giurisdizione penale si prosegue nel considerare che in sostanza si tratti di territorio italiano.

L’aspetto che rende ancora più problematica la normativa (e che probabilmente non è stato preso in considerazione dei redattori del testo) è che si tratta di un criterio di giurisdizione (il solo, nel nostro ordinamento penale) che ha un profilo marcatamente soggettivo: non lo straniero, come ricorrente nelle norme codicistiche in materia di giurisdizione, ma solo lo straniero detenuto dei centri. Ciò significa in maniera inequivocabile che la deroga all’art. 10 c.p. non vale per i reati commessi da stranieri presenti nei campi, ma non ivi detenuti per ragioni dovute all’irregolarità dell’ingresso, e soprattutto che ai cittadini continuano ad applicarsi le regole generali in materia di giurisdizione, per cui ex art. 9 c.p. per il delitto comune del cittadino all’estero è prevista l’applicabilità della legge italiana nei casi di reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, ma è richiesta la presenza nel territorio dello Stato (nei casi di reclusione di minore durata, è necessaria anche la richiesta del Ministro della giustizia). Si viene così a creare una situazione paradossale, per cui all’interno dei centri l’autorità giudiziaria italiana ha giurisdizione per i fatti commessi dagli stranieri detenuti, ma non per quelli commessi dai cittadini italiani, dal momento che sino a che essi non rientrano in Italia, ai sensi dell’art. 9 c.p. la giurisdizione italiana non sussiste, visto che i reati devono considerarsi commessi all’estero (come lascia intendere lo stesso d.d.l., quando parla espressamente, per i reati degli stranieri, di deroga all’art. 10 c.p., relativo ai reati commessi dagli stranieri all’estero). In sostanza, senza una norma ad hoc, come quella dettata dal d.d.l. per gli stranieri, la fictio dell’extraterritorialità mostra la sua fragilità, dal momento che l’autorità albanese non dovrebbe avere giurisdizione (così fa intendere il Protocollo), e la giurisdizione italiana, risultando comunque i centri collocati all’estero, richiede come requisito la presenza in Italia dell’autore del reato, che dunque sino a che rimane nei centri sarebbe in sostanza immune da qualsiasi giurisdizione. Un evidente nonsenso, che sicuramente merita di essere superato nel corso dell’iter parlamentare.

 

5. Le norme procedimentali. – Le ultime disposizioni su cui conviene soffermare l’attenzione sono quelle dedicate ai profili procedimentali: cioè le norme ad hoc dettate per garantire il rispetto del diritto di difesa dello straniero rispettivamente nei procedimenti in materia di ingresso e di protezione, e nei procedimenti penali, quando questi si svolgono nei centri di nuova istituzione.

 

5.1. La disciplina dei procedimenti relativi all’ingresso, alla richiesta di protezione ed al trattenimento ammnistrativo. – L’art. 4 co. 2 contiene anzitutto alcune precisazioni relative alle modalità di rilascio della procura al difensore: si stabilisce che «lo straniero rilascia la procura speciale al difensore mediante sottoscrizione apposta su documento analogico», che la procura «è trasmessa con strumenti di comunicazione elettronica, anche in copia informatica per immagine», e che la procura così rilasciata «soddisfa i requisiti previsti dall’art. 83 c.p.c. e dall’art. 122 c.p.p.».

Fondamentale è poi il co. 3, dove si sancisce che il responsabile del centro «adotta le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesa dello straniero», precisandosi che «è assicurato, mediante collegamento da remoto tra il luogo dove si trova lo straniero e quello dove si trova il difensore, il diritto di conferire riservatamente con quest’ultimo con modalità audiovisive».

Il co. 5 stabilisce infine che, «quando non è possibile la partecipazione all’udienza con modalità audiovisive da remoto», all’avvocato che si sia dovuto fisicamente recare nei centri in Albania (si ricordi che l’art. 9 del Protocollo prevede che «per assicurare il diritto di difesa, le Parti consentono l’accesso alle strutture previste dal presente Protocollo agli avvocati e ai loro ausiliari»), è «liquidato un rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno», con modalità da stabilirsi con decreto del Ministro della giustizia, ma comunque di importo non superiore ai 500 euro.

 

5.2. La disciplina dei procedimenti penali. – Più articolata è la disciplina dettata per i procedimenti penali eventualmente da celebrare a carico di stranieri detenuti nei nuovi centri.

L’art. 4 co. 7 prevede anzitutto che il giudice (ai sensi del co. 18, l’autorità giudiziaria per i reati commessi dagli stranieri detenuti nei centri è quella di Roma) pronunci sentenza di non luogo a procedere, quando è acquisita prova dell’esecuzione del rimpatrio, salvo che si tratti di delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, o lo straniero sia sottoposto alla custodia cautelare in carcere; il procedimento può essere riaperto ex art. 345 c.p.p. se lo straniero torna illegalmente in Italia prima del decorso del termine di prescrizione del reato. La norma risulta derogatoria a quella prevista in generale nei casi di rimpatrio dello straniero imputato dall’art. 13 co. 3 quater e ss. TUI, dove è previsto che, salvo che si tratti di straniero in stato di custodia cautelare in carcere, il questore può procedere al rimpatrio dello straniero sottoposto a procedimento penale, solo dopo avere chiesto il nulla osta all’autorità giudiziaria, che può negarlo «solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all’accertamento delle responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti connessi, e all’interesse della persona offesa»; decorsi sette giorni dalla data di ricevimento della richiesta di nulla osta, lo stesso deve intendersi concesso. Per i fatti commessi nei nuovi centri, la procedura del nulla osta al rimpatrio viene eliminata, utilizzandosi il diverso criterio della gravità del reato (reati per i quali è previsto arresto obbligatorio) per decidere quando il procedimento penale in corso a carico dello straniero impedisca o meno l’esecuzione del rimpatrio; in ogni caso, il nulla osta dell’autorità giudiziaria non è più rilevante. La nuova disciplina pare certamente ispirata ad un favor expulsionis, sulla base dell’idea che eliminando il passaggio davanti all’autorità giudiziaria (che comunque, come visto sopra, non può durare più di sette giorni), la procedura diventi più rapida; il risultato però è quello di accelerare sì il rimpatrio nel caso di procedimenti relativi a reati di scarsa gravità, ma di fare invece in modo che, quando si tratta di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio (e non è il caso di ricordare quanto sia ampio il loro novero) il rimpatrio non possa mai essere eseguito, anche qualora nel caso concreto non sussistano le stringenti esigenze processuali che ai sensi della disciplina generale impedirebbero il rimpatrio, e quindi non vi sarebbe ragione per l’autorità giudiziaria di negare il nulla osta. Anche in questo, un quadro complessivo all’esito della riforma che risulta poco ragionevole, e che certamente merita di essere rimeditato.

Diverse disposizioni sono poi dedicate alle ipotesi di arresto o fermo (il co. 9 prevede che sia l’interrogatorio davanti al pubblico ministero quanto l’udienza di convalida, «si svolgano sempre a distanza con le modalità di cui all’art. 133 ter c.p.») e a quelle di emissione di una misura cautelare (il co. 11 prevede che, in caso di custodia cautelare in carcere, la misura sia eseguita presso le “strutture idonee” cui si è già fatto cenno sopra, mentre qualora venga disposta una diversa misura cautelare, lo straniero resta sottoposto al trattenimento in sede amministrativa; il co. 12 poi dispone che, all’eventuale udienza di decisione dell’impugnazione della misura di cui all’art. 309 co. 8 bis c.p.p., lo straniero partecipi a distanza).

Chiudono la disciplina alcune disposizioni di dettaglio: il co. 13 prevede la sospensione del procedimento penale, salvo il compimento di atti urgenti, sino alla scadenza del termine massimo di quattro settimane, previsto dall’art. 6 bis co. 3 d.lgs. 142/2015 per le ipotesi di trattenimento nelle zone di frontiera (cui, come si ricorderà, sono equiparati i centri di nuova introduzione); il co. 14 prevede la non applicabilità del giudizio direttissimo e dell’arresto obbligatorio previsto dall’art. 13 co. 13 ter TUI per il delitto di violazione del divieto di reingresso; il co. 15 precisa che «i colloqui previsti dall’art. 104 c.p.p. (colloqui del difensore con l’imputato in custodia cautelare) sono assicurati anche mediante collegamento audiovisivo»; ai sensi del co. 16, le notificazioni previste dal codice di procedura penale allo straniero trattenuto in un centro si effettuano secondo quanto disposto dall’art. 156 c.p.p. per le notificazioni all’imputato detenuto; il co. 17 prevede che «i depositi e le comunicazioni effettuati dagli organi di polizia giudiziaria possono sempre avvenire con modalità telematiche»; e infine il co. 19 prevede che anche ai trattenuti nei nuovi centri sia riconosciuta, come ai trattenuti nei CPR in territorio italiano, la possibilità di «rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale» (art. 14 co. 2 bis d.lgs. 286/1998).

 

6. I profili di possibile illegittimità. – Il d.d.l. di cui abbiamo appena sintetizzato il contenuto delinea in modo più chiaro i contorni dell’operazione che il Governo vuole condurre mediante l’implementazione del Protocollo siglato con l’Albania. Si tratta, come abbiamo visto, di una estensione della giurisdizione italiana fuori dai confini nazionali, volta a creare in territorio albanese una sorta di enclave italiana, destinata esclusivamente alla detenzione (amministrativa e penale) degli stranieri irregolari, una forma di “colonia detentiva extraterritoriale” sinora del tutto sconosciuta al nostro ordinamento.

È un’operazione che, è bene chiarirlo subito, ci pare avere più elementi di differenza che punti in comune con la vicenda degli accordi in materia di immigrazione tra Regno Unito e Rwanda. In comune i due progetti hanno l’esplicita volontà di allontanare dal territorio nazionale lo svolgimento delle procedure di valutazione delle richieste di protezione internazionale e delle procedure di rimpatrio degli stranieri irregolari. Ma mentre il progetto del Regno Unito prevede di attribuire alle autorità ruandesi il compito di valutare le domande di protezione, alla stregua della propria normativa in materia, nel progetto italiano si va esattamente nella direzione opposta, attribuendo alla esclusiva competenza delle autorità italiane la valutazione delle domande di protezione, da condurre alla stregua del pertinente diritto italiano ed europeo. Una attenta dottrina, in un commento al Protocollo, parla di una strategia di extraterritorializzazione per quanto riguarda il progetto italiano, mentre si potrebbe parlare di strategia di esternalizzazione in ordine al progetto britannico, che delega al Paese terzo la responsabilità per le domande di protezione[7]. A noi pare che anche nel caso italiano possa parlarsi di una forma di esternalizzazione, intendendo con tale espressione comprendere tutte le ipotesi in cui si allontani fisicamente dal territorio nazionale la gestione delle domande di protezione, impedendo al richiedente di avere accesso al territorio nazionale. Nell’accordo italo-albanese, alla preclusione fisica all’accesso in Italia dei richiedenti protezione non si accompagna però la loro sottrazione alla giurisdizione italiana, posto che il d.d.l. attuativo prevede espressamente l’applicabilità esclusiva della legge italiana (ed europea) alle domande valutate nei nuovi centri, e dunque all’esternalizzazione si accompagna un’estensione territoriale della giurisdizione italiana; nell’accordo anglo-ruandese, si fa ancora un passo più in là nella direzione dell’allontanamento del richiedente dal sistema nazionale di protezione, accompagnando all’esclusione fisica dal territorio (tratto comune ad entrambi i progetti) anche l’esclusione giuridica rappresentata dell’inapplicabilità della legge britannica.

Alla diversità dei progetti presentati, si accompagna ovviamente la diversità delle questioni di legittimità poste dalle due normative. Nella complessa vicenda giudiziaria relativa all’accordo anglo-ruandese, che ha visto l’intervento della Corte suprema britannica e della Corte EDU, il tema centrale è stato la verifica che il sistema ruandese garantisse i diritti dei richiedenti asilo (in termini di accesso alla procedura e di diritto al non refoulement) in modo conforme agli standard previsti dalla normativa britannica ed europea[8]. Rispetto invece all’accordo italo-albanese, la questione si pone in termini del tutto differenti, dal momento che il legislatore ha chiarito che la legge albanese non troverà applicazione nei confronti degli stranieri detenuti nei centri, i quali saranno sottoposti esclusivamente alla giurisdizione ed alla legge italiane. Il problema qui non è allora se la legislazione in materia di protezione del Paese terzo (nel nostro caso l’Albania) e la sua concreta applicazione garantiscano in modo adeguato i diritti degli stranieri cui è applicata la nuova procedura, ma capire se la duplice operazione immaginata dal Governo (di allontanamento fisico dei migranti e dei richiedenti protezione dal territorio italiano in primo luogo, con però correlata estensione della giurisdizione italiana fuori dai suoi limiti territoriali) sia rispettosa del diritto interno ed europeo, specie per quanto concerne il rispetto dei diritti fondamentali dello straniero sottoposto alla nuova procedura.

Il discorso non può che articolarsi su più piani, considerata la complessità dell’intervento normativo. Il primo passaggio riguarda la verifica se già in astratto, per come concepito dal Governo, il percorso immaginato sia conforme alle fonti sovraordinate alla legge; in secondo luogo è decisivo verificare se, immaginando realisticamente il concreto funzionamento del meccanismo, possa considerarsi plausibile il rispetto per lo straniero delle garanzie che la legge pur gli riconosce: su entrambi tali profili, a commento del Protocollo sono stati pubblicati diversi contributi[9], sia di provenienza istituzionale che di natura scientifica, e di seguito ci limiteremo ad abbozzare qualche riflessione sui moltissimi e complessi profili di (il)legittimità sollevati dalla nuova disciplina.   

 

6.1. È legittimo creare “colonie detentive per stranieri” all’estero, ed è rilevante che vi vengano inviati solo stranieri soccorsi in acque internazionali? – Abbiamo utilizzato nel titolo di questo paragrafo una definizione all’apparenza provocatoria, ma che in realtà ci pare rispecchiare nel miglior modo possibile la sostanza dell’operazione proposta dal Governo. Parlare di colonia di detenzione per stranieri all’estero può risultare disturbante, ma tale è per tabulas il progetto del Governo: vi sono degli ostacoli di rango costituzionale o europeo che si oppongono a tale progetto, o è un progetto che può o meno piacere politicamente e simbolicamente, ma rientra nell’alveo della legalità interna ed internazionale?

Partiamo da una considerazione preliminare, relativa alla necessità, già ricordata appena sopra, di tenere distinti i piani di valutazione della legittimità in astratto e in concreto del progetto veicolato con il d.d.l. Il Governo prevede in sostanza di creare in Albania delle zone sotto la sovranità italiana, dove i diritti dei migranti trattenuti sarebbero garantiti esattamente come se i centri si trovassero in Italia: vedremo in seguito come a nostro avviso si tratti di un obiettivo concretamente irrealizzabile, risultando di fatto impossibile garantire fuori dal territorio il medesimo livello di tutela dei diritti fondamentali del soggetto respinto. Ma ipotizziamo ora che effettivamente i migranti detenuti in Albania godano degli stessi diritti di coloro che sono detenuti in Italia: è o no comunque illegittima la collocazione dei centri di detenzione fuori dal territorio nazionale?

 

A) Al riguardo, un primo aspetto su cui il Governo ha insistito, e che è stato ripreso in senso critico da molti commentatori, è quello relativo al fatto che nei nuovi centri non saranno trasferiti stranieri che a qualunque titolo si trovano già in Italia, ma solo stranieri soccorsi dalle autorità italiane in acque internazionali, e che dunque non sono mai entrati nel territorio dello Stato. Il ragionamento che implicitamente sta a fondamento di tale decisione è che, mentre sarebbe illegittimo trasferire all’estero soggetti che hanno già fatto ingresso in Italia, è invece possibile portare in Albania soggetti che non hanno mai fatto ingresso nel nostro territorio.

L’argomento che nei primi commenti è stato opposto a tale ricostruzione è che, al momento in cui vengono soccorsi in acque internazionali da imbarcazioni italiane, secondo il diritto del mare i migranti devono considerarsi avere fatto ingresso in Italia, posto che le navi italiane sono da qualificare come porzioni di territorio italiano[10]; ma tale argomentazione merita a nostro avviso qualche precisazione.

Se sicuramente le navi italiane, specie quando si trovano in acque internazionali, sono da considerare territorio italiano, nel senso che vi si applica la giurisdizione italiana, non ci pare possa però ritenersi che, ai fini del radicamento della giurisdizione relativa al riconoscimento della protezione internazionale, sia del tutto corretta l’equiparazione tra l’essere a bordo di una nave italiana e l’essere sul territorio italiano. In realtà, l’esperienza degli ultimi anni, relativi a soccorsi operati in acque internazionali da navi di ONG battenti bandiere straniere, mostra come il diritto internazionale non disciplini in maniera espressa la possibilità e le modalità per fare domanda di protezione nelle mani del capitano della nave soccorritrice, e l’opinione che è risultata assolutamente prevalente (anche e soprattutto nella prassi) è che il capitano abbia il dovere di sbarcare quanto prima i naufraghi in un place fo safety (per tale intendendosi un luogo dove i soccorsi non corrano il rischio di violazione dei propri diritti fondamentali), e che sia lo Stato ove si trova il luogo di sbarco (e non lo Stato della bandiera della nave) ad essere competente per la valutazione delle domande di protezione, e ad essere considerato Stato di primo ingresso nell’Unione ai fini dell’applicazione della normativa europea.

Ciò non significa che lo Stato di bandiera della nave non abbia responsabilità nei confronti dei naufraghi soccorsi: la giurisprudenza della Corte EDU, a partire dalla sentenza della Grande camera Hirsi c. Italia del 2012, ha chiarito in termini inequivocabili che la nave che soccorra e prenda a bordo dei naufraghi in acque internazionali ha il dovere di non condurli in luoghi ove essi non sono sottoposti al rischio di violazione dell’art. 3 CEDU, posto che l’applicabilità della Convenzione si estende anche fuori dei confini degli Stati parti, quando un organo dello Stato abbia concretamente esercitato fuori dai propri confini un potere coercitivo su un individuo. Nella medesima decisione la Corte EDU ha altresì chiarito che la norma contenente il divieto di espulsioni collettive (l’art. 4 Prot. 4) deve ritenersi applicabile anche alle ipotesi di respingimento, risultando equivalente sotto il profilo convenzionale la condotta dello Stato che assuma decisioni collettive di allontanamento di stranieri dal proprio territorio, e quella di respingere collettivamente stranieri soccorsi in acque internazionali da parte di una nave dello Stato.

Bisogna quindi distinguere tra le responsabilità in materia di protezione internazionale, che sorgono quando uno straniero sbarca in un luogo sicuro, in capo allo Stato ove tale luogo si trovi, e non in capo allo Stato di bandiera della nave che ha operato il soccorso in acque internazionali; e i doveri derivanti dal principio di non refoulement e dal divieto di espulsioni collettive, che incombono invece già sullo Stato di bandiera della nave che effettua il soccorso. D’altra parte, è lo stesso d.d.l., come visto ampiamente sopra, a riconoscere comunque agli stranieri, condotti direttamente dalle acque internazionali nei centri di detenzione collocati in Albania, tutti i diritti in materia di protezione internazionale previsti dalla normativa europea, sicché il fatto che il soccorso sia stato operato in acque internazionali non ha alcuna conseguenza sulla disciplina applicabile al richiedente protezione.

L’argomento del mancato ingresso in Italia degli stranieri condotti in Albania come elemento rilevante per valutare la legittimità dell’operazione si rivela, in conclusione, da un lato erroneo, almeno nella misura in cui trascuri i doveri in materia di diritti fondamentali che derivano dal fatto che un soccorso in acque internazionali sia stato operato da una nave della propria bandiera; e da altro lato irrilevante, posto che comunque la responsabilità per la valutazione delle domande di protezione viene assunta dall’Italia, esattamente come se gli stranieri fossero giunti sul territorio dello Stato. Il problema, insomma, non ci pare si porrebbe molto diversamente qualora nei centri albanesi non venissero condotti solo soggetti soccorsi da navi italiane in acque internazionali, ma anche soggetti trasferiti da centri di detenzione collocati in territorio italiano. Il Governo evidentemente voleva evitare, con l’escamotage del respingimento dalle acque internazionali, che si potesse parlare in senso stretto di deportazioni di soggetti privati della libertà al di fuori del territorio dello Stato: ma si tratta di un argomento privo di solidità giuridica, ed inidoneo ad incidere sul giudizio di legittimità dell’operazione che si intende mettere in atto.

 

B) Messa da parte la questione del respingimento da acque internazionali, veniamo ora al cuore del problema, che in termini molto generali consiste nel decidere se sia o meno legittimo creare fuori dal territorio dello Stato dei centri di detenzione per stranieri irregolari e richiedenti protezione, garantendo ai detenuti l’applicabilità di tutta la normativa italiana ed europea relativa allo status giuridico di ognuno.

Il tema è complesso, perché, come notato in uno dei lavori di commento al Protocollo, «il diritto internazionale generale non vieta a uno Stato di esercitare la propria giurisdizione sul territorio di un altro Stato che a ciò abbia prestato il proprio consenso (…) e non risultano vigenti convenzioni internazionali che limitino l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione statale in relazione al diritto di asilo»[11].

In effetti, anche negli altri commenti al Protocollo, pure in quelli molto critici, non emerge con chiarezza un principio costituzionale o di diritto internazionale che vieti in modo esplicito la creazione di centri di detenzione per stranieri collocati fuori dal territorio nazionale. Sia le fonti interne che quelle internazionali vietano di respingere lo straniero verso luoghi ove non sono rispettati i suoi diritti, ma una volta ammesso che l’extraterritorialità del luogo di detenzione non comporti un abbassamento delle garanzie previste in caso di ingresso nel territorio, non vi è un preciso divieto (costituzionale o internazionale) di delocalizzare i centri di detenzione per stranieri fuori dal territorio dello Stato. Ma se non vi è una norma giuridica che vieti espressamente tale pratica, per quale ragione sinora tale modello non è mai stato utilizzato, al punto che la Presidente della Commissione europea ha parlato, a proposito del progetto qui in commento, di una forma di “thinking out of the box” da valutare con attenzione?

La prima risposta che ci pare ragionevole intravvedere a tale interrogativo è che il meccanismo tracciato dal d.d.l., che comporta una forma (sia pure non esplicita) di cessione di sovranità su una porzione di territorio da parte dello Stato ospitante, pone una serie di problemi molto seri (sia in termini politici che giuridici) in capo proprio a tale Stato. A ben vedere, in effetti, più che per lo Stato che delocalizza i propri centri di detenzione, il progetto risulta problematico, in termini costituzionali, proprio per lo Stato che ospita i centri, e che rinuncia ad esercitare la propria giurisdizione su strutture collocate nel proprio territorio. Le vicende recenti confermano tale difficoltà, posto che il 13 dicembre la Corte costituzionale albanese ha sospeso la ratifica del Protocollo, per valutare le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai maggiori partiti di opposizione; la Presidente della Corte ha tuttavia avuto modo di precisare che si tratta di una mera sospensione, necessaria per consentire di valutare nel merito le questioni sollevate, e che la decisione non può in alcun modo essere interpretata come una forma di bocciatura dei contenuti del Protocollo. Vedremo dunque a gennaio quale sarà la decisione dei giudici albanesi, ma una prima risposta all’interrogativo che ci siamo posti può essere avanzata: si tratta di un modello privo di precedenti, anzitutto perché non è facile trovare Stati disposti a rinunciare alla sovranità su una parte del proprio territorio, destinandola a luogo di detenzione di stranieri posti sotto la giurisdizione di un altro Stato.

Superato tale ostacolo, e ammettendo di avere trovato uno Stato disponibile a ospitare i centri, l’elemento disturbante che evoca il progetto, e che ne rende così controversa l’introduzione, ci pare rappresentato da quello che nella storia più o meno recente hanno rappresentato le forme di delocalizzazione dei luoghi di detenzione. Tale processo fa subito tornare alla mente il carcere americano di Guantanamo a Cuba, o le prigioni gestite all’estero dalla CIA, o tornando più indietro nel tempo, i “bagni penali” costituiti dalle potenze europee nei più svariati angoli del mondo all’epoca degli imperi coloniali[12]. E del resto, nell’esperienza storica la creazione di luoghi di detenzione all’estero ha sempre avuto una cifra comune, quella della riduzione delle garanzie che ai detenuti sarebbero state applicabili se detenuti nel territorio dello Stato: da Guantanamo ad Abu Ghraib, all’Isola del Diavolo della Cayenna francese, le strutture detentive all’estero sono sempre stati luoghi di soprusi e di sofferenze, dove i detenuti venivano privati anche dei loro diritti più basilari.

Il progetto in esame sembra voler scongiurare questi pericoli, garantendo che allo spostamento del centro di detenzione fuori dai confini non si accompagni alcuna restrizione dei diritti dei detenuti. Una delocalizzazione della detenzione, senza riduzione delle garanzie: se il nuovo meccanismo che il Governo propone di introdurre avesse queste caratteristiche, non sarebbe facile motivarne l’illegittimità, ma è davvero un’operazione possibile nella realtà, e non solo a livello di declamazione astratta?

 

6.2. L’impossibile rispetto dei diritti dello straniero nei centri di detenzione extraterritoriali. – Leggendo il d.d.l., il problema del riconoscimento delle garanzie nei centri di nuova costruzione viene risolto molto semplicemente. La giurisdizione nei centri è italiana, le regole sul trattenimento degli stranieri irregolari sono quelle italiane, così come italiane sono le norme applicabili in materia di protezione internazionale; quanto ai soggetti che decidono delle controversie, vengono costituite delle sezioni ad hoc presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma (che dovrebbero fisicamente lavorare all’interno dei centri, se non abbiamo inteso male dalla lettura del d.d.l., poco chiaro sul punto), e in sede giudiziaria sono competenti gli uffici di Roma: all’apparenza un quadro molto lineare, si crea una “colonia penale italiana”, in tutto e per tutto equiparata al territorio nazionale.

 

A) Provando però a calare in uno scenario realistico il modello delineato dal d.d.l., appare evidente come la collocazione dei centri fuori dal territorio renda per svariate ragioni impossibile garantire in modo adeguato anzitutto il diritto di difesa, così come riconosciuto dall’art. 24 Cost. Nel d.d.l. al riguardo è previsto solo che il responsabile del centro «adotta le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesa dello straniero», con l’ulteriore precisazione che, «quando non è possibile la partecipazione all’udienza con modalità audiovisive da remoto», al difensore che si sia recato in Albania sono rimborsate le spese di viaggio e di soggiorno (per un massimo di 500 euro). Quali siano queste misure necessarie a garantire il diritto di difesa, e quando non sia da ritenere possibile l’udienza da remoto, il d.d.l. non lo precisa in alcun modo: già questo affidamento alla assoluta discrezionalità del gestore del centro delle modalità concrete di esercizio del diritto di difesa fa sorgere gravi perplessità di legittimità costituzionale rispetto all’art. 24 Cost. Non è poi difficile immaginare quanti problemi in concreto potranno sorgere, e saranno impossibili da risolvere in modo adeguato: come e da chi verranno informati gli stranieri della possibilità di nominare un avvocato? Verrà fornita loro una lista di avvocati del foro di Roma? Come si potrà garantire un’effettiva difesa quando l’avvocato si trova addirittura in un altro Stato, e non vi è possibilità di un incontro, a meno di intraprendere un viaggio di diverse ore? Come sarà accertato se lo straniero si trova in condizioni fisiche e psicologiche compatibili con lo stato di detenzione? Tutte domande (insieme alle molte altre simili che ci si potrebbe porre) che non trovano risposta nel d.d.l., e che sicuramente porranno seri problemi di legittimità, quando il modello dovesse trovare effettiva applicazione.

 

B) Un problema ancora più evidente, e ripreso in molti dei primi commenti, riguarda poi l’effettiva possibilità di rispettare i requisiti che la normativa interna ed europea richiede perché possa essere legittimamente disposta la detenzione dello straniero.

Per quanto riguarda lo straniero irregolare, che non faccia richiesta di protezione, la disciplina applicabile è quella del TUI, che, come noto, prevede che il trattenimento nei CPR possa essere disposto solo quando non siano sufficienti misure meno coercitive (art. 14 co. 2 TUI, che riprende il disposto dell’art. 16 co. 1 dir. 2008/115/CE, cd. direttiva rimpatri, per cui il trattenimento dello straniero in vista del rimpatrio può essere disposto solo “salvo se nel caso concreto possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive”). Per i richiedenti protezione, cambia il riferimento normativo (che in questo caso è la dir. 2013/33/UE), ma la disciplina sul punto è la medesima, visto che l’art. 8 co. 2 della direttiva prevede anche in questo caso che «gli Stati membri possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive».

Nel modello delineato dal d.d.l., invece, il trattenimento è per entrambe le categorie di soggetti l’unica ipotesi presa in considerazione, posto che ai sensi del Protocollo lo straniero, per cui non sia possibile il trattenimento, deve essere trasferito appena possibile in Italia. L’illegittimità del disegno governativo è allora intrinseca alla previsione che nei centri in Albania lo straniero possa rimanere solo se in stato di detenzione: così facendo si rende il trattenimento non più l’extrema ratio, come vuole la normativa europea, ma l’unica misura concretamente applicabile allo straniero, in aperta violazione della normativa richiamata sopra.

 

C) Un cenno a parte merita poi la disciplina relativa all’ipotesi di commissione di reati da parte degli stranieri trattenuti nei nuovi centri. Abbiamo già analizzato sopra i macroscopici profili di irragionevolezza derivanti dall’adozione di una disciplina in materia di giurisdizione applicabile solo ai reati commessi dai trattenuti, e non a quelli commessi da cittadini italiani o da stranieri non in stato di detenzione: profili che certamente possono riverberarsi in una questione di illegittimità costituzionale di tale disciplina per violazione dell’art. 3 Cost.

Un altro aspetto che merita ora di essere segnalato riguarda la previsione per cui tutte le udienze relative all’applicazione delle misure cautelari e pre-cautelari si svolgano sempre a distanza. Anche in questo caso, ci pare possa senz’altro prospettarsi un profilo di violazione dell’art. 3 Cost., considerato come, dopo il periodo della pandemia, l’ipotesi di udienze penali celebrate a distanza sia ormai del tutto residuale, mentre per i reati commessi nei nuovi centri sia prevista addirittura come esclusiva modalità di svolgimento.

Il d.d.l. non contiene poi alcuna precisazione rispetto al termine massimo in cui uno straniero può essere trattenuto in stato di custodia cautelare in carcere nei centri albanesi. L’idea di fondo che pare emergere dal testo è quello di una detenzione in “luoghi idonei” che copra solo le primissime fasi del procedimento penale, poi destinato ad essere celebrato in Italia; ma in realtà il d.d.l. non contiene alcuna specifica indicazione al riguardo, e il dato letterale non consente di escludere che durante l’intera durata della custodia cautelare (che in caso di reati gravi può essere anche di molti mesi) lo straniero rimanga confinato in Albania: una soluzione quanto mai distonica rispetto alla stessa rappresentazione governativa dell’operazione, che parla della creazione di centri di trattenimento ammnistrativo di stranieri e richiedenti protezione, e non di vere e proprie carceri per lunghi periodi detentivi.

 

7. Conclusioni. – Il d.d.l. appena analizzato contribuisce a chiarire i reali termini dell’operazione che il Governo ha inteso realizzare con la firma del Protocollo di intesa con il Governo albanese. In sostanza, si vogliono creare fuori dal territorio nazionale centri di detenzione per stranieri irregolari e richiedenti asilo, prevedendo che in tali centri si applichi la giurisdizione italiana e agli stranieri sia applicabile in via esclusiva la normativa italiana ed europea in materia di protezione internazionale e di detenzione a fini espulsivi.

Nel Protocollo di intesa, di cui il d.d.l. costituisce la normativa di attuazione, non si fa esplicitamente riferimento a una qualche forma di extraterritorialità dei centri, con conseguente cessione di sovranità da parte dello Stato albanese sulle aree dove gli stessi dovrebbero essere collocati; e tuttavia, dalla lettura delle norme in tema di giurisdizione contenute nel d.d.l., emerge proprio lo scenario di un esercizio di fatto della sovranità da parte delle autorità italiane su una porzione di territorio albanese. Quanto un tale scenario sia compatibile con la Costituzione albanese, è questione su cui interverrà tra poche settimane la Corte costituzionale albanese, e su cui non abbiamo le competenze per esprimere alcuna opinione. Certamente, nella prospettiva albanese, si tratta di un’operazione politicamente e giuridicamente molto delicata, visto che va a incidere sull’esercizio della sovranità nazionale sul territorio: non rimane che attendere gli esiti della procedura costituzionale in corso, i cui risultati saranno ovviamente decisivi per la possibilità di implementazione del Protocollo.

Venendo alla prospettiva italiana, la prima necessità per un giurista non può che essere quella della valutazione di legittimità costituzionale e sovranazionale della normativa, ed emergono molti dubbi significativi al riguardo. Senza riprendere ora le singole criticità evidenziate nel corso dell’analisi, si tratta in primo luogo di specifiche ma importanti illegittimità di alcuni aspetti della disciplina: si pensi in primo luogo alla previsione del trattenimento come unica misura applicabile agli stranieri irregolari o ai richiedenti asilo, o alle molteplici perplessità che emergono dalla lettura del d.d.l., quando garantisce in modo solo generico e discrezionale l’esercizio del diritto di difesa allo straniero trattenuto.

Se e quando il progetto verrà davvero realizzato, sarà poi decisivo capire in concreto come funzionerà il nuovo meccanismo. Il modello delineato prevede che allo straniero si applichi la normativa applicabile alle zone di frontiera, tanto per quanto concerne la valutazione delle domande di protezione, quanto per i presupposti per il trattenimento; qualora non sussistano tali presupposti, il Protocollo ed il d.d.l. prevedono che lo straniero sia immediatamente trasferito in Italia. Per rispettare tale meccanismo, sarà necessario prevedere un servizio quotidiano o quasi di trasporto verso l’Italia; se il servizio presenterà ritardi o disfunzioni, il rischio che ci pare assai concreto è di assistere ad una violazione di massa della libertà personale degli stranieri che rimarranno di fatto detenuti in Albania anche una volta sia stata accertata la mancanza dei presupposti per il trattenimento, prima che possano essere realmente trasferiti in nave o in aereo verso l’Italia.

Nelle ultime settimane la Corte EDU ha condannato in due occasioni l’Italia per la violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 CEDU per il trattenimento di fatto e privo di base legale operato negli hotspot e nei centri di accoglienza[13] nei confronti di stranieri minorenni, e in passato anche la Grande Camera della CEDU nel caso Khlaifia[14] ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 5 della Convenzione, per la detenzione di stranieri maggiorenni nell’hotspot di Lampedusa. Il progetto in itinere pare avere purtroppo tutte le caratteristiche per riproporre l’ennesima violazione sistematica della libertà degli stranieri, che da anni connota il sistema di gestione della prima fase dall’arrivo degli stranieri in frontiera. Trasferire all’estero le strutture di detenzione, può rappresentare un’ulteriore occasione di comportamenti di fatto della pubblica amministrazione, tali da portare alla violazione dei requisiti di cui all’art. 13 Cost. e 5 CEDU; ipotesi tanto più preoccupante, considerando come la collocazione all’estero dei centri renda in concreto assai difficile l’esercizio dei loro poteri di controllo da parte delle autorità competenti per la verifica delle condizioni dei luoghi di detenzione (si pensi in primo luogo alle visite del Garante dei diritti dei detenuti, cui pure è previsto in astratto possano rivolgersi gli stranieri detenuti nei centri albanesi, o alle visite dei singoli parlamentari). Descrivere un sistema di gestione dei nuovi centri che presuppone, per funzionare correttamente, una organizzazione quasi impossibile da realizzare, e rendere quanto mai difficile il controllo di legalità su tali centri da parte delle autorità di garanzia, è il primo passo verso una nuova, sistematica violazione della libertà personale degli stranieri, considerata evidentemente dal Governo un interesse di scarso rilievo, una bagattella[15] da affidare a norme generiche ed imprecise ed alla sostanziale discrezionalità della pubblica amministrazione, nonostante le garanzie di riserva di legge e di giurisdizione scolpite in modo così perentorio dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU.

Una riflessione a parte merita poi la parte penalistica del decreto, tutt’altro che di modesto rilievo, eppure sinora assolutamente ignorata nel dibattito pubblico. La norma sulla giurisdizione in particolare necessita a nostro avviso un totale ripensamento, a meno di voler creare meccanismi di applicazione della legge penale su base personale, che sollevano evidenti profili di violazione dell’art. 3 Cost. Proprio le norme penali del decreto sono quelle su cui ci pare vi sia maggiore spazio in sede parlamentare per un deciso intervento manipolativo, posto che comunque si tratta di elementi non centrali nel progetto politico del Governo, e su cui quindi ci auguriamo possa essere intrapresa una più meditata riformulazione. 

Rimangono per concludere da svolgere alcune brevissime riflessioni, meno tecnico-giuridiche, sul significato politico complessivo dell’operazione del Governo. Da un punto di vista economico-finanziario, si tratta di un’operazione come visto onerosissima, specie considerati i numeri assai limitati di stranieri coinvolti rispetto al totale di coloro che mediamente arrivano ogni anno in Italia; se si guarda al progetto in termini di mera razionalità costi-benefici, l’operazione non ha alcun senso, posto che sarebbe stato infinitamente meno costoso aprire i centri in Italia, invece che in Albania. Anche dal punto di vista del contrasto alla presenza di stranieri irregolari in Italia, che rappresenta l’obiettivo politico essenziale del Governo, il progetto non ha la minima capacità di avere un impatto reale: gli stranieri possono essere trattenuti nei centri in Albania alle stesse condizioni in cui potrebbero esserlo in Italia, e una volta venuti meno i requisiti per il trattenimento, essi devono essere portati subito in Italia: anche in astratto, ed a prescindere dalle difficoltà pratiche di implementazione, si introduce un meccanismo che non ha alcuna possibilità di incidere sul problema del numero di stranieri illegalmente presenti in Italia.

Quello che conta è il messaggio simbolico che si vuole trasmettere all’opinione pubblica. Visto che ad un anno dall’insediamento del nuovo Governo i numeri degli arrivi di stranieri in Italia non solo non sono diminuiti, ma sono addirittura aumentati in modo significativo, si prova a spostare l’attenzione su un’idea nuova, quella dell’allontanamento fisico degli stranieri dal territorio, e della dislocazione all’estero dei centri di detenzione. Poco importa che si tratti di un’operazione giuridicamente molto discutibile, ed economicamente del tutto irrazionale. L’importante è arrivare alle elezioni europee con una proposta in materia di immigrazione appetibile per i talk-show televisivi e per i comizi; se poi dopo poche settimane ci si renderà conto che il fiume di denaro investito non trova riscontro in risultati degni di nota, oppure emergeranno in sede giudiziaria i profili di illegittimità messi in luce sopra, ormai il risultato che interessava ottenere in termini di consenso sarà stato raggiunto. Le prossime settimane, con la decisione della Corte costituzionale albanese, diranno se il progetto potrà andare avanti; se così sarà, non vi è motivo per attendersi che il passaggio parlamentare possa condurre a mettere in discussione l’ossatura del progetto, ma vogliamo augurarci che almeno possa incidere sugli aspetti di più evidente incostituzionalità del d.d.l. appena presentato alla Camera, specie per quanto concerne i profili penalistici della disciplina.

 

 

[1] Cfr. in particolare, in modo specifico sul punto, ASGI, Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento pubblicato il 14.11.2023 sul sito asgi.it, e A. Spagnolo, Sull’illegittimità del Protocollo Italia-Albania in materia migratoria, pubblicato il 9.11.2023 sul SIDIblog.

[2] Per questa precisazione cfr. A. Spagnolo, cit.

[3] Il d.d.l. fa impropriamente riferimento alle strutture di cui al co. 1 dell’art. 10 ter, dove sono disciplinati in termini generali i punti di crisi, quando tuttavia la possibilità che vengano istituiti al loro interno spazi di trattenimento per i soggetti a rischio di fuga è prevista al co. 3: ed è evidente che il legislatore pensa ad istituire questi ultimi, non le strutture di cui al co. 1, che in quanto centri di prima accoglienza non prevedono che allo straniero sia precluso l’allontanamento.

[4] Si sofferma su tale possibilità, non esclusa dal Protocollo, ASGI, Il Protocollo italo-albanese in materia migratoria prevede norme incerte ed illegittime, pubblicato sul sito asgi.it il 22.11.2023: «Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga in via diversa da quella marittima, e che quindi riguardi anche persone straniere fermate in situazione di soggiorno irregolare in Italia in qualunque modo siano arrivate e magari pure bloccate sulle vie terrestri, persino provenienti dalla rotta balcanica, purché tale trasporto avvenga ‘esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane’».

[5] Così recita testualmente l’art. 6 del Protocollo: «2. Le competenti autorità della Parte albanese assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica nel perimetro esterno alle Aree e durante i trasferimenti via terra, da e per le Aree, che si svolgono nel territorio albanese. 3. Le competenti autorità della Parte italiana assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno delle Aree. Le competenti autorità della Parte albanese possono accedere nelle Aree, previo espresso consenso del responsabile della struttura stessa».

[6] Sulla problematica applicabilità della disciplina sulle zone di transito e di frontiera ad aree collocate fuori dal territorio dello Stato, cfr. in particolare M. Savino, F.V. Virzì, Il Protocollo tra Italia ed Albania in materia migratoria: prime riflessioni sui profili dell’extraterritorialità, pubblicato su adimblog.com il 1.12.23, p. 5.

[7] Cfr. M. Savino, F.V. Virzì, cit., p. 4: «In altri termini, l’accordo italo-albanese delinea una strategia di extraterritorializzazione, che lascia impregiudicata la responsabilità sulle domande di asilo delle autorità ospitate nel Paese terzo. L’accordo britannico-ruandese delinea invece una strategia di esternalizzazione, che delega la responsabilità sulle domande di asilo alle autorità del Paese terzo ospitante».

[8] Per una ricostruzione delle vicende relative all’accordo tra Regno Unito e Rwanda, cfr. il contributo di A. Pasquero, La Corte Suprema britannica blocca (per ora) il trasferimento di richiedenti asilo in Ruanda, in questa Rivista, 14 dicembre 2023. 

[9] Cfr., oltre ai lavori già citati sopra, European Council on Refugees and Exile, Preliminary Comments on the Italy_Albania Deal, pubblicato sul sito ecre.org il 9.11.2023; D. MiJatovic (Commissaria per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedure, pubblicato sul sito del Consiglio d’Europa il 13.11.2023; E. Testi Profili di illegittimità del Protocollo Italia-Albania, in Quest. giust., 28.11.2013;

[10] cfr. in particolare sul punto il parere di ASGI citato sopra.

[11] Così M. Savino, F.V. Virzi, cit., p. 2.

[12] Per una interessante ricostruzione dei tratti essenziali del diritto penale applicato nelle colonie italiane, e degli elementi di somiglianza con gli strumenti della cd. crimmigration, cfr. la tesi di dottorato di L. Ricci (relatore prof. A. Vallini) dal titolo Diritto punitivo coloniale, crimmigration, criminal other – Costanti e criptotipi nella gestione penale dell’alterità, discussa nel mese di dicembre 2023

[13] Corte EDU, 31.8.2023, n. 70583/2017, M.A. c. Italia, e Corte EDU, 23.11.2023, n. 47287/2017, A.T. ed al. c. Italia.

[14] Corte EDU, GC, 15.12.2016, n. 16483/2012, Khlaifia ed al. c. Italia.

[15] Per riprendere l’efficace formula della “bagattellarizzazione della libertà personale del migrante”, coniata ormai quasi 15 anni fa da A. Caputo, Diseguali, illegali, criminali, in Quest. giust., 2009, 85.