Presidente aggiunto Cass., S.U., ordinanza di restituzione atti ex art. 172 disp. att. c.p.p., 17 luglio 2019
1. Con l’ordinanza in epigrafe si è forse definitivamente conclusa l’intricata questione della configurabilità della fattispecie associativa di tipo mafioso rispetto alle c.d. mafie delocalizzate al Nord Italia o all’estero, vale a dire alle articolazioni o locali periferiche costituite da una consorteria mafiosa tradizionale (c.d. casa madre) in un territorio diverso da quello in cui normalmente essa è radicata[1].
Per la seconda volta nel giro di appena quattro anni, infatti, l’attesa riposta sul chiarimento del massimo organo nomofilattico nella sua più autorevole composizione è stata ripagata da un’altra netta ‘non decisione’.
Così come accaduto nella precedente, analoga, occasione con l’ordinanza di restituzione degli atti del 28 aprile 2015[2], anche in questa circostanza il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione non ha ravvisato l’effettiva sussistenza del contrasto ermeneutico dedotto dall’ordinanza di rimessione e, ai sensi dell’art. 172 disp. att. c.p.p., ha nuovamente restituito gli atti al Presidente della Prima Sezione per una loro più attenta valutazione[3].
Nonostante gli apprezzabili sforzi compiuti dall’ordinanza Nesci del 2019 di motivare in termini più analitici e puntuali rispetto al recente passato la necessità di un intervento dirimente delle S.u.[4], il Presidente della S.C. ha ritenuto erronea la prospettazione dei giudici remittenti e, al contrario, ha ribadito il saldo punto di vista del suo predecessore: non esiste alcun contrasto interpretativo sulla necessità della esteriorizzazione del metodo mafioso nel nuovo territorio di insediamento da parte di una articolazione periferica di un sodalizio tradizionalmente mafioso.
Ed invero, a suo avviso, il problema dedotto dall’ordinanza, più che attenere al piano delle questioni interpretative di diritto, appartiene a quello dell’accertamento del fatto, insindacabile in sede di controllo di legittimità e, a maggior ragione, da parte delle Sezioni unite.
Il dibattito sulla natura ‘giuridicamente’ mafiosa di un gruppo criminale concerne, difatti, piuttosto che la sfera del significato da attribuire alla articolata definizione del metodo mafioso contenuta nella fattispecie associativa c.d. mista di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p., la dimensione concreta e fenomenologica della struttura unitaria o duale delle associazioni coinvolte nella singola vicenda processuale e, quindi, il versante della prova della loro ‘mafiosità’.
2. In particolare, per il Presidente Aggiunto, il panorama giurisprudenziale sulle mafie delocalizzate «appare consolidato nell’affermare che ai fini della configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è necessaria una effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso effettivamente in contatto».
La differenza risiederebbe solamente nella prova del metodo mafioso: per le mafie di nuova creazione, che costituiscono al di fuori dei territori di appartenenza una struttura autonoma ed originale che si ripropone di adottare la metodica delinquenziale della ‘casa madre’, si dovrebbe sempre riscontrare nel nuovo ambiente l’esteriorizzazione del metodo mafioso in tutte le sue componenti; diversamente, per i nuovi aggregati che si pongono «come mera articolazione territoriale di una tradizionale organizzazione mafiosa» sarebbe sufficiente la verifica di tale collegamento funzionale ed organico per inferire l’esistenza nella cellula dei tratti distintivi di un’associazione di tipo mafioso, «compresa la forza intimidatrice e la capacità di condizionare l’ambiente circostante».
In quest’ottica, la questione parrebbe ruotare attorno alla corretta valutazione delle evidenze probatorie e, quindi, delle caratteristiche organizzative della ‘cellula’ delocalizzata, dei suoi rapporti con la ‘casa madre’, nonché delle forme di esteriorizzazione del metodo mafioso, anche in forma ‘silente’.
Tuttavia, nonostante questa perentoria riaffermazione del proprio precedente punto di vista, il Presidente chiarisce anche come ciò non osti alla possibilità per il Collegio cui sarà devoluto l’esame del ricorso di reiterare la rimessione dello stesso alle Sezioni unite sulla base di nuove considerazioni.
3. Aspettando di capire come evolverà questo dialogo interno alla giurisprudenza di legittimità, la decisione di restituzione degli atti si segnala in primis per avere evidenziato, una volta di più, l’intreccio inestricabile che si registra nei processi sulle ‘mafie nuove’ tra vicende storiche e profili giuridici, mettendo bene in luce come le questioni in diritto apparentemente inerenti agli spazi di azione della fattispecie associativa mafiosa nella sua dimensione normativa generale ed astratta, in realtà, sono fortemente condizionate dalle questioni in fatto relative alla struttura ed alle dinamiche comportamentali del gruppo criminale.
Ma il provvedimento in epigrafe desta interesse soprattutto per il principio di diritto implicitamente enunciato nella sua parte conclusiva.
Ed invero, l’affermazione in forza della quale, anche in caso di delocalizzazione di una mafia, è sempre richiesta «per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile», pare ineccepibile, incanalandosi nel solco di quell’orientamento più rispettoso della lettera della legge dell’art. 416 bis c.p. già sostenuto in passato da altro Presidente della S.C. nel 2015 e condiviso da parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità[5].
Una simile puntualizzazione ribadisce, infatti, che non è possibile immaginare una fattispecie associativa mafiosa a geometria variabile, in cui cioè la consistenza del tipo criminoso dell’art. 416 bis c.p. muti a seconda delle caratteristiche concrete dei fenotipi criminali a cui deve essere in concreto applicato.
Qualunque sia la natura dell’associazione non tradizionale – delocalizzata, estera o autoctona – resta sempre imprescindibile la dimostrazione della effettiva sussistenza del ‘metodo mafioso’ così come definito dal comma 3 della medesima disposizione di legge.
Sarebbe, a ben vedere, del tutto irragionevole ritenere che per le ‘colonie mafiose’ (così come per le altre mafie nuove) la fattispecie incriminatrice abbia una tipicità impoverita e possa ritenersi ravvisata in assenza dell’accertamento di tutte le componenti del metodo mafioso, essendo sufficiente riscontrare la struttura gerarchica, la derivazione dalla casa madre e la riproduzione di dinamiche comportamentali interne analoghe.
L’esito di un simile ragionamento sarebbe quello di caducare – rispetto alle sole mafie delocalizzate e similari – l’art. 416 bis c.p. del segmento che più di ogni altro lo qualifica in termini generali ed astratti come fattispecie autonoma rispetto alla fattispecie associativa comune di cui all’art. 416 c.p. e ne giustifica i maggiori rigori della risposta sanzionatoria edittale, in coerenza con il principio di proporzionalità delle pene. Con l’ulteriore paradossale conseguenza di lasciare convivere una figura delittuosa associativo-mafiosa di consistenza esangue per le consorterie di nuova istituzione – rispetto a cui, più di ogni altra, sarebbe necessario accertare il metodo mafioso nelle sue varie sfaccettature – con una figura analoga più ‘corposa’ per i sodalizi mafiosi tradizionali radicati nei loro territori di origine, rispetto ai quali il metodo mafioso può essere ricostruito in maniera inferenziale anche da atteggiamenti diffusi di carattere ambiguo e non esplicitamente intimidatorio, grazie ad una caratura criminale già ampiamente percepita da tutti in quelle zone geografiche.
Così facendo, per le sole mafie non tradizionali come quelle delocalizzate, si assisterebbe allo stravolgimento della figura delittuosa in esame ed alla sua trasformazione da fattispecie associativa mista o che delinque in fattispecie associativa pura o per delinquere[6], facendo dipendere unicamente per queste la sussistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. dalla esistenza di una struttura organizzativa interna articolata secondo canoni mafiosi analoghi a quelli delle mafie tradizionali e dalla fama criminale ‘per attrazione’ derivata — generalmente — dai legami con sodali rimasti nella terra di origine.
Inoltre, seguendo la diversa argomentazione prospettata in passato da altra parte della giurisprudenza, si finirebbe con l’equiparare in modo del tutto irragionevole quoad poenam vicende criminali fortemente eterogenee, come quelle costituite da associazioni che operano con metodo mafioso per l’attuazione del loro programma criminoso e quelle che, invece, sono solamente connesse a queste ultime e ricavano la caratura mafiosa per relationem, non essendo ancora operative nel contesto di nuovo insediamento con le metodologie di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p.[7].
Infine, muovendo da un punto di vista differente, si giungerebbe a considerare erroneamente il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. come un reato di pericolo presunto, che si consuma anche solo con la prova della mera potenziale forza intimidatrice del sodalizio, sulla scorta di una presunzione di trasferimento per osmosi dei connotati mafiosi dalla ‘casa base’ alla ‘cellula’ distaccata. È invece parere condiviso che questo delitto sia un reato di danno, o al più di danno misto a pericolo[8], in quanto ai fini della sua consumazione è richiesta non solo la prova del pericolo per l’ordine pubblico, ma anche — e forse prima ancora — quella della lesione effettiva della libertà morale dei consociati che si trovano ad avere rapporti con il gruppo criminale, subendone il condizionamento ambientale.
4. Tuttavia, per quanto corretta nelle conclusioni, la decisione del Presidente che si annota pare riposare su una premessa non del tutto condivisibile, vale a dire l’assenza di un contrasto ermeneutico sulla configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. rispetto alle c.d. mafie nuove.
In verità, i diversi orientamenti interpretativi individuati dalla ordinanza di rimessione Nesci non ruotavano solo ed esclusivamente attorno a problemi di prova, ma anche, e prima di tutto, di interpretazione e ‘contrazione’ della fattispecie incriminatrice nella sua dimensione generale ed astratta.
In quella articolata ed analitica decisione della Suprema Corte, infatti, si individuavano distintamente due filoni interpretativi nella giurisprudenza di legittimità successiva alla prima decisione di restituzione degli atti del Presidente della S.C. del 2015.
In particolare, secondo un primo orientamento formalistico e restrittivo, anche nelle locali mafiose costituite all’estero (ma il discorso, ovviamente, vale anche per quelle costituite al Nord della penisola) va sempre accertato in concreto, ed in termini di effettiva attualità, la sussistenza del metodo mafioso in tutte le sue componenti normativamente descritte dal comma 3 dell’art. 416 bis c.p. Sarebbe, quindi, sempre imprescindibile riscontrare che « l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva »[9].
Al contrario, secondo un diverso indirizzo esegetico, di impronta sostanziale e di portata estensiva, sarebbe sufficiente accertare il collegamento tra la “cellula” delocalizzata e la “casa madre”, nonché la mutuazione da parte della prima delle caratteristiche della seconda per “ritenere sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico” che connota una associazione di tipo mafioso. In tal caso, la “cellula” per poter esser considerata una associazione mafiosa ai sensi della legge penale non dovrebbe esplicitare nel territorio nuovo di insediamento il suo alone di timore, ma godrebbe di per sé, per il solo fatto della propria esistenza quale diramazione di una consorteria mafiosa tradizionale, di una capacità potenziale di sprigionare una forza intimidatrice idonea a porre in condizioni di assoggettamento ed omertà quanti vengano a contatto con essa[10]. Sarebbe sufficiente a sostenere tale capacità potenziale della nuova articolazione di sprigionare in futuro la forza di intimidazione nel nuovo territorio anche la presunta diffusa conoscenza, ovunque, della “spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione” della ‘ndrangheta[11].
Le motivazioni addotte dall’ordinanza in parola a sostegno della sua diversa valutazione sembrano eccedere nel reputare una questione di mero fatto quella relativa alla natura mafiosa delle compagini associative operanti in territorio a tradizione non mafiosa, sembrando esistere, effettivamente, divergenze interpretative sugli elementi costitutivi indefettibili della fattispecie incriminatrice generale ed astratta di cui all’art. 416 bis c.p.
Ed allora, non sarebbe stato azzardato ed erroneo, proprio per la non auto-evidenza della natura meramente fattuale del problema interpretativo, consentire alle Sezioni unite di valutare la questione e di pronunciarsi sulla portata del problema e, in via subordinata, sulla soluzione preferibile.
Una simile diversa opzione avrebbe certamente conferito alla pronuncia eventualmente adottata una più penetrante capacità di condizionamento della giurisprudenza successiva, valendo per questa la più rigorosa regola introdotta dalla riforma del 2017 dell’art. 618, comma 1 bis, c.p.p. in forza della quale una precedente decisione del massimo organo nomofilattico nella sua più autorevole composizione è vincolante per il diritto vivente successivo e la Sezione semplice che volesse distaccarsene in futuro dovrà rimettere nuovamente la questione alle Sezioni unite con un’ordinanza motivata in cui siano ben evidenziate le ragioni del cambiamento di orientamento[12].
In ogni caso, pur non essendo dotata di tale peculiare efficacia stabilizzante del diritto giurisprudenziale, la presa di posizione del Presidente della S.C. – se considerata seriamente – potrebbe valere ugualmente come fermo monito per il futuro, invitando la giurisprudenza a non reiterare la interpretatio abrogans di alcune tessere della fattispecie associativa mafiosa registratasi in talune pronunce relative alle mafie nuove e, al contrario, a vagliare con maggiore attenzione la caratura dell’associazione di nuova costituzione, per stabilire con certezza se sia una mera diramazione di un sodalizio tradizionale oppure un gruppo di nuova formazione che ad esso sia legato, replicandone la struttura interna e le regole di azione.
5. L’osservazione della prima, importante, decisione di legittimità intervenuta in argomento in epoca successiva a tale arresto pare fornire indizi incoraggianti: la pronuncia della Cassazione risolutiva di una vicenda giudiziaria complessa, delicata e di grande clamore mediatico come quella di ‘mafia capitale’ pare essere una diretta applicazione delle coordinate ermeneutiche tracciate dal Presidente della S.C.[13].
Ed infatti, da quanto si è potuto cogliere sinora dalla lettura del solo dispositivo della nuova, condivisibile, sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI, dello scorso 20 ottobre, con cui è stata definitivamente esclusa la natura mafiosa ai sensi dell’art. 416 bis c.p. del gruppo criminale che aveva condizionato l’assegnazione di numerosi appalti del comune di Roma, la base del ragionamento decisorio dei giudici di legittimità sembra essere proprio quella fattuale della consistenza non unitaria ma differenziata delle compagini associative riferite a Buzzi e Carminati.
La premessa della decisione su cui si incentra la riqualificazione dei fatti contestati agli imputati ai sensi dell’art. 416 c.p., piuttosto che dell’art. 416 bis c.p., pare invero saldamente agganciata all’inciso della “ritenuta sussistenza di due associazioni”.
Probabilmente, proprio negando l’esistenza di un unico gruppo criminale e ravvisando, al contrario, quella di due autonome associazioni operanti in settori e con modalità diverse nel territorio della Capitale, la Corte di legittimità ha opportunamente escluso la configurabilità della più grave fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. in un simile contesto.
La decisione della Corte di Appello di Roma cassata, infatti, aveva inferito la natura mafiosa della compagine criminale riferibile ai due principali imputati del c.d. ‘mondo di mezzo’ muovendo dalla sua dimensione unitaria, reputando che l’impiego episodico di forme di violenza o minaccia da parte di alcuni dei componenti del gruppo di Corso Francia per il recupero di taluni crediti usurai e la fama criminale del suo vertice, sommati alle capacità di condizionamento delle imprese concorrenti nel settore degli appalti pubblici di altri componenti del ‘gruppo degli uffici comunali’, integrassero congiuntamente considerati il metodo mafioso di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p.
Si può, quindi, supporre che, dietro il veloce inciso contenuto nel dispositivo della decisione della Cassazione, si celi la premessa per l’opposto ragionamento dei giudici di legittimità e per la adesione alla qualificazione giuridica dei fatti operata dal giudice di prime cure. Partendo dal presupposto del dualismo associativo tra il gruppo di Corso Francia e quello degli appalti di Roma Capitale, si approda in modo ancor più agevole e lineare alla conclusione circa la natura non mafiosa di ciascuno dei due.
Nessuno dei sodalizi è, infatti, mafioso ai sensi del paradigma normativo e non sociologico di mafia declinato dall’art. 416 bis, comma 3, c.p., dal momento che manca in entrambi l’ubi consistam del metodo mafioso nelle sue diverse componenti, non bastando a tale scopo, nel primo caso, l’alone criminale di un partecipe e l’utilizzo saltuario di forme estorsive di crediti provenienti da attività illecite e non potendo essere ridotta, nel secondo caso, la forza di intimidazione al condizionamento, peraltro ‘interessato’, dei pubblici funzionari e delle altre imprese partecipanti alle medesime gare di appalto. In particolare, sotto tale ultimo profilo, laddove esistono oleate e rodate prassi corruttive gestite da un gruppo criminale, l’assoggettamento e l’omertà della cerchia sociale delle persone in cui questo opera devono derivare eziologicamente dalla forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo, non potendo mai consistere in meri stati di soggezione di un ristretto ambito di soggetti consistenti nell’accettare offerte corruttive o di non denunciarle, nella convinzione di poter trarre un tornaconto immediato nel caso dei p.u. che aderivano e futuro nel caso degli altri privati interessati che si ritiravano dalle gare o non vi partecipavano affatto, in attesa di vincere la commessa a quello prospettato come il loro turno.
Un po’ come per la concussione è richiesta su base individuale la prova della coartazione della libertà di autodeterminazione del privato che si è determinato al pagamento corroborata dall’accertamento della finalità de damno evitando, nella associazione di tipo mafioso è richiesta su scala sociale allargata, usando schemi analoghi a quelli della causalità psichica, la prova della coartazione degli spazi di autonomia dei privati che si relazionano con il gruppo criminale, corroborata dall’accertamento della medesima finalità. Ciò significa che laddove la categoria di soggetti che si è rapportata con il gruppo mafioso abbia agito con l’opposta finalità de lucro captando e, quindi, di trarre un qualche vantaggio immediato o futuro, si possa ravvisare la sussistenza del solo delitto associativo comune di cui all’art. 416 c.p.
6. Giova rilevare, infine, che la presa di posizione del Presidente della S.C. potrebbe risultare determinante anche sul versante del diritto processuale penale e, segnatamente, sulla materia della competenza territoriale nei reati di criminalità organizzata, soprattutto, nel caso di mafie migrate al Nord dell’Italia, piuttosto che per quelle gemmate all’estero, data l’ampiezza per queste ultime dell’art. 6 c.p. che rende praticamente sempre ravvisabile la competenza dell’autorità giudiziaria italiana.
Se, infatti, in tali situazioni si assume come presupposto l’esistenza di un’unica associazione per delinquere di tipo mafioso, la competenza ai sensi dell’art. 8 c.p.p. dovrebbe essere radicata nel territorio in cui è esplicitata la sua portata intimidatrice e non in quello in cui insiste la filiale locale derivata.
Come ha chiarito la Suprema Corte, infatti, «la competenza territoriale a conoscere un reato associativo, che è un reato di natura permanente, si radica nel luogo in cui la struttura associativa, destinata a operare nel tempo, diventa concretamente operante, a nulla rilevando il luogo di consumazione o di futura commissione dei singoli reati oggetto del “pactum sceleris”»[14]. Più articolata è “l’individuazione della competenza territoriale qualora ci si trovi in presenza di un’organizzazione criminale composta di vari gruppi operanti su di un vasto territorio nazionale ed estero, i cui raccordi per il conseguimento dei fini dell’associazione prescindono dal territorio, né sono collegati allo stesso per la realizzazione dei suddetti fini. In tal caso, la competenza per territorio a conoscere del reato associativo va determinata con riferimento al luogo di programmazione e di ideazione dell’attività riferibile all’associazione”[15].
Un simile aspetto sarà con ogni probabilità particolarmente rilevante nei futuri arresti della giurisprudenza sul punto, dal momento che inevitabilmente la questione in fatto ed in diritto circa l’esistenza di una autonoma compagine associativa nel nuovo territorio non a tradizione mafiosa potrà essere in concreto condizionata da valutazioni di carattere processuale.
Per lasciare incardinate nei tribunali del Nord Italia attualmente competenti in tanti giudizi su locali mafiose distaccate i complessi e delicati processi in corso, talune valutazioni rischiano di essere deformate da questa precomprensione, potendo portare a ravvisare due associazioni distinte laddove si voglia raggiungere un simile obiettivo.
Ugualmente, lo stesso discorso potrebbe valere per i procedimenti futuri, perché in tali casi le scelte sulla competenza territoriale potranno essere a monte condizionate dalla valutazione circa l’esistenza di una associazione autonoma, piuttosto che di una sede distaccata di una associazione storica già operante altrove.
7. Una volta ricostruita la portata, le argomentazioni e le possibili implicazioni future di questa decisione resta solo una perplessità.
Che questa scelta di ‘decidere di non far decidere’ del Presidente aggiunto delle S.u. sia, forse, il frutto di valutazioni di opportunità molto concrete, ma probabilmente non ineccepibili.
Non è da escludersi che la Suprema Corte abbia negato deliberatamente l’esistenza di un conflitto interpretativo sincronico nella giurisprudenza di legittimità per evitare l’effetto a cascata prodotto in materia di legislazione antimafia dalla sentenza della Corte EDU Contrada c. Italia del 2015 su alcune precedenti decisioni di condanna per concorso esterno già passate in giudicato[16].
Se, infatti, avesse ammesso la sussistenza del contrasto ermeneutico sulle mafie delocalizzate, enunciando un nuovo e risolutivo principio di diritto in forza del quale il metodo mafioso deve essere sempre accertato in tutte le sue componenti, ci sarebbe stato il rischio che gli stessi imputati della vicenda affrontata dalle Sezioni unite, così come i loro c.d. fratelli minori, potessero poi dedurre dinanzi alla Corte di Strasburgo la violazione dell’art. 7 CEDU sotto il versante della irretroattività in tutti i casi in cui le eventuali sentenze di condanna passate in giudicato fossero state pronunciate con riferimento a vicende relative a locali straniere o al Nord rispetto alle quali il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. era stato ravvisato solo sulla scorta del collegamento con la casa madre a prescindere dal riscontro del metodo mafioso.
Mutatis mutandis, si sarebbe potuto sostenere anche in questa circostanza che prima della ipotetica pronuncia delle Sezioni unite non sarebbero stati conoscibili da parte dei consociati gli elementi costitutivi del delitto di associazione di tipo mafioso e che solo dopo l’arresto del massimo organo nomofilattico ciò sarebbe divenuto possibile, con il pericolo conseguente di veder ‘cadere’ tante condanne definitive per associazione di tipo mafioso per adeguare il diritto interno a quello convenzionale.
Comunque, ora non resta che aspettare e vedere come la giurisprudenza di legittimità reagirà a tale presa di posizione.
Delle due l’una: o chinerà definitivamente il capo e motiverà, in fatto ed in diritto, le proprie conclusioni circa la natura mafiosa di un gruppo criminale operativo al di fuori delle terre di origine, senza deformare il tipo criminoso o processualizzare categorie penalistiche; oppure rifiuterà la prospettazione ermeneutica suggerita e riproporrà la questione alle Sezioni unite sulla base di nuovi argomenti, con il rischio, in tale seconda eventualità, che lo spostamento in avanti nel tempo della decisione di queste ultime amplifichi i problemi di irretroattività in precedenza paventati, andando a coinvolgere, inevitabilmente, un numero maggiore di casi.
Tertium non datur.
[1] Sulle mafie delocalizzate, con particolare riguardo alla più diffusa ipotesi delle filiali silenti formatesi nel Nord della Penisola, si veda F. Varese, Mafie in movimento, Torino, 2011, passim; A. Alessandri, a cura di, Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017; C. Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it, 1 e segg.; F. Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 e segg.; G. Pignatone-M. Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019; R.M. Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in www.penalecontemporaneo.it, 10 novembre 2015; A. Balsamo-S. Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, ivi, 18 ottobre 2013, 1 e segg.; nonché, in giurisprudenza Cass., Sez. II, 4 aprile 2017, n. 24851, in Il penalista, 24 luglio 2017; Cass., Sez. II, 28 marzo 2017, n. 24850; Cass., Sez. V, 3 marzo 2015, n. 31666, Bandiera; Cass., Sez. II, 21 aprile 2015, n. 34147, Agostino; e Cass., Sez. V, 2015, n. 21562, Novembrini, che danno conto del contrasto esistente tra un primo orientamento per il quale per le nuove mafie al Nord è sufficiente per integrare il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. che il sodalizio presenti evidenti connotati di “mafiosità” sul piano organizzativo “interno”; ed un secondo che, invece, reputa necessaria la prova dell’esteriorizzazione del “metodo mafioso”, quale riflesso dell’avvalersi “della forza di intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e omertà che ne deriva”.
[2] Per un commento a tale primo provvedimento, nonché per una puntuale ricostruzione dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali di legittimità sul punto, si rinvia a C. Visconti, I giudici di legittimità ancora alla prese con la “mafia silente” al nordI giudici di legittimità ancora alle prese con la "mafia silente" al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in www.penalecontemporaneo.it, 5 ottobre 2015.
[3] In argomento, per delle considerazioni critiche, cfr. I. Merenda-C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in E. Mezzetti-L. Luparia, La legislazione antimafia, Bologna, in corso di pubblicazione, p. 18 del dattiloscritto.
[4] La nuova ordinanza, unitamente ad un commento di L. Ninni, Alle Sezioni unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso con riguardo ad articolazioni periferiche di un sodalizio mafioso in aree “non tradizionali”, è pubblicata in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2019.
[5] C. Visconti, I giudici di legittimità ancora alla prese con la “mafia silente” al nord. I giudici di legittimità ancora alle prese con la "mafia silente" al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, cit.
[6] Su tale dicotomia si veda G. Spagnolo, Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 156; G. Fiandaca, Le fattispecie associative “qualificate”, in Aa.Vv., I reati associativi, Milano, 1998, 53 ss.; C. Visconti, Mafie straniere e ’ndrangheta al Nord. Una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 1/2015, 355 e 374; G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, 85 ss. Un tentativo di trasformazione della associazione di tipo mafioso in reato meramente associativo può scorgersi, ad esempio, recentemente in Cass., Sez. II, 31 maggio 2017, Pontari e altri, in Ced Cass., n. 271169, con nota di I. Giugni, La nozione di partecipazione associativa penalmente rilevante tra legalità penale e disorientamenti ermeneutici, in Arch. pen., 2018.
[7] Evidenziano tali profili di irragionevolezza sul versante del trattamento sanzionatorio I. Merenda-C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., 13.
[8] Sul punto, si rinvia per tutti a G. Turone, Il delitto di associazione di tipo mafioso, Milano, 2015, 360 ss.
[9] In tal senso, cfr. ad es. Cass., Sez. I, 30 dicembre 2016, Pesce e altri; Cass., Sez. VI, 13 settembre 2017, Vicidomini. Nonché, in un obiter, anche la stessa ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, Cass., Sez. I, 10 aprile 2019, cit.
[10] Cass., Sez. II, 18 maggio 2017, n. 29850, Barranca; Cass., Sez. V, 24 maggio 2018, n. 28722, Demasi; Cass., Sez. V, 11 luglio 2018, n. 47535, Nesci. Sui due contrapposti orientamenti cfr. L. Ninni, Alle Sezioni unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso, cit.
[11] Così Cass., Sez. V, 3 marzo 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31666, Bandiera, cit. Sul punto L. Ninni, Alle Sezioni unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso, cit., 33.
[12] Si rinvia sul punto a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Quest. giust., 2018, 4, 137 ss.
[13] In argomento, sugli altri gradi di giudizio, si veda Trib. Roma, 20 luglio 2017, Bolla e altri, ed i commenti di G. Fiandaca, Esiste a Roma la mafia? Una questione (ancora) giuridicamente controversa, in Foro it., II, 2018,176; G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. it., 2018, 956 ss.; E. Zuffada, Per il tribunale di Roma “mafia capitale” non è mafia: ovvero, della controversa applicabilità dell’art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie “storiche”, in Dir. Pen. Cont., 2017, n. 11, 270 ss.; S. De Flammineis, Impresa mafiosa e impresa vittima: segmenti di intersecazione e la figura del concorrente esterno estorto, ivi, 2018, n. 2, 149 ss.; A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di “mafia capitale”: tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. pen., 2016, 112 ss. Sul punto si veda anche la decisione del giudice del gravame, App. Roma, 11 settembre 2018, Bolla e altri, in www.penalecontemporaneo.it, 14 maggio 2019, con commenti di C. Greco, Mafia capitale: il banco di prova dell’art. 416 bis c.p., e di E. Cipani, La pronuncia della Corte d’appello di Roma nel processo c.d. Mafia Capitale: la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. alle “mafie atipiche”.
[14] Cass., Sez. I, 10 dicembre 1997, n. 6933.
[15] Così Cass., Sez. I, 16 maggio 2011, n. 25242, Baratto; in senso conforme si veda Cass. pen., Sez. II, 22 settembre 2015, n. 39895. Sul punto cfr. da ultimo Corte d’Assise, Brescia, sent. 17 luglio 2019, n. 4, ed il relativo commento di D. Carrozzo, Sui criteri di determinazione della competenza territoriale in materia di reati associativi, in corso di pubblicazione.
[16] Per una ricostruzione della articolata decisione della Corte EDU Contrada c. Italia del 2015 si rinvia a V. Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in Dir. pen. proc., 2015, 1019; F. Palazzo, La sentenza Contrada ed i cortocircuiti della legalità, ivi, 2015, 1063; D. Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in www.penalecontemporaneo.it, 13 luglio 2015; M. Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello Stato per la carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva a formazione giudiziaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 346; G. Fornasari, Un altro passo nella “riscrittura” della legalità? Appunti sulla sentenza Contrada, in Politica criminale e cultura giuspenalistica, a cura di A. Cavaliere-C. Longobardo-V. Masarone-F. Schiaffo-A. Sessa, Napoli, 2017, 447 ss. Per una analisi critica della applicazione alla vicenda del concorso esterno dei principi enunciati dalla stessa sentenza Contrada si rinvia a F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale, in La crisi della legalità nel “sistema vivente” delle fonti penali, Napoli, 2016, 242: Id., Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Corte di Cassazione chiude il Caso Contrada, in www.penalecontemporaneo.it, 27 settembre 2017; nonché il nostro G. Amarelli, Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale, in www.criminaljusticenetwork.com, 16 novembre 2018.