Cass. Sez. VI, sent. 14 ottobre 2024 (dep. 20 gennaio 2025), n. 2231, Pres. Fidelbo, rel. Ricciarelli
1. Con la sentenza n. 2231/2025 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata nell’ambito del noto caso Ruby ter, accogliendo, in parte, il ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano nei confronti della sentenza di assoluzione adottata dal Tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati per i reati di corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza, false informazioni al PM, riciclaggio e reclutamento ai fini di prostituzione.
I fatti oggetto di tale pronuncia si inseriscono nella complessa vicenda legata al c.d. “scandalo Ruby”: nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010 l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contattava telefonicamente il Capo di Gabinetto del Questore di Milano per chiedere il rilascio e l’affidamento alla consigliera regionale Nicole Minetti della minore Karima El Marhoug, trattenuta dalla Questura di Milano a seguito di un fermo scattato per asserito furto. Le indagini sulla vicenda portarono alla luce l’esistenza di “cene eleganti” svoltesi presso la villa di Arcore di proprietà di Berlusconi, durante le quali si sarebbero consumati alcuni incontri sessuali tra il Presidente del Consiglio e la minore. Tali fatti portarono all’avvio del procedimento cd. Ruby 1, che ha visto imputato (poi assolto) Silvio Berlusconi per i reati di concussione e prostituzione minorile[1], e al procedimento cd. Ruby 2, che ha visto imputati (poi condannati) Dario Mora, Emilio Fede, Nicole Minetti per i reati di induzione e favoreggiamento della prostituzione, anche minorile.
Il procedimento qui d’interesse, cd. Ruby ter, trae origine dalla trasmissione degli atti disposta per l’ipotesi di falsa testimonianza e di corruzione a carico di numerose testimoni escusse nell’ambito dei predetti procedimenti Ruby 1 e 2.
2. Prima di procedere all’analisi della sentenza della Suprema Corte, è bene ricordare come all’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Milano con sentenza n. 2246 del 15 febbraio 2023 proscioglieva tutti gli imputati dai reati, loro rispettivamente ascritti, di corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza, false informazioni al PM, riciclaggio e reclutamento ai fini di prostituzione per insussistenza del fatto.
In particolare, in relazione ai reati di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, il giudice di prime cure aveva ritenuto insussistente uno degli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie di reato richiamate, ovvero la qualità di testimone-pubblico ufficiale ricoperta dalle dichiaranti. Più specificamente, aveva rilevato la sentenza di merito come potesse definirsi testimone «solo chi, sulla base delle norme processuali che regolano lo statuto del dichiarante, possa legittimamente rivestire quell’ufficio[2]»; nel caso di specie, al contrario, le dichiaranti, all’epoca delle dichiarazioni rese in favore di Silvio Berlusconi nel corso del dibattimento dei processi Ruby 1 e 2, erano già state raggiunte da indizi di reità con riguardo proprio al reato di corruzione in atti giudiziari. Poiché, quindi, vigeva un fondato sospetto che alle testi fossero state corrisposte somme di denaro in cambio di deposizioni compiacenti o favorevoli ai soggetti imputati in quei procedimenti, le stesse risultavano di fatto incompatibili a testimoniare ex art. 197 c.p.p. Secondo il Tribunale, infatti, le giovani sarebbero dovute essere trattate alla stregua di soggetti imputati o indagati in procedimento connesso ex art. 12 lett. c. c.p.p. o collegato ex art. 371 lett. b c.p.p. e, conseguentemente, si sarebbero dovuti dare loro gli avvisi di cui all’art. 64 lett. c. c.p.p., mettendole nella condizione di potersi avvalere del diritto al silenzio o di essere assistite da un difensore. Poiché la sussistenza degli indizi di reità avrebbe dovuto implicare l’iscrizione delle dichiaranti fin dall’inizio nel registro degli indagati per il reato di corruzione in atti giudiziari, ne consegue, da un lato, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 63 c.2 c.p.p.; dall’altro, il venir meno della qualità di testimone-pubblico ufficiale, elemento costitutivo della fattispecie contestata.
Per tale ragione, il Tribunale assolveva tutti gli imputati ex art. 319ter c.p. dal reato loro ascritto.
3. Avverso la sentenza di primo grado ha proposto ricorso in Cassazione il Procuratore[3] della Repubblica di Milano, affidandosi a diversi motivi[4]; qui si richiamano i principali.
Lamenta innanzitutto una violazione di legge in relazione agli artt. 319-ter c.p. e 372 c.p., sostenendo che il Tribunale avrebbe errato nell’individuazione del momento di assunzione della qualità di testimone (e quindi anche di pubblico ufficiale) da parte delle giovani chiamate a deporre durante i processi Ruby 1 e 2. Secondo il Giudice di prime cure, infatti, per determinare il momento di acquisizione della qualità di testimone bisognerebbe guardare alla data in cui sia stata disposta la citazione del singolo soggetto designato come testimone, non essendo, invece, sufficiente la mera ammissione della prova testimoniale da parte del giudice[5]. Al contrario, secondo il Procuratore assumerebbe rilievo proprio la data di ammissione delle prove in quanto è da quel momento che, a suo giudizio, sorgerebbe l’esigenza di tutelare la serenità e la libertà del teste.
Inoltre, il Procuratore lamenta il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 384 c.2, 319 ter, 372, 648 bis, 111 c.p., con riferimento all’assunto contenuto nella sentenza di primo grado dove si sostiene che la mancanza della qualità di testimone-pubblico ufficiale in capo alle dichiaranti comporti il venir meno di un elemento costitutivo della fattispecie di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza.
Nell’affermare ciò il Tribunale aveva enfatizzato la sussistenza di un’analogia tra il meccanismo di cui all’art. 384 comma 2 c.p. con riferimento al delitto di falsa testimonianza e il sindacato giurisdizionale sulla qualità del dichiarante con riferimento al reato di corruzione in atti giudiziari, affermando che «il sindacato giurisdizionale sulla qualità del dichiarante, affidato al giudice che deve accertare la responsabilità di quest’ultimo per la corruzione in atti giudiziari, nell’ordinamento svolge la stessa funzione e produce i medesimi effetti che l’art. 384 spiega in relazione alla falsa testimonianza»[6].
Da tali premesse, il Tribunale di Milano ha fatto discendere quattro conseguenze, a parere del ricorrente del tutto erronee:
Infine, il ricorrente deduce la violazione di legge per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione agli artt. 63, 197, 197bis, 210 c.p.p. In particolare, con riferimento alla posizione di due imputate – I.B. e B.G., precedentemente indagate in un procedimento per reato connesso o collegato a quelli che formavano oggetto dei processi Ruby 1 e Ruby 2, poi archiviato prima che assumessero la veste di testimoni nei richiamati processi – il Tribunale nella sentenza di primo grado aveva ritenuto ravvisabili ulteriori indizi di reità nel corso dei dibattimenti in cui le stesse dovevano essere escusse, sicché le predette si sarebbero dovute considerare alla stregua di soggetti indagati. Conseguentemente aveva ritenuto anche in questo caso di assolvere le imputate in quanto la loro incompatibilità con l’ufficio di testimone comportava il venir meno di un elemento costitutivo della fattispecie di corruzione in atti giudiziari. Al contrario, la Procura Generale sostiene che la sussistenza di asseriti indizi di reità rappresentasse una mera valutazione personale che contrastava inoltre con taluni elementi che avevano portato alla predetta archiviazione; sicché le due dichiaranti sarebbero da ritenersi compatibili con l’ufficio di testimone.
4. Passando all’analisi delle motivazioni, la Suprema Corte si sofferma, anzitutto, ampiamente sul tema della configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, nell’ipotesi in cui il ruolo di pubblico ufficiale sia ricoperto dal testimone.
I Giudici di legittimità condividono il presupposto da cui il Giudice di prime cure è mosso, ovvero il carattere normativo della nozione di testimone. Infatti, affinché il dichiarante sia considerato testimone in senso proprio e a tutti gli effetti, alla situazione in fatto del rendere testimonianza in giudizio deve affiancarsi anche una conformità in diritto alle norme che disciplinano tale figura. In altre parole, non è sufficiente il rispetto del mero dato formale (ovvero l’aver assunto la veste di testimone in seguito all’ammissione della prova testimoniale e alla citazione del teste), ma risulta necessaria la verifica in concreto dell’insussistenza di cause di incompatibilità all’assunzione di tale veste processuale.
E dunque la Corte muove dalle disposizioni processuali volte a definire i contorni delle figure soggettive dei dichiaranti, ribadendo la centralità degli artt. 63, 64 e 197 c.p. che tratteggiano le garanzie a presidio del dichiarante, in presenza di situazioni interferenti con le esigenze difensive dello stesso o con la genuinità del dichiarato.
D’altra parte la Cassazione, pur condividendo in astratto il ragionamento formulato dal Tribunale, ritiene di doverne trarre diverse conclusioni con riguardo al caso di specie.
A tal fine, la Suprema Corte approfondisce il tema della correlabilità tra la veste di testimone ed il reato di corruzione in atti giudiziari e ribadisce che tale fattispecie postula «l’acquisizione della veste di pubblico ufficiale da parte di uno dei soggetti illeciti dell’accordo. Prima di tale momento il delitto di corruzione non è configurabile, cosicché non sono configurabili neppure indizi che possano assumere rilievo pregiudicante»[7].
Assume valore centrale, dunque, il momento dell’acquisizione della qualità di testimone. Sul punto la Corte, pur riconoscendo l’esistenza di contrasti in giurisprudenza, condivide l’assunto per cui «debba darsi rilievo, al più tardi, al momento dell’ammissione della prova, a partire dal quale, a prescindere da quello della concreta ed effettiva citazione, il testimone assume nel processo una specifica veste sulla base di un motivato provvedimento giudiziale, che vale a riconoscere la rilevanza del patrimonio conoscitivo del soggetto»[8].
Poiché «l’assunzione della veste di pubblico ufficiale doveva costituire il prius logico, perché il quadro indiziario, avente ad oggetto la conclusione di quel tipo di accordi, potesse, almeno in teoria, incidere sulla posizione dei soggetti chiamati a testimoniare, al punto da confliggere con l’acquisizione della qualità», le condotte tenute prima di tale momento[9], quand’anche accompagnate dalla dazione di denaro o dall’offerta di altre utilità, non possono integrare la fattispecie di corruzione in atti giudiziari; unico reato in relazione a quale sono stati individuati dal Tribunale indizi di reità. In una simile circostanza, afferma la Corte, si potrebbe al più ravvisare una condotta di istigazione ad una successiva ed eventuale falsa testimonianza, che però può dispiegare (quanto integra la fattispecie di cui all’art. 377 c.p.) effetti penali nei confronti del corruttore, ma non del corrotto per espressa previsione normativa.
5. Sempre in relazione al delitto di corruzione in atti giudiziari, i Giudici di legittimità operano infine alcune precisazioni con specifico riferimento alla posizione delle due imputate I.B. e B.G., che come si è già ricordato erano già state sottoposte ad indagini in un procedimento per il delitto di cui all’art. 319ter c.p., successivamente archiviato. La loro iscrizione nel registro degli indagati era -a ben vedere- avvenuta in data successiva all’ammissione della loro prova testimoniale nel processo Ruby 1. Sicché anche nel loro caso la qualità di teste era stata legittimamente assunta; tanto più che, essendo intervenuta archiviazione, la figura di B.G. (unica a deporre) ben poteva assumere la veste di testimone, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla Suprema Corte[10].
Inoltre, con riguardo alla sola I.B (la quale, come anzidetto, benché chiamata a testimoniare non si era presentata, salvo poi intervenire formale rinuncia alla sua escussione), la Corte specifica che la condotta tipica del delitto di corruzione in atti giudiziari non implica necessariamente che nel patto illecito sia dedotta la falsa testimonianza, essendo sufficiente che venga prospettata una condotta inerente alla veste del pubblico ufficiale, come -ad esempio- la condotta di sottrazione indebita all’esame testimoniale, quale quella di I.B.
6. La Corte si addentra poi nel confronto tra la fattispecie di corruzione in atti giudiziari ex art. 319ter c.p. e quella di intralcio alla giustizia ex art. 377 c.p., reato che punisce chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria per indurla a commettere taluni reati, tra cui quello di falsa testimonianza. La Corte vi si sofferma in quanto le due fattispecie, nel caso in esame, si rivelano contigue. Infatti, la Suprema Corte osserva come nell’ipotesi d’interesse, in cui il soggetto che riceve la promessa di una dazione è un testimone che accetta tale l’offerta, si crei un’area di sovrapposizione tra le due fattispecie. Invero, la figura del testimone integra sia la nozione di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria” ex art. 377 c.p., che la nozione di pubblico ufficiale ex art. 319ter c.p. Inoltre, l’intesa illecita rappresenta un elemento costitutivo comune sia alla corruzione in atti giudiziari che all’ipotesi di intralcio alla giustizia prevista al comma 2 dell’art. 377 c.p. (ovvero l’ipotesi in cui l’offerta o la proposta da parte della persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria venga accettata, ma la falsità non sia commessa). Ciò che invece, secondo la Corte, distingue le due fattispecie, è la circostanza che venga resa falsa testimonianza: invero, il reato di corruzione in atti giudiziari richiede il compimento dell’atto giudiziario -ovvero della testimonianza- atto a favorire la parte in giudizio ai fini della sua consumazione; il reato di intralcio alla giustizia nell’ipotesi contemplata al comma 2, invece, si consuma a fronte dell’offerta o della promessa di denaro o di altra utilità alla persona chiamata a testimoniare, che abbia accettato tale offerta, senza che la falsità sia commessa.
Vieppiù, la Corte, evidenzia l’identità del bene giuridico presidiato dalle due fattispecie, che secondo la ricostruzione operata sarebbe rappresentato in entrambi i casi dalla corretta amministrazione della giustizia.
Pertanto, nel caso di specie si realizza un concorso di norme, trovando applicazione sia la fattispecie ex art. 319 ter c.p. che la fattispecie ex art. 377 c.p. Tuttavia, secondo la Corte, si tratta di un concorso apparente, che deve risolversi applicando il principio di specialità: dovrà trovare applicazione la norma che presenti caratteri di specialità rispetto all’altra. In tal senso, secondo i Giudici di legittimità «il profilo specializzante finisce per essere costituito proprio dall’elemento negativo»[11] che caratterizza l’art. 377 c.p. rispetto all’art. 319 ter c.p., ovvero dalla circostanza che la falsità non venga commessa. In altre parole, il caso in cui un soggetto prometta o offra denaro o altre utilità al testimone chiamato a deporre, e il testimone non deponga il falso, è astrattamente riconducibile sia alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari, sia alla fattispecie di intralcio alla giustizia; tuttavia, in ossequio al principio di specialità, stante la previsione nel reato ex art. 377 comma 2 c.p. di un elemento specializzante (che consiste appunto nella circostanza che la falsità non venga commessa), troverà applicazione quest’ultima fattispecie. Laddove invece la falsità sia commessa, l’art. 377 c.p. non trova applicazione e si ravvisa il solo reato di cui all’art. 319 ter c.p.
Invero, la sovrapposizione richiamata non è configurabile quando l’accordo concerne la violazione di altri doveri giuridici del testimone, diversi dal deporre secondo verità; pertanto, quanto alla posizione di I.B., in cui l’accordo corruttivo sarebbe stato asseritamente volto alla sottrazione della stessa alla testimonianza, può trovare rilievo la sola ipotesi di corruzione in atti giudiziari.
7. E’ evidente come all’esito delle considerazioni svolte dalla Corte sui reati di cui agli artt. 319 ter e 377 cp, assuma rilievo centrale l’effettiva falsità della testimonianza resa dalle imputate, elemento fondamentale da cui dipende il configurarsi dell’uno o dell’altro reato (e, di conseguenza, la responsabilità penale o meno in capo al testimone). Senonché su tale elemento in fatto non si sono soffermate né la sentenza di primo grado, né le doglianze sollevate dal Procuratore. La Corte infatti osserva che «l’ipotesi della falsità delle varie testimonianze rese dalle imputate nei due processi più volte richiamati, non abbia formato oggetto di specifiche deduzioni, essendo stato dato per scontato ed essendosi piuttosto rimarcato come non fossero configurabili valide testimonianze”; al contrario“ proprio il giudizio sulla falsità val(e) ad inverare la configurabilità della contestata corruzione in atti giudiziari in luogo del solo reato unilaterale di cui all’art. 377 cod. pen.»[12] .
La Corte constata dunque «la necessità di un rinnovato giudizio […] spettando al Giudice del rinvio la ricostruzione delle condotte in punto di fatto, al fine di verificare la configurabilità dell’ipotizzata corruzione in atti giudiziari o, se del caso, l’originaria configurabilità di soli reati unilaterali di induzione, con esonero delle dichiaranti da ogni tipo di responsabilità».
8. Quanto al reato di falsa testimonianza, i Giudici di legittimità si limitano ad osservare che l’errore logico che ha inficiato il ragionamento in ordine al reato di corruzione in atti giudiziari si è ovviamente riverberato anche sul delitto di falsa testimonianza. Affermandosi in questa sede la legittimità della veste di testimone assunta dalle imputate, ai fini dell’integrazione del reato di falsa testimonianza diviene centrale, anche in questo caso, indagare se il contenuto delle deposizioni delle imputate risponda al vero. Ciò rende inconferenti, a giudizio della Corte, le censure sollevate dal Procuratore con riguardo all’erroneità della formula di proscioglimento utilizzata: infatti, poiché la Corte -a differenza del Giudice di prime cure- ritiene che le dichiaranti siano state correttamente sentite in qualità di testimoni “pure” ab initio non trova applicazione la causa di esclusione della punibilità ex art. 384 comma 2 c.p. (che invece interessa solamente le figure incompatibili con l’ufficio di testimone o i testimoni assistiti a cui non siano stati dati gli avvisi previsti dalla legge).
Ad ogni modo -e risolutivamente- la Suprema Corte rileva come in relazione al delitto di falsa testimonianza risultino maturati i termini di prescrizione[13].
9. Infine, i Giudici valutano radicalmente inammissibile il ricorso in punto di configurabilità del reato di riciclaggio in capo a L.R. per difetto di correlazione tra ricorso e sentenza. Secondo il Procuratore, il Tribunale ha erroneamente assolto L.R. dal reato di riciclaggio in ragione dell’insussistenza del reato presupposto, ovvero la corruzione in atti giudiziari. La Cassazione, invece, osserva che le ragioni per cui il Giudice di prime cure ha escluso la sussistenza del delitto di riciclaggio sono differenti: in realtà la sentenza di primo grado escludeva la configurabilità del delitto richiamato, non tanto perché il reato presupposto non sussistesse, quanto piuttosto perché L.R. aveva concorso nel reato presupposto (di corruzione in atti giudiziari). Veniva quindi meno il requisito negativo dell’estraneità dell’imputato al reato presupposto richiesto dall’art. 648 ter c.p. (che si applica “fuori dei casi di concorso nel reato”).
10. La Corte conclude disponendo l’annullamento senza rinvio relativamente ai reati di falsa testimonianza ascritti a tutte le imputate, perché estinti per prescrizione; l’annullamento della sentenza in relazione alle ipotesi di corruzione in atti giudiziari con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Milano per valutare la rispondenza al vero delle deposizioni rese dalle imputate; infine dichiara inammissibile il ricorso con riguardo alla residua posizione di L.R. in relazione al reato di riciclaggio.
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Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione riapre il giudizio, a quasi 12 anni dagli ultimi fatti oggetto del procedimento, sulle deposizioni delle cd. “olgettine”.
A parere di chi scrive, è condivisibile il ragionamento logico strutturato dalla Corte di Cassazione sulla configurabilità degli indizi di reità con riferimento al delitto di corruzione in atti giudiziari. La ricostruzione prospettata dai Giudici di legittimità appare conforme ad un’applicazione rigorosa del principio di legalità: in ossequio a tale principio, la valutazione della sussistenza di indizi di reità -al pari della pronuncia di condanna- deve avvenire con riguardo a tutti gli elementi costitutivi del reato. Sicché laddove venga meno la qualifica del soggetto attivo nel reato proprio, ragionevolmente nessun indizio di reità potrà assumere rilevanza. Infatti, affinché le garanzie proprie del soggetto formalmente indagato o imputato in procedimento collegato o connesso possano applicarsi anche al soggetto in relazione al quale sussistano indizi di reità, è necessario che tali posizioni siano effettivamente assimilabili. Ragionevolmente, laddove vi sia la certezza che un elemento costitutivo del reato (cui gli indizi si riferiscono) non sussiste, è corretto affermare che non sia possibile ab initio valutare la rilevanza di indizi di reità che permettano di paragonare tale condizione a quella del soggetto indagato/imputato in un procedimento collegato o connesso.
D’altra parte, la Corte nel suo ragionamento non si sofferma sul tempo delle dazioni oggetto del pactum sceleris. Secondo quanto emerge dalla lettura della sentenza di primo grado, il patto corruttivo intercorso tra Silvio Berlusconi e le testimoni pare fondarsi su molteplici dazioni, con cadenza perlopiù mensile. Ne consegue che ogni dazione ha spostato la consumazione del fatto di reato ad un momento successivo. Considerato che i processi Ruby 1 e Ruby 2 si sono articolati in numerose udienze dibattimentali, è intercorso un lasso di tempo -talvolta significativo- tra l’ammissione della prova testimoniale (a fronte della quale le dichiaranti hanno ricoperto l’ufficio di testimone, avvenuta il 23.11.2011 nel processo Ruby 1) e l’escussione del teste (che rappresenta il momento in cui invece vengono resi gli avvisi ex art. 64 c.p.p.). Sicché è possibile che talune dazioni siano state elargite dopo il momento in cui le dichiaranti avevano assunto la veste di testimone, ma prima del momento in cui le stesse sono state escusse. In tale frangente, i richiamati indizi di reità con riferimento al delitto di corruzione in atti giudiziari avrebbero trovato consistenza, considerato che le giovani erano già a quel punto pubblici ufficiali; conseguentemente, al momento dell’escussione gli avvisi propri del testimone assistito sarebbero stati dovuti.
Seguendo tale impostazione, allora, le dichiarazioni rese dalle testimoni “pure” che abbiano ricevuto una dazione di denaro nel periodo intercorrente tra la loro ammissione a testi e la loro escussione sarebbero inutilizzabili. Non sarebbe poi in astratto neppure da escludere un’incidenza di tale circostanza sulla rilevanza penale del fatto: il richiamo, qui, è alle considerazioni svolte dal Giudice di prime cure[14], che ha evidenziato la coerenza del sistema laddove esclude la rilevanza penale di fatti commessi dai soggetti a cui non sono state applicate tutte le dovute garanzie (come nel caso del reato di falsa testimonianza, la cui punibilità è esclusa se il soggetto che l’ha compiuta doveva essere avvertito della facoltà di astensione). Tuttavia, nel caso di specie non verrebbe comunque meno la configurabilità dell’art. 319 ter, in quanto le dichiaranti avrebbero legittimamente rivestito la qualità di testimone almeno nel periodo tra la data di ammissione della testimonianza e l’effettiva prestazione della stessa.
Quanto alle possibili conseguenze della presente decisione, è probabile che il giudizio di rinvio accerti la falsità delle testimonianze. Come è noto, nel corso dei procedimenti Ruby 1 e Ruby 2 era già emersa l’inattendibilità delle testimoni, sulla base di diversi elementi, parte dei quali hanno poi rappresentato gli indizi a fondamento del sospetto dell’esistenza di un patto corruttivo. Sebbene i canoni utilizzati per valutare la veridicità della testimonianza quando essa è elemento costitutivo del fatto di reato siano ben diversi dai canoni adottati dai Giudici per valutare la veridicità, e dunque l’attendibilità, delle prove dichiarative, la possibilità che le testimonianze delle cd. “olgettine” siano dichiarate vere appare remota. Pertanto, non è da escludere una condanna per corruzione in atti giudiziari a carico delle dichiaranti.
La portata di tale decisione, invece, non assume rilievo con riguardo ai procedimenti in cui le testi sono state escusse. Già nel corso dei processi Ruby 1 e Ruby 2 la veridicità delle dichiarazioni era stata messa in discussione al punto da portare i Giudici a non ritenerle attendibili elementi di prova. Pertanto, laddove il giudice del rinvio accerti in fatto l’avvenuta falsità, nulla sposterebbe con riguardo ai procedimenti in cui tali testimonianze sono state rese.
[1] Cfr. GATTA G., La sentenza della Cassazione sul caso Berlusconi-Ruby: tra morale e diritto, in Diritto Penale Contemporaneo, fasc. 4/2015, p. 385-389.
[2] Sul punto si vedano p. 173 ss. della sentenza di I grado.
[3] Consultabile su Giurisprudenza Penale al link https://www.giurisprudenzapenale.com/2023/07/04/processo-ruby-ter-il-ricorso-diretto-per-cassazione-della-procura-di-milano/
[4] Cfr. sentenza in commento, p. 4
[5] La sentenza di I grado si occupa del tema alle pp. 167-170.
[6] Cfr. sentenza di I grado p. 110.
[7] Cfr. sentenza in commento, p. 6
[8] A riprova del fatto che è solo dal momento dell’ammissione che si cristallizza il riconoscimento della rilevanza del patrimonio conoscitivo del dichiarante, la Corte sottolinea che a partire da quel momento l’eventuale superfluità deve essere rilevata con provvedimento motivato di revoca o deve trovare il consenso delle parti ex art. 495 comma 4 e 4bis c.p.p.
[9] Nel caso di specie, il provvedimento di ammissione delle prove è stato adottato -nell’ambito del processo Ruby1- in data 23.11.2011
[10] La Corte richiama S.U., sentenza n. 12067 del 17/12/2009, dep. 2010, De Simone, secondo cui “La disciplina limitativa della capacità testimoniale di cui all'art. 197, comma 1, lett. a) e b), all'art. 197-bis e all'art. 210 c.p.p. non è applicabile alle persone sottoposte alle indagini nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione”. Invero, sulla possibilità in capo al soggetto archiviato di rivestire l’ufficio di testimone cd. “puro” (in contrapposizione al testimone assistito ex art. 197 bis c.p.p.), vige un profondo contrasto in giurisprudenza. Da un lato, a favore dell’applicazione della disciplina del testimone assistito anche al soggetto indagato e poi raggiunto da provvedimento di archiviazione, depone l’instabilità del provvedimento di archiviazione stesso; tale elemento renderebbe inapplicabile al soggetto in questione quanto affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 381 del 2006 (con cui la Corte ha stabilito che all’imputato prosciolto con sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” divenuta irrevocabile si debba applicare la disciplina del testimone “puro”, e non assistito, in ragione dell’acclarata completa estraneità ai fatti di cui era accusato). Dall’altro lato, a favore dell’applicazione della disciplina del testimone “puro” al soggetto indagato che ha visto archiviato il procedimento a suo carico, depongono considerazioni circa la sostanziale ingiustizia del sistema opposto: come richiamato nella sentenza ivi citata, il riferimento è alle ipotesi di apertura d'indagine artatamente create da una parte privata nei confronti del suo potenziale accusatore, al fine di diminuirne il valore testimoniale. Sul punto cfr. CAPITTA A.M., La qualifica processuale del dichiarante dopo il provvedimento di archiviazione: itinerari giurisprudenziali, in Diritto Penale Contemporaneo, 2011 consultabile al link https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/1109-la-qualifica-processuale-del-dichiarante--dopo-il-provvedimento-di-archiviazione--itinerari-giurisp
[11] Cfr. sentenza in commento, p. 22.
[12] Ibidem, p. 22
[13] Giacché la data dell’ultima deposizione risale al 24 maggio 2013, e computando sette anni e sei mesi nonché aggiungendo un periodo di sospensione pari a 829 giorni, tutte le ipotesi di falsa testimonianza risultano prescritte.
[14] Cfr. p. 104 della sentenza di I grado.