1. Se la teoria del reato è stata tradizionalmente costruita prendendo a modello il fatto commissivo doloso e monosoggettivo, la cosiddetta “post-modernità” giuridica ha assistito all’emersione e all’espansione di un paradigma illecito prima assolutamente recessivo, vale a dire il reato plurisoggettivo colposo, spesso di pura omissione.
Stando alla trama del codice vigente, la disposizione dell’art. 113 c.p., sin dalla sua introduzione, è stata considerata quasi una cenerentola, un’isola normativa marginale, in cui collocare i soli casi eccezionali di cooperazione volontaria fra più soggetti nella realizzazione di una fattispecie colposa; nella stessa letteratura scientifica e nei programmi universitari, per lunghi decenni, tale articolo non è stato oggetto di una speciale attenzione, quasi si trattasse di una norma di chiusura sancita dal legislatore al solo fine di “chiudere il sistema” e di introdurre, per simmetria, un mero contraltare al concorso doloso ex art. 110 c.p.
Ciò ha comportato che la materia del concorso di persone nel reato colposo, non sempre approfondita in modo adeguato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sia stata il ricettacolo di tesi interpretative spesso tralatizie e poco meditate, cui ha fatto da pendant un’applicazione estensiva – e talvolta irrazionale – dell’area di punibilità, complice la natura normativa e persino iper-normativa di numerosi elementi costitutivi del fatto: dall’omissione, alla ripartizione delle competenze o dei “ruoli”, alla colpa intesa come violazione di una regola cautelare, sino al parametro stesso dell’homo eiusdem condicionis et professionis, impiegato come standard per il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
Solo più di recente, la progressiva espansione fenomenologica della criminalità “collegiale” e della colpa organizzativa, soprattutto nell’ambito delle attività di impresa e della Pubblica Amministrazione, ha indotto gli studiosi a un nuovo ripensamento della materia, volto a “scrostare” la stessa da alcuni dogmi tanto tradizionali quanto infondati, nonché a meglio delimitare il perimetro della responsabilità concorsuale per colpa.
In tale solco si colloca l’ampia monografia Il concorso di persone nel reato colposo, pubblicata da Federico Consulich nella collana Itinerari di Diritto Penale della Giappichelli (Torino, 2023).
2. Prima di entrare in medias res, l’Autore tratteggia un’estesa “parte generale” sul concetto di colpa penale, necessaria introduzione ad una teoria del reato concorsuale colposo: se, infatti, «la visione esclusivamente normativistica della colpa ne ha favorito la frammentazione, tanto da far sospettare che non ne esista più un’unica forma» (pag. 73), l’intento dell’opera monografica è di recuperare una prospettiva panoramica sui capisaldi di ogni colpa penale, sempre ancorando il piano della normatività a quello della realtà empirica in cui ogni soggetto agente è destinato ad operare.
Da questa prospettiva, la trattazione contiene – seppur incidenter tantum – una parziale critica a due dogmi della responsabilità colposa: da un lato, l’idea che l’unico fulcro della negligenza sia costituito dall’inottemperanza “oggettiva” a una norma di cautela; dall’altro lato, l’idea della netta separazione tra fatto e diritto, cui invece viene contrapposta la più aggiornata teoria della “spirale ermeneutica”.
A tal proposito, l’inoculazione dei concetti di rischio e di organizzazione all’interno del tipo colposo ha determinato «un eccesso di normativizzazione. […] Insomma, la colpa ha assunto una conformazione che sovrastima la componente normativa a discapito di quella fattuale» (pagg. 6-7); con ciò, ovviamente, non si intende affatto obliterare l’ineludibile basamento normativo dell’illecito penale colposo, bensì «coniugare il profilo normativo della colpa con quello fattuale» (pag. 8), prestando particolare attenzione a quelle circostanze di fatto che, sole, sono in grado di attivare determinati obblighi di cautela (c.d. Anlass), nonché di fondare un giudizio di rimprovero connesso all’effettiva prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso o pericoloso, anche alla luce di componenti psicologiche non certo destinate a sostituire quanto solo a coadiuvare l’accertamento normativo della negligenza, imprudenza o imperizia.
La colpa – come segnala icasticamente Federico Consulich – è un concetto tendenzialmente autopoietico, in quanto caratterizzato da una continua «interscambiabilità, anche a processo aperto, tra colpa generica e specifica, e viceversa; ma anche il piano monosoggettivo si alterna, spesso senza soluzione di continuità, con quello plurisoggettivo», con il rischio di «costruire responsabilità per accumulo, una gabbia paralizzante per cui la negligenza altrui comporta un rimprovero a catena, nel contesto di doveri di controllo incrociato» (pagg. 11 e 13).
«È probabile» – seguita l’Autore – «che la percezione della colpa come criterio imputativo puramente normativo sia alla base della atrofizzazione del suo coefficiente psicologico, oggi ridotto ad una sorta di orpello, accomodato entro la c.d. “misura soggettiva” e che altro non racchiude se non eventuali tematiche di impossibilità (nuovamente oggettiva per lo più) ad adempiere al precetto cautelare» (pag. 68).
Ciò, potendo comportare un’ipotetica espansione a dismisura dell’area del penalmente rilevante, impone di individuare alcuni importanti limiti alla criminalizzazione, che siano da freno ad un possibile pan-penalismo incontrollato; ciò anche al fine di evitare la logica del “senno di poi”, per la quale il giudice penale si trova troppo spesso a ricostruire a ritroso l’esistenza di inottemperanze ex ante non configurabili, nonché giudizi di previsione ed evitazione in concreto non esigibili.
Se il c.d. principio di affidamento viene ritenuto dall’Autore come un canone, pur teoricamente molto rilevante, in sé privo di una solida efficacia selettiva, in assenza di una «previsione normativa che limiti in capo al cittadino l’onere di riconoscere la negligenza del terzo ai casi in cui questo commetta errori gravi, evidenti e non settoriali» (pag. 37), maggiore capacità teorica “filtrante” viene invece riconosciuta al principio di autoresponsabilità, che trova fondamento nell’art. 27, co. 1, Cost. e che «impon[e] all’agente di rispondere solo degli accadimenti che appartengano alla sua sfera di consapevole dominio attuale o potenziale», rappresentando dunque «il più potente antagonista del paternalismo penale» (pagg. 40 e 47) oltre che delle forme occulte di responsabilità per fatto altrui.
3. Un ulteriore dogma tralatizio che l’Autore si impegna a esaminare e, poi, a confutare è quello per cui il discrimen tra cooperazione colposa (art. 113 c.p.) e concorso colposo di più cause indipendenti (art. 41 c.p.) avrebbe natura puramente psicologica, e sarebbe integrato dalla consapevolezza di cooperare con altri soggetti in una determinata attività od operazione: tale affermazione, infatti, non solo appare priva di addentellato normativo e affiderebbe il confine tra le due figure a incerti parametri di natura “mentale”, ma risulta intrinsecamente priva di tenuta logica; infatti, non è dato comprendere per quale motivo un determinato agire colposo – e, dunque, perlopiù incosciente o inconsapevole, al di fuori dei casi di c.d. “colpa con previsione” – dovrebbe presentare inediti profili essenziali di coscienza (più vicini ad una responsabilità per dolo), per il sol fatto – questo è il punto – di essere stato intrapreso da più persone in “concorso”. Inoltre, il requisito della “consapevolezza” sarebbe, in sé, assolutamente neutro e privo di disvalore – a differenza della consapevolezza e volontà di concorrere in un altrui illecito doloso ex art. 110 c.p. –, così che apparirebbe poi discutibile fondare, su tale requisito adiaforo, l’applicazione del trasformatore di tipicità ex art. 113 c.p., capace – come tale – di rendere punibili condotte in sé prive di rilevanza penale.
A fronte della tesi tradizionale della “consapevolezza di cooperare”, dunque, Federico Consulich propone una ricostruzione più aggiornata e convincente, per la quale l’elemento capace di “agglutinare” all’interno dell’art. 113 c.p. più condotte cooperanti – alcune delle quali (in ipotesi) atipiche – non avrebbe natura psicologica, bensì strettamente oggettivo-normativa: si fa riferimento all’esistenza di regole cautelari relazionali, essenzialmente vocate a regolare la sinergia fra più azioni od omissioni, e a disciplinare le rispettive competenze individuali nella gestione “interattiva” di un determinato rischio. Da tale punto di vista, dunque, il discrimen fra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti avrebbe squisitamente natura di c.d. “imputazione oggettiva”, postulando l’esistenza di precetti cautelari ontologicamente chiamati a disciplinare la gestione condivisa di un rischio ben preciso.
Se nel concorso doloso la precipua valenza tipizzante viene riconosciuta ai profili di coscienza e volontà di partecipare nella realizzazione di un fatto illecito intenzionale, nel concorso colposo – in assenza, come detto, di sicuri e imprescindibili aspetti psicologici in actu – tale valenza tipizzante è espressa dall’esistenza di c.d. cautele relazionali.
«Non è [dunque] un puro legame psicologico, bensì la tipologia della cautela a caratterizzare il concorso rispetto alla convergenza di condotte colpose indipendenti» (pag. 191). Ciò consente non solo di superare le teorie dottrinali tralatizie in tema di cooperazione “psicologica”, ma anche di confutare alcuni orientamenti giurisprudenziali che ritengono persino superfluo accertare, in capo al cooperante ex art. 113 c.p., un’effettiva inottemperanza cautelare, accontentandosi della sola adesione “intenzionale” ad un’altrui azione negligente.
4. Il quarto capitolo del libro è dedicato alla struttura del concorso colposo.
Anzitutto, si tratta di superare definitivamente il pregiudizio di una ricostruzione del concorso psichico in termini di pura causalità naturalistica sotto leggi di copertura: non esistendo in alcun modo leggi naturali – siano esse universali o statistiche – relative all’interazione tra più agenti razionali, l’unico modo per decrittare la sinergia di più soggetti è quello del “condizionamento storico”, anch’esso in certo modo riconducibile allo schema della condicio sine qua non, ma privo di qualsiasi legge di copertura di supporto.
«Così, la condicio sine qua non subisce in ambito concorsuale (colposo) una mutazione, perché la generalizzazione causale cui si deve riferire non è rappresentata da una legge scientifica di copertura, ma da una correlazione di rischio illecito ricavata da una regola di cautela. […] Nell’ambito del concorso colposo, l’anticipazione della valutazione sulla rischiosità della condotta al momento in cui si tratta del nesso di condizionamento è indispensabile per formulare la stessa ipotesi causale» (pagg. 215-216).
A tal proposito, se nel concorso doloso la c.d. “teoria della accessorietà” non consente di abbracciare l’intero arco concorsuale, ben potendo immaginarsi casi di esecuzione totalmente frazionata del fatto tipico – si pensi ad un caso di rapina in cui Tizio ponga in essere la sola minaccia, il complice Caio la sola condotta di sottrazione e Sempronio il solo impossessamento –, nel concorso colposo l’unico schema funzionale è quello della accessorietà (ovviamente, al di fuori dei semplici casi di co-autoria), in quanto almeno uno dei concorrenti – l’autore, per l’appunto – deve compiere materialmente un’azione interamente tipica e colposa, cui possano poi accedere le ulteriori condotte cooperanti.
Pertanto, non è possibile immaginare che assurga alla tipicità ex art. 113 c.p. un comportamento totalmente neutro, cioè radicalmente inespressivo di un’autonoma violazione cautelare; così che, nella cooperazione colposa, ciascuna condotta cooperante deve essere sempre connotata da un proprio indice di colposità.
Qui viene sviluppata dall’Autore una motivata critica alle teorie della competenza per il rischio e del gestore del rischio, risultando invece più conferente la figura dell’organizzatore, la quale «prende le mosse dalla realtà dei processi decisionali sia nel contesto di un’organizzazione complessa che di un ben più semplice gruppo di persone che occasionalmente cooperino in una medesima attività» (pag. 262).
La successiva e ampia trattazione è dedicata ai differenti tipi di partecipazione al crimine colposo: dal contributo fattuale-materiale, a quello fattuale-psichico, a quello interamente normativo; dal contributo omissivo al problema della cooperazione – sincronica o diacronica – fra più garanti, sino al tema del concorso omissivo del soggetto non gravato da alcuna posizione di garanzia.
5. Il quinto capitolo del libro riguarda La fenomenologia della colpa in concorso: rischio condiviso e disorganizzazione.
Il punto di partenza per comprendere la struttura della “colpa interattiva” consiste nel dare atto che non esistono rischi di per ciò solo leciti o illeciti, e cioè tali a prescindere da un disvalore negligente di condotta: «non è il rischio a rendere illecita la condotta, ma sempre la condotta, previamente qualificata dalla regola cautelare di riferimento, a renderlo antigiuridico» (pag. 322); il che non toglie comunque una rilevanza teorica al concetto di “rischio consentito” anche all’interno del delitto doloso, come indicato dall’Autore in apposita trattazione incidentale.
Se un comportamento umano è inottemperante alla cautela, il rischio dallo stesso generato sarà tendenzialmente “illecito”; di converso, se la condotta è diligente, prudente e perita, il rischio che pur dovesse derivarne apparirà, in sé, non illecito, cioè ammesso o quantomeno tollerato dall’ordinamento.
Traslando tali affermazioni nell’ambito propriamente concorsuale, «l’organizzazione del rischio è il vettore di significato essenziale su cui edificare ogni ragionamento in tema di cooperazione colposa che sia orientato al fatto provabile in giudizio […]. Una volta che si sia generato un rischio illecito, questo non subisce una sorta di “divisione” che lo riporti al di sotto della soglia di rilevanza penale, anche quando venga ripartito tra più soggetti. Semmai esso è propenso a moltiplicarsi, aggiungendo responsabile a responsabile» (pag. 323).
Ciò premesso, anche nello studio dei rapporti tra condivisione del rischio e colpa organizzativa, l’Autore mette in luce l’insufficienza del puro criterio formale di “competenza” – a fortiori, ove non adeguatamente bilanciato tramite l’autoresponsabilità – a dirimere i problemi relativi alla colpa nei contesti plurisoggettivi; semmai, detto criterio, ove interpretato sovrapponendo indebitamente le nozioni dell’obbligo impeditivo e della regola di cautela, conduce alla progressiva ipertrofia della responsabilità colposa nell’ambito della cooperazione fra più soggetti.
Il vero snodo è, piuttosto, rappresentato dalla doverosa distinzione tra colpa di organizzazione e colpa dell’organizzatore: la prima, nata all’interno del sistema ex D. Lgs. 231/2001, riguarda la “colpa” dell’ente rispetto al fatto di reato commesso nel suo interesse; la seconda, invece, è a tutti gli effetti una colpa personale e autenticamente penale, ai sensi dell’art. 43 c.p.
Se la colpa di organizzazione dell’ente mira ad eliminare o ridurre rischi normativi, relativi alla commissione di una classe generica di reati da parte di organi e dipendenti di un ente collettivo, la colpa organizzativa dell’individuo rimprovera l’omessa eliminazione o riduzione di rischi fattuali: quest’ultima integra, propriamente, la violazione di una regola cautelare, eziologicamente efficiente rispetto ad un evento concreto hic et nunc (seppur transitando, nei casi ex art. 113 c.p., attraverso l’interazione fra più condotte); la prima, di contro, non può qualificarsi come inottemperanza cautelare stricto sensu ai sensi dell’art. 43 c.p., bensì al più come violazione di natura puramente progettuale o pianificatoria.
Prova ne sia che, mentre nella responsabilità colposa individuale è essenziale accertare un’immediata corrispondenza tra disvalore di condotta e di evento (nesso di causa e di rischio oggettivo; violazione cautelare; concretizzazione del rischio o “causalità della colpa”; prevedibilità ed evitabilità dell’evento tramite una condotta alternativa diligente ed esigibile), nella colpa di organizzazione ex D. Lgs. n. 231/2001 tutto ciò non è tendenzialmente richiesto.
E ancora: il fatto che in un determinato ente viga un adeguato modello organizzativo non impedisce che, rispetto ad un concreto evento dannoso o pericoloso, possa poi sussistere una colpa penale in capo a talune persone fisiche; così come, di converso, la “colpa dell’ente” non indica, eo ipso, che di tale evento debba necessariamente risponderne una determinata persona fisica.
Eppure, lo Zeitgeist in tema di reato colposo – e, ancor più, di concorso colposo – tende sempre più a confondere i due piani, interpretando la colpa dell’organizzatore ex artt. 43-113 c.p. come fosse una specie di colpa di organizzazione ex D. Lgs. n. 231/2001, con conseguente enorme espansione dell’area della punibilità concorsuale, ove si consideri che la “condotta organizzativa” è – per l’appunto – la forma principe e “base” del concorso colposo (come dimostra il caso del disastro di Viareggio, puntualmente esaminato dall’Autore).
6. Nel capitolo sesto è presente un’ampia parte di natura comparatistica, in cui vengono esaminati – in punto di concorso colposo – gli ordinamenti tedesco, spagnolo, inglese, statunitense e francese: a tal proposito, anche nei sistemi legali in cui manca, in tutto o in parte, una nozione normativa espressa di “cooperazione colposa”, non per questo il fenomeno concorsuale negligente viene trascurato e, anzi, proprio l’eventuale lacuna normativa deve essere colmata da dottrina e giurisprudenza, al fine di disciplinare un fatto reale comunque bisognoso di qualificazione giuridica e, in taluni casi, meritevole di pena.
7. Dopo lo studio dell’annosa questione sul concorso doloso in fatto colposo e colposo in fatto doloso, Federico Consulich rassegna alcune conclusioni di sintesi che meritano di essere qui riportate per esteso:
i) l’unico principio guida che può condurre ad un’interpretazione razionale del concorso colposo è quello dell’autoresponsabilità, che altro non è che il recto di quello di responsabilità personale, che ne costituisce il verso;
ii) l’oggetto del giudizio penalistico di colpa è la trasgressione di un programma di azione, la cautela appunto, costruito su basi empiriche, che attribuisce ad un modello di condotta la capacità pratica di prevenire eventi socialmente disvoluti;
iii) non è sempre possibile accertare un legame causale secondo leggi scientifiche di copertura tra il comportamento inosservante del partecipe, quello dell’autore e l’evento lesivo: in positivo, è il nesso di rischio a congiungere tra loro i coagenti, le cui violazioni alimentano un contesto di insicurezza che attende solo l’autore finale per divenire danno;
iv) in un’attività organizzata è possibile imputare l’illecito colposo dell’autore materiale anche ad altri soggetti che realizzino condotte accessorie al fatto principale. Costoro devono essere intesi come gli agenti che abbiano contribuito ad aggravare negligentemente il rischio indebito con azioni materiali, oppure non l’abbiano ridotto entro limiti di ammissibilità sociale, se e solo se però, in quest’ultimo caso, siano a ciò legalmente preposti;
v) l’organizzazione di un’attività implica il dovere di contenere al minimo possibile i rischi che derivano dall’interazione di uomini e mezzi;
vi) per quanto si possa negare cittadinanza alla colpa in concorso, essa inevitabilmente si ripresenta attraverso il formante giurisprudenziale, e la mancanza di espresse indicazioni normative non è d’ostacolo per quella parte della dottrina di ogni Paese che ritiene necessaria la criminalizzazione della partecipazione alla negligenza altrui;
vii) nel nostro ordinamento sono previsti solo e soltanto il concorso colposo nel reato colposo e quello doloso nel reato colposo; viceversa, non è ammissibile un concorso colposo nell’altrui reato doloso, per l’impossibilità di pretendere che taluno preveda e impedisca un fatto intenzionale, commesso da un terzo autoresponsabile.