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02 Novembre 2022


Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali)


1. Introduzione alla riforma: due decreti per l’efficienza della giustizia.

 

Con l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, recante attuazione della delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari e del Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151, recante norme sull’ufficio per il processo in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206 e della legge 27 settembre 2021, n. 134 è stato portato a compimento uno dei cantieri più ambiziosi della giustizia penale degli ultimi decenni.

Come noto, il cantiere era stato aperto dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia nella primavera del 2021, con l’obiettivo di elaborare le modifiche al sistema penale necessarie a conseguire i target fissati dal P.N.R.R., ossia, in particolare, la riduzione del 25% della durata dei giudizi penali entro il 2026. Nel marzo era stata nominata una Commissione, presieduta da Giorgio Lattanzi e composta da magistrati, avvocati e professori universitari, volta a «elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al d.d.l. AC 2435». Tra il giugno e il luglio 2021 si era svolto il negoziato tra le forze politiche che componevano la maggioranza di unità nazionale: un negoziato che aveva condotto ad abbandonare diverse proposte della Commissione e ad accoglierne altre, fino ad arrivare all’approvazione della legge delega nel settembre del 2021 (l. n. 134).

Ebbene, l’unicità della manovra risiede nella circostanza che essa costituisce un tassello di un disegno di riforma organico della giustizia, teso a rilanciarne l’efficienza, individuando una sintesi equilibrata tra un approccio pragmatico di stampo europeo e una rinnovata sensibilità per la dimensione costituzionale. Un disegno che ha finalmente affiancato alla (pur indispensabile) modifica delle norme processuali e sostanziali, una serie di misure ad ampio spettro, volte a rimediare, sia alle criticità ordinamentali del sistema giuridico (si pensi alla l. 17 giugno 2022, n. 71 di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura e allo stesso d.lgs. n. 151 sull’ufficio per il processo), sia alle lacune strutturali degli uffici giudiziari. In questa seconda prospettiva, si collocano, ad esempio, i cospicui investimenti sul fronte del personale ausiliario (con l’assunzione a tempo determinato di 16.500 unità destinate all’ufficio per il processo e altri 5.140 funzionari tecnici amministrativi specializzati), nonché sull’edilizia giudiziaria e sulla digitalizzazione delle strutture.

Il decreto n. 150, dal quale conviene prendere le mosse, consta di 99 articoli ed è diviso in sei titoli. Il primo è dedicato alle modifiche al codice penale (artt. 1-3), il titolo II contiene le modifiche del codice di procedura penale (artt. 4-40) ed è a sua volta suddiviso in undici capi che introducono novità in ciascuno degli undici libri del codice di rito, il titolo III porta modifiche alle disposizioni di attuazione, di coordinamento, e transitorie del codice di procedura penale (art. 41), il titolo IV è dedicato alla disciplina organica della giustizia riparativa (artt. 42-67), il titolo V introduce modifiche a leggi speciali (artt. 68-84) e il titolo VI contiene la disciplina transitoria, che è circoscritta però soltanto ad alcune materie.

 

 

1.1. Il rinvio dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022.

 

L’intero impianto normativo appena richiamato avrebbe dovuto entrare in vigore il 2 novembre 2022, ma, con decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, il Governo ha rinviato tale momento al 30 dicembre 2022 inserendo un nuovo art. 99-bis al d.lgs. n. 150 del 2022. La giustificazione addotta al fine di giustificare la «straordinaria necessità ed urgenza» del differimento è quella di «consentire una più razionale programmazione degli interventi organizzativi di supporto alla riforma». In effetti, nelle settimane successive all’approvazione del d.lgs. n. 150 si erano levate molte preoccupazioni da parte degli uffici giudiziari, che avevano segnalato difficoltà organizzative e incertezze circa l’immediata applicazione di alcune delle novità. In particolare, aveva destato diffusa apprensione l’assenza di una puntuale disciplina transitoria in relazione alle norme destinate a disciplinare in modo innovativo la fase delle indagini preliminari.

Ora, la via maestra per risolvere tali criticità sarebbe stata quella di intervenire urgentemente con puntuali norme transitorie, come richiesto d’altronde, tanto in una nota dell’Associazione Nazionale Magistrati, quanto in una lettera indirizzata da ventisei procuratori generali al Ministro della giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura.

Il Governo ha invece aver approfittato di queste sollecitazioni della magistratura per imboccare la strada della proroga dell’entrata in vigore dell’intera riforma.

Ebbene, si tratta di una scelta non condivisibile.

Per un verso, essa è destinata a determinare rinvii delle udienze in attesa della nuova data di entrata in vigore e conseguenti ritardi nella definizione dei processi. La manovra contiene infatti numerose previsioni favorevoli all’indagato o all’imputato – si pensi soltanto alle norme sulle pene sostitutive, oppure all’ampliamento degli effetti premiali dei riti consensuali – che indurranno ragionevolmente i difensori a chiedere dei rinvii finalizzati ad attendere l’operatività di tali istituti. Ed è altrettanto ragionevole prevedere che siffatti rinvii verranno concessi, per evitare delicati profili di legittimità costituzionale.

Per altro verso, siffatti rinvii finiranno per avere effetti assai negativi sul disposition time, che, come noto, viene calcolato dividendo il numero di cause pendenti a fine anno per il numero di quelle esaurite e moltiplicando la cifra così ottenuta per 365. Non serve essere dei raffinati matematici per capire che il rinvio potrà, non solo neutralizzare quella riduzione realizzata nel primo semestre del 2022 (meno 13%), ma anche ipotecare il primo semestre del 2023.

Da ultimo, vi è il sospetto che – almeno nelle intenzioni di alcuni – i due mesi di rinvio non servirebbero per consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi al meglio per far partire la riforma, ma sarebbero necessari al Governo per cambiarla. Magari eliminando alcune norme processuali innovative che non piacciono agli avvocati e ritoccandone altre non gradite alle procure. O forse intervenendo sulla parte più innovativa della riforma delle sanzioni sostitutive, in linea con la sensibilità della maggioranza uscita dalle urne che punta sulla centralità del carcere. Oppure limitando la giustizia riparativa, che viene vissuta da molti operatori come estranea alla nostra cultura giuridica.

In fondo, così era andata per la riforma delle intercettazioni, varata nel 2017 dal Ministro Orlando, poi rinviata al 2018, congelata dal Governo gialloverde appena insediato e infine completamente modificata.

Rispetto a quella vicenda vi è però una differenza sostanziale ed è il vincolo esterno del PNRR. Difficile pensare che la Commissione europea, che ha seguito passo dopo passo la riforma Cartabia, possa accettare modifiche sostanziali al testo varato solo poche settimane fa. L’auspicio è dunque che, in sede di conversione, ci si limiti a introdurre le disposizioni transitorie relative ad alcuni istituti processuali, lasciando gli eventuali correttivi all’esercizio del potere previsto dallo stesso art. 1, comma 4, della l. n. 134 del 2021, che contempla espressamente il potere di intervenire con disposizioni integrative e modificative entro due anni dall’entrata in vigore della riforma.

 

 

2. Il decreto sull’efficienza: le novità riguardanti il processo penale.

 

In questo primo contributo si vuole accompagnare l’operatore del diritto attraverso le modifiche processuali del decreto n. 150, ossia quelle introdotte dai titoli II e III. Si tratta senz’altro della parte più rilevante in termini quantitativi, per il numero di interventi che riguardano (come si è appena visto) tutti i libri del codice di rito; ma anche sotto il profilo qualitativo, si deve prender atto che la riforma processuale è certamente tra le più ampie e ambiziose dall’entrata in vigore del codice Vassalli.

Una riforma di sistema che realizza un “tagliando” del codice di procedura penale, adeguandolo a un panorama profondamente mutato, per conservarne le scelte assiologiche fondamentali. Alcuni commentatori hanno presentato la manovra come una fuga dalla funzione cognitiva in nome dell’efficientismo. È proprio il contrario: la riforma non intende affatto trasformare l’efficienza in un’ideologia, ma ha come obiettivo quello di creare le condizioni di sistema per riaffermare la centralità del contraddittorio scolpito nell’art. 111 Cost. È difficile negare che, solo garantendo la ragionevole durata, si può dare piena attuazione al metodo dialettico di ricostruzione del fatto. Lo ha ricordato recentemente la Corte costituzionale, secondo la quale la ragionevole durata costituisce «un connotato identitario della giustizia del processo»; laddove infatti il sistema giudiziario non è in grado di fornire «risposte di giustizia in tempi adeguati, [finisce] per pregiudicare la stessa effettività – per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l’intera collettività – di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa» (Corte cost. n. 74 del 2022).

In questo contesto, la riforma persegue tre obiettivi:

 

  • la modernizzazione del procedimento penale, attraverso la valorizzazione delle tecnologie al servizio del compimento di atti più efficaci e accurati;
  • la drastica riduzione della domanda di giustizia penale e il potenziamento delle forme di definizione alternative al dibattimento, attraverso il rafforzamento dei filtri, la nuova disciplina dell’assenza, l’estensione dei riti alternativi e l’introduzione di forme inedite di diversion;
  • la durata ragionevole del procedimento, a partire dalla fase delle indagini, sino ad arrivare alla riaffermazione del canone di concentrazione del dibattimento e alla riduzione dell’incidenza delle impugnazioni.

 

Vista la complessità dell’articolato, conviene analizzare le modifiche seguendo alcune linee tematiche e, almeno tendenzialmente, la disciplina dei libri del codice di procedura penale.

 

 

3. Il processo penale telematico.

 

Sull’onda dei processi di cambiamento digitale prodotti dalla pandemia da Covid-19, il d.lgs. n. 150 racchiude un nutrito gruppo di previsioni, volte a dare attuazione a uno dei maggiori punti di forza della l. n. 134 del 2021. Si allude ai criteri direttivi dell’art. 1, comma 5, della legge delega, che ha posto le premesse per una generale razionalizzazione della disciplina penale digitale, nel segno di un procedimento più moderno, in grado di sfruttare i significativi vantaggi in termini di efficienza garantiti dall’innovazione tecnologica.

 

 

3.1. L’atto processuale penale come documento informatico

 

Ad aprire il quadro delle novelle è l’art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150, il quale sostituisce interamente l’art. 110 c.p.p., dettando l’ingresso di una regola generale di assoluta novità per il processo penale. L’atto penale deve, tendenzialmente, nascere ed essere conservato in modalità digitale.

Più precisamente, in attuazione della prima parte dell’art. 1, comma 5, lett. a) della legge delega, l’art. 110, comma 1, c.p.p. prescrive che, ove sia stabilita la forma scritta, «gli atti del procedimento penale sono redatti e conservati in forma di documento informatico», in grado di garantire l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, quando indicato dalla legge, la segretezza. Rispetto a tale regola generale, viene fatta salva un’eccezione, con riferimento a quegli atti che, «per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere redatti in forma di documento informatico» (art. 110, comma 3, c.p.p.). In tale evenienza, è comunque imposta, «senza ritardo», la conversione dell’atto analogico in copia informatica da parte dell’ufficio che lo ha formato o ricevuto (art. 110, comma 4, c.p.p.).

Sul punto, val la pena riprendere due chiarimenti svolti dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 (Relazione illustrativa, pp. 186-188), che aiutano a comprendere due scelte effettuate nel confezionare tale disposizione.

Il primo rileva sul piano interpretativo dell’incipit del criterio di delega attuato e, in particolare, dell’espressione “possono” dallo stesso utilizzato. Quest’ultima locuzione è stata letta – secondo una visione sistematica – non quale intento di prevedere nel sistema processuale penale la mera facoltà della formazione digitale degli atti, ma come espressione della volontà di chiarire la piena legittimazione dell’impiego di tale forma. Da qui, dunque, la decisione di sancire con fermezza l’ingresso dell’atto nativo digitale, quale modalità obbligatoria di configurazione degli atti.

Il secondo chiarimento riguarda la scelta compiuta dal d.lgs. n. 150 di impiegare – discostandosi dalla l. n. 134 del 2021 che utilizza la locuzione “formato digitale” – le espressioni “documento informatico” e “documento analogico”, al fine di assicurare un allineamento con la terminologia già adottata dalla normativa vigente, ed evitare, in tale modo, eventuali dubbi ermeneutici.

Di pari passo con le modifiche apportate all’art. 110 c.p.p., l’art. 6, comma 1, lett. b) della novella interpola l’art. 111 c.p.p., allo scopo di adattare la sottoscrizione e la data degli atti alla nuova regola della formazione dei medesimi in modalità digitale. I primi due commi dell’articolo rimangono inalterati, con una sola aggiunta nel comma 1 delle parole «informatico o analogico» dopo quella di «atto», in chiara ottica di coordinamento con le novità apportate sul piano informatico. Il d.lgs. n. 150 inserisce, infine, ulteriori commi (commi 2-bis – 2-quater), specificamente tarati sulla sottoscrizione dell’atto. Per un verso, quanto all’atto redatto in forma di documento informatico, si stabilisce l’impiego della firma digitale o di altra firma elettronica qualificata, operando, per il resto, un rinvio alla normativa riguardante la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici (art. 111, comma 2-bis, c.p.p.). Per altro verso, rispetto alle residue ipotesi di atto analogico, la novella chiarisce che è sufficiente, laddove sia richiesta la sottoscrizione, la firma di propria mano, a meno che la legge non disponga diversamente (art. 111, comma 2-quater, c.p.p.).

Accanto alle previsioni sulla formazione degli atti nel nuovo paradigma digitale, si stagliano gli interventi protesi a regolarne la circolazione: depositi, comunicazioni, notificazioni.

 

 

3.2. Il deposito telematico.

 

Di portata certale è l’art. 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150, che, in ottemperanza all’art. 1, comma 5, lett. a), l. n. 134 del 2021, introduce una disposizione cardine nell’impalcatura del processo penale telematico, finalizzata a disciplinare il deposito telematico. Più nel dettaglio, viene inserito, dopo l’art. 111 c.p.p., un nuovo art. 111-bis c.p.p., il quale detta il regime di obbligatorietà ed esclusività del ricorso alle modalità telematiche per il deposito telematico di atti, memorie, richieste e documenti in ogni stato e grado del procedimento (art. 111-bis, comma 1, c.p.p.). Si prescrive altresì di garantire, in linea di continuità con la legge delega, «la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione, nonché l’identità del mittente e del destinatario» (art. 111-bis, comma 2, c.p.p.).

Alla regola dell’esclusività e dell’obbligatorietà del deposito telematico si danno peraltro due eccezioni.

La prima, in coerenza con quanto previsto dal novellato art. 110 c.p.p., viene in rilievo in presenza di atti e di documenti che, «per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica» (art. 111-bis, comma 3, c.p.p.). La relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 cita, in proposito, l’esempio del testamento olografo o delle fotografie aeree o satellitari, rispetto alle quali appare indispensabile il mantenimento della forma analogica (Relazione illustrativa, pp. 191-192).

La seconda deroga consentita attiene agli atti compiuti personalmente dalle parti. Ora, si tratta di un’eccezione che riprende quanto sancito in chiusura dell’art. 1, comma 5, lett. a), l. n. 134 del 2021 e che è da salutare con favore. In difetto della stessa, il rischio sarebbe stato quello di pregiudicare l’effettività dell’accesso alla giustizia e del diritto di difesa di quei soggetti, tra cui, soprattutto, l’imputato, privi di conoscenze tecnologiche. Nondimeno, il d.lgs. n. 150 non ha mostrato di accogliere l’invito a interpretare la delega in coerenza con il canone di ragionevolezza, in modo tale da estendere la portata dell’eccezione anche alla persona offesa. La novella ha, infatti, riprodotto fedelmente il criterio direttivo oggetto di attuazione, inclusa la terminologia di “parte”, la quale, a livello tecnico, parrebbe escludere l’offeso dal reato. Si stagliano, dunque, di riflesso tutti i problemi di non poco conto che da ciò possono derivare rispetto a quegli atti che l’offeso voglia compiere personalmente e non sia in grado di farlo per assenza di mezzi tecnologici o di alfabetizzazione informatica.

Completano la disciplina generale sul deposito telematico i chiarimenti contenuti nell’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150, deputati a integrare le disposizioni dell’art. 172 c.p.p. sui termini processuali. In particolare, da un lato, nell’ottica di favorire l’esercizio del diritto di difesa, viene previsto che il termine per il deposito di atti e documenti in un ufficio giudiziario con modalità telematiche si consideri rispettato, se l’accettazione da parte del sistema interviene entro le ore 24 dell’ultimo giorno utile (art. 172, comma 6-bis, c.p.p.). Dall’altro lato, l’intervento accoglie le sollecitazioni formulate dalla magistratura quanto all’esigenza di evitare che, nelle ipotesi in cui dal deposito si facciano decorrere termini per adempimenti da parte degli uffici giudiziari, «la loro decorrenza abbia inizio nei giorni festivi o (se si tratta di termini previsti ad horas) in orari di chiusura degli uffici» (Parere del CSM, approvato con delibera del 29 luglio 2021, in merito al d.d.l. AC 2435, di riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale, e agli emendamenti presentati dal Governo, p. 6, consultabile in questa Rivista, 5 agosto 2021). Il d.lgs. n. 150 introduce, infatti, un comma 6-ter nell’art. 172 c.p.p., a tenore del quale, laddove il deposito telematico avvenga fuori dall’orario dell’ufficio, i termini, salva diversa disposizione, «si computano dalla data della prima apertura immediatamente successiva dell’ufficio».

Sempre in materia di deposito telematico, un breve cenno, con la riserva di tornarci, meritano le modifiche apportate rispetto alla normativa sulle impugnazioni (cfr. infra, par. 14.1.). Nell’attuare l’art. 1, comma 13, lett. b), l. n. 134 del 2021, la novella, per un verso, provvede ad abrogare il comma 2 dell’art. 582 c.p.p. e l’art. 583 c.p.p. (art. 98) e, per altro verso, interpolando l’art. 582 c.p.p., ribadisce la regola generale dell’obbligatorietà del deposito telematico, fatta salva la facoltà per le parti private di continuare a valersi delle modalità tradizionali di presentazione degli atti di impugnazione, sulla scia dell’art. 111-bis, comma 4, c.p.p. (art. 33, comma 1, lett. e).

 

 

3.3. Notificazioni e comunicazioni telematiche

 

Alla svolta sul deposito telematico di tutti gli atti processuali penali si accompagnano le modifiche in tema di notificazioni e comunicazioni. Sospinto sempre dalla delega di cui all’art. 1, comma 5, lett. a), l. n. 134 del 2021, l’intervento mira a costruire un nuovo impianto normativo in materia, plasmato sulla regola generale secondo cui le notificazioni e comunicazioni vanno effettuate in via telematica.

Su queste basi, l’art. 10, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 sostituisce interamente l’art. 148 c.p.p. e identifica al primo comma le modalità telematiche quali mezzi ordinari cui la segreteria o la cancelleria devono avvalersi per procedere alle notifiche degli atti.

Merita segnalare l’esigenza, fissata dalla disposizione, di garantire, in conformità alla normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, «la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione» (art. 148, comma 1, c.p.p.). Si tratta di una prescrizione essenziale, la cui particolare importanza risulta testimoniata dal dettato dell’art. 10, comma 1, lett. aa), d.lgs. n. 150. Esso, in controtendenza rispetto alla scelta dell’intervento di non introdurre ulteriori ipotesi di invalidità connesse alle innovazioni tecnologiche, contempla un nuovo caso di nullità delle notificazioni nell’art. 171 c.p.p., agganciato proprio all’inosservanza dei requisiti di cui al novellato art. 148, comma 1, c.p.p.

Centrale è, peraltro, precisare che l’art. 148 c.p.p., ferma la priorità accordata alla modalità telematica di notificazione, non la configura, per la verità, come esclusiva, ma ammette forme sussidiarie di notifica corrispondenti a quelle tradizionali in ipotesi tassativamente previste. Ciò avviene laddove sia stabilito dalla legge, manchi il domicilio digitale del destinatario o sia inidoneo, sussistano impedimenti tecnici o, da ultimo, non si sia potuto procedere con le modalità di notifica sancite nei commi 2 e 3 della disposizione (art. 148, comma 4, c.p.p.). A quest’ultimo riguardo, ci si riferisce alla «lettura dei provvedimenti alle persone presenti o rappresentate dal difensore», agli «avvisi che sono dati dal giudice o dal pubblico ministero verbalmente agli interessati in loro presenza» (art. 148, comma 2, c.p.p.), nonché, infine, alla «consegna di copia in forma di documento analogico dell’atto all’interessato da parte della cancelleria o della segreteria» (art. 148, comma 3, c.p.p.).

Seguono al novellato art. 148 c.p.p. ulteriori modifiche apportate dal d.lgs. n. 150, che, da un lato, sono dettate dall’esigenza di allineare il quadro normativo al nuovo regime di notificazione telematica e, dall’altro lato, rispondono a precisi e ulteriori criteri direttivi stabiliti dalla l. n. 134 del 2021.

Sul primo versante si collocano, ad esempio, le abrogazioni degli artt. 150 e 151 c.p.p. (art. 98), nonché i ritocchi intervenuti sull’art. 154 c.p.p. Tra questi ultimi, merita citare l’interpolazione del comma 4, per effetto della quale il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, laddove non siano costituiti e non abbiano un domicilio digitale, sono tenuti, in alternativa alla dichiarazione o alla elezione di domicilio nel luogo in cui si procede, a indicare un indirizzo di posta certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato (art. 10, comma 1, lett. f). Ancora, degna di rilievo è la modifica dell’art. 167 c.p.p., disposizione di chiusura del sistema delle notificazioni e destinata a regolare le modalità di notifica valevoli nei confronti di tutti i soggetti non contemplati nelle previsioni precedenti. Ebbene, viene sancita la priorità da accordare alla forma telematica di notifica di cui all’art. 148, comma 1, c.p.p. (art. 10, comma 1, lett. t). Allo stesso modo, provvede il ritocco svolto sull’art. 64 disp. att. c.p.p., che informa la normativa sulle comunicazioni di atti da parte del giudice a un altro giudice, nonché a un pubblico ministero con sede diversa alla regola generale secondo cui esse devono essere eseguite tramite le modalità telematiche (art. 41, comma 1, lett. g).

Sul secondo versante, occorre ricordare gli interventi polarizzati sull’imputato. In merito, non sarà inutile porre in risalto la portata rivoluzionaria della scelta della novella per la natura telematica delle notificazioni. Essa non opera alcuna distinzione a livello soggettivo, di modo che viene fatto rientrare nell’alveo della riforma colui che finora era rimasto rigorosamente escluso, vale a dire il prevenuto. Ebbene, a riprova di ciò, l’art. 10, comma 1, lett. o), n. 2, d.lgs. n. 150, sulla falsariga dell’ultimo periodo dell’art. 1, comma 6, lett. a), l. n. 134 del 2021, modifica l’art. 161, comma 1, c.p.p., al fine di consentire all’indagato o all’imputato non detenuto o internato di indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o un altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Ancora, all’attuazione dell’art. 1, comma 15, lett. c), l. n. 134 del 2021 provvede il nuovo art. 153-bis c.p.p. (introdotto dall’art. 10, comma 1, lett. e), che, per quanto interessa in questa sede, sancisce, per un verso, l’obbligo in capo al querelante di dichiarare o eleggere domicilio nella querela, per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento e, per altro verso, la facoltà, a tale fine, di indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Ma, a ben vedere, non è tutto. Le innovazioni impresse dal d.lgs. n. 150 in punto di informatizzazione delle notificazioni si colgono anche nella scelta di valorizzare al massimo la portata dell’art. 1, comma 5, lett. a), l. n. 134 del 2021. Ci si riferisce al superamento del sistema unidirezionale di notifica telematica sinora operante, e, cioè, basato sulla possibilità di ricorso alle modalità telematiche di notificazione esclusivamente da parte dell’autorità giudiziaria, con esclusione delle notificazioni e comunicazioni eseguite dalle parti private verso la medesima o tra di loro. Significative, in proposito, appaiono le interpolazioni agli artt. 152 e 153 c.p.p. effettuate dall’art. 10, comma 1, lett. c) e d), della novella, ai quali si accompagna un nuovo art. 56-bis disp. att. c.p.p., specificamente volto a normare, dal punto di vista operativo, le notificazioni telematiche del difensore (art. 41, comma 1, lett. e). In particolare, in forza del novellato art. 152 c.p.p., si prevede che le notificazioni richieste dalle parti private possano essere sostituite, oltre che dal consueto invio di copia dell’atto mediante raccomandata con avviso di ricevimento, «dalla notificazione con modalità telematiche eseguita dal difensore a mezzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato». In secondo luogo, quanto alle notificazioni al pubblico ministero, l’art. 153, comma 1, c.p.p., per come modificato dal d.lgs. n. 150, rinvia, quale regola generale e prioritaria da rispettare, alle modalità telematiche di cui all’art. 148, comma 1, c.p.p., salva, nei casi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p., la consegna in segreteria, direttamente dalle parti o dai difensori, di copia dell’atto «in forma di documento analogico».

 

 

3.4. Il fascicolo informatico.

 

In tale cornice di profonde innovazioni, l’ulteriore pilastro del processo penale telematico disegnato dal d.lgs. n. 150 è contenuto nell’art. 6, comma 1, lett. c).

Subito dopo l’introduzione dell’art. 111-bis c.p.p. in materia di deposito telematico, si prevede l’innesto di un nuovo art. 111-ter nel codice di rito (rubricato «fascicolo informatico e accesso agli atti»). Più precisamente, l’art. 111-ter, comma 1, c.p.p. sancisce che «i fascicoli informatici del procedimento penale sono formati, conservati, aggiornati e trasmessi nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente il fascicolo informatico, in maniera da assicurarne l’autenticità, l’integrità, l’accessibilità, la leggibilità, l’interoperabilità nonché l’agevole consultazione telematica». In aggiunta, l’articolo dispone, in linea con quanto dettato dal nuovo art. 110 c.p.p., la conversione senza ritardo dei residuali atti e documenti analogici nella forma digitale, ferma, anche in tale evenienza, l’ipotesi in cui ciò non sia possibile «per loro natura o per specifiche esigenze processuali». Laddove si verifichi quest’ultima circostanza, il fascicolo informatico deve contenere un elenco di siffatti atti e documenti (art. 111-ter, comma 3, c.p.p.). Per concludere, il comma 4 dell’articolo, ispirandosi a un’esperienza di successo del processo civile telematico, prevede che le copie informatiche degli atti e dei documenti analogici si debbano considerare equivalenti agli originali, anche se mancanti della firma digitale di attestazione di conformità all’originale.

Nel complesso, dinanzi al nuovo art. 111-ter c.p.p., merita riprendere le puntualizzazioni della relazione illustrativa al decreto n. 150, secondo la quale siffatta novella sarebbe unicamente volta a normare le regole essenziali «di formazione, conservazione, gestione e trasmissione del fascicolo creato in modalità digitale», senza intaccare in alcun modo le disposizioni del codice di rito riguardanti i fascicoli della pubblica accusa o del giudice nelle diverse fasi processuali (Relazione illustrativa, p. 193).

Merita porre l’accento sul profilo della trasmissione del fascicolo, per la semplice ragione che potrebbe dare un contributo fondamentale a risolvere uno dei fattori decisivi dell’irragionevole durata del procedimento, ossia ridurre i cosiddetti “tempi di attraversamento” (dall’udienza preliminare al giudizio e, soprattutto, dal primo grado all’appello).

 

 

3.5. La valenza sussidiaria dell’analogico in caso di malfunzionamento dei sistemi informatici

 

Chiude l’ambiziosa riforma volta a modernizzare (finalmente) anche il procedimento penale una disposizione chiave, pensata per fronteggiare i problemi di malfunzionamento dei sistemi informatici, la cui imprescindibilità è stata bene messa in luce dall’esperienza derivante dalla disciplina emergenziale connessa al Covid-19.

In attuazione dell’art. 1, comma 5, lett. e), l. n. 134 del 2021, l’art. 11, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150 inserisce un nuovo art. 175-bis c.p.p. La norma, in linea con le precisazioni svolte dalla relazione illustrativa, contempla due ipotesi di malfunzionamento dei sistemi informatici (Relazione illustrativa, p. 195). La prima, di carattere generale, riguarda le disfunzioni dei domini del Ministero della giustizia, mentre la seconda, di tipo settoriale, attiene a quei malfunzionamenti che si possono verificare in un singolo ufficio o, comunque, a livello locale.

Alle due differenti fattispecie corrispondono normative parzialmente diversificate. In relazione al primo caso, si prevede che il malfunzionamento dei domini del Ministero della giustizia sia certificato «dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, attestato sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia e comunicato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, con modalità tali da assicurarne la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati» (art. 175-bis, comma 1, c.p.p.). Nell’ottica di garantire piena certezza intorno alla disfunzione tecnica, tutti questi adempimenti devono contenere l’indicazione della data, e, laddove risulti, dell’orario dell’inizio e della fine del problema (art. 175-bis, comma 2, c.p.p.). Quanto, invece, alla seconda fattispecie, riguardante il malfunzionamento non certificato dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, la disposizione di nuovo conio impone al dirigente dell’ufficio giudiziario di accertarlo, di attestarlo e di comunicarlo, anche in questa evenienza, con mezzi in grado di garantire la tempestiva conoscibilità della data e, ove emerga, dell’orario di inizio e di fine del medesimo (art. 175-bis, comma 4, c.p.p.).

In entrambi i casi, durante tutto il periodo di malfunzionamento dei sistemi informatici, la novella opta per superare la disfunzione, prevedendo il deposito con modalità non telematiche degli atti e dei documenti redatti, eccezionalmente, in forma di documento analogico (art. 175-bis, comma 3, c.p.p.). È, ad ogni modo, sancito, per effetto del rinvio operato dalla previsione di nuovo conio agli artt. 110, comma 4 e 111-ter, comma 4, c.p.p., l’obbligo in capo all’ufficio giudiziario di provvedere alla celere conversione degli atti nella forma digitale.

Per concludere, l’art. 175-bis, comma 5, c.p.p. regola l’ipotesi in cui il termine previsto a pena di decadenza sia intervenuto nel corso del periodo del malfunzionamento tecnico, senza che l’interessato lo abbia rispettato, pur potendo valersi della modalità di deposito non digitale. La novella specifica che «il pubblico ministero, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine quando provino di essersi trovati, per caso fortuito o forza maggiore, nell’impossibilità di redigere o depositare tempestivamente l’atto» con le modalità non telematiche. Viene richiamato, in proposito, l’art. 175 c.p.p. e, quindi, la disciplina sulla restituzione nel termine.

 

 

3.6. Modifiche consequenziali e disciplina transitoria

 

Rimangono, infine, da segnalare due ultime linee di intervento ravvisabili nel d.lgs. n. 150 sul terreno dell’informatizzazione della giustizia penale.

La prima, sulla scia di quanto già visto rispetto alle notificazioni, è accomunata da una serie di interpolazioni effettuate in diverse disposizioni del codice di procedura penale e delle disposizioni attuative dello stesso, nell’ottica di porle al passo rispetto ai nuovi principi adottati sul piano digitale. Tra tutte, merita citare la modifica dell’art. 122 c.p.p., al quale viene inserito un nuovo comma 2-bis, allo scopo di precisare le modalità di deposito telematico della procura speciale conformemente all’art. 111-bis c.p.p. (art. 6, comma 1, lett. e). Non mancano, per di più, i ritocchi alla legislazione speciale. L’art. 69 della novella interviene sull’art. 16 d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni in l. 17 dicembre 2012, n. 221, al fine di adeguare e allineare le previsioni ivi contenute alla nuova regola del ricorso alla modalità telematica, quale forma principale di esecuzione delle notifiche nel procedimento penale.  

La seconda linea di intervento assume una valenza cruciale nella prospettiva dell’effettiva riuscita del tentativo di portare finalmente (anche) la giustizia penale nel terzo millennio. L’imposizione di un adattamento immediato da parte degli uffici giudiziari a tutte le delineate novità avrebbe prodotto enormi difficoltà operative e organizzative, con il concreto pericolo di determinare, invece che un’accelerazione del processo penale, una paralisi delle attività in diverse realtà giudiziarie. Ben consapevole di ciò, il legislatore delegante ha previsto delle disposizioni in grado di garantire una necessaria transizione digitale, in linea con i tempi richiesti per consentire a tutti gli attori della giustizia di mettersi al passo con i mutamenti normativi.

Sulle orme delle indicazioni dell’art. 1, comma 5, lett. b), c), d), l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 dedica, quindi, l’art. 87 alle «disposizioni transitorie in materia di processo penale telematico».

Il principale strumento per assicurare tale transizione è individuato, conformemente alla legge delega, nella normativa secondaria, secondo diverse coordinate di azione.

È, anzitutto, demandato a un decreto del Ministro della giustizia, da emanarsi entro il 31 dicembre 2023, ai sensi dell’art. 17, comma 3, l. 23 agosto 1988, n. 400, l’individuazione, sentiti il CSM e il CNF, degli uffici giudiziari e delle tipologie di atti per cui sono consentite anche modalità non telematiche di deposito, comunicazione o notificazione, nonché le scansioni temporali verso il nuovo processo telematico: disposizione che, chiaramente, risponde alla necessità di modulare l’innovazione tecnologica alle differenze esistenti tra gli uffici giudiziari quanto al loro stato di avanzamento digitale (art. 87, comma 3).

Sempre a un decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi entro il 31 dicembre 2023, «sentito il Garante per la protezione dei dati personali» (quest’ultimo inciso è stato inserito in linea con quanto richiesto dal Garante privacy nel punto n. 2 del Parere sullo schema di decreto legislativo di attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134), si affida il compito di predisporre le previsioni tecniche concernenti i depositi, le comunicazioni e le notificazioni telematiche, assicurando, in ogni caso, la «conformità al principio di idoneità del mezzo e a quello della certezza del compimento dell’atto» (art. 87, comma 1). È previsto, altresì, di modificare, laddove necessario, il regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44 (art. 87, comma 1), nonché, eventualmente, di adottare ulteriori regole tecniche con atto dirigenziale del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia (art. 87, comma 2).

L’emanazione di tali regolamenti risulta essenziale per dettare le coordinate temporali di applicazione di gran parte delle modifiche apportate dalla novella sul processo penale telematico. È ad essi, infatti, che l’intervento guarda come spartiacque di operatività delle disposizioni ante e post riforma.

Più nel dettaglio, per un verso, l’art. 87, comma 4, d.lgs. n. 150 sancisce che, fino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione di tali regolamenti o fino al differente termine di transizione individuato dal primo decreto citato in questa sede, con riferimento agli uffici giudiziari o a determinate categorie di atti, continua a operare nel testo antecedente all’entrata in vigore della novella normativa, un elenco di previsioni oggetto di modifiche e interpolazioni (artt. 110, 111, comma 1, 116, comma 3-bis, 125, comma 5, 134, comma 2, 135, comma 2, 162, comma 1, 311, comma 3, 391-octies, comma 3, 419, comma 5, primo periodo, 447, comma 1, primo periodo, 461, comma 1, 462, comma 1, 582, comma 1, 585, comma 4, c.p.p., 154, commi 2, 3 e 4, disp. att. c.p.p.). Per altro verso, e in stretta correlazione con ciò, il comma 5 dell’art. 87 della novella identifica nello stesso indicatore temporale (quindici giorni successivi alla pubblicazione dei regolamenti o differente termine fissato dal regolamento di cui all’art. 87, comma 3, d.lgs. n. 150) il dies a quo a partire dal quale trovano applicazione alcune disposizioni di nuovo conio, introdotte dall’intervento in questione (artt. 111, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, 111-bis, 111-ter, 122, comma 2-bis, 172, commi 6-bis e 6-ter, 175-bis, 386, comma 1-ter, 483, comma 1-bis, 582, comma 1-bis, c.p.p.; rispetto all’art. 153-bis c.p.p., inoltre, non opera, sino a tale data, il deposito telematico previsto nei commi 2 e 3).

Da tutto ciò consegue, dunque, che le innovative disposizioni sulla formazione digitale degli atti (art. 110 c.p.p.), sul deposito telematico (art. 111-bis c.p.p.), sul fascicolo informatico (art. 111-ter c.p.p.), sui malfunzionamenti dei sistemi informatici (art. 175-bis c.p.p.) non saranno subito operative, ma possono contare su un opportuno e imprescindibile arco temporale per essere pronte a entrare in un contesto idoneo ad accoglierle.

Per concludere, non meno importante è rilevare il dettato dell’art. 87, comma 6, d.lgs. n. 150, il quale inserisce un riferimento alla disciplina emergenziale. La disposizione de qua statuisce che, fino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti o al diverso termine stabilito dal decreto ex art. 87, comma 3 della novella, continua ad applicarsi l’art. 24, commi 1-3, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, in l. 18 dicembre 2020, n. 176. Il rinvio a tali previsioni implica, pertanto, la persistenza dell’obbligo, in tale frangente temporale, di depositare memorie, documenti, richieste e istanze di cui all’art. 415-bis, comma 3, c.p.p., o gli ulteriori atti individuati da decreti del Ministro della giustizia, tramite il portale del processo penale telematico. Sino al medesimo termine continua, inoltre, a operare l’art. 164 disp. att. c.p.p.

 

 

4. L’innesto della giustizia riparativa nel processo di cognizione

 

Uno dei “fiori all’occhiello” dell’intero progetto riformatore è rappresentato senza dubbio dalla disciplina organica della giustizia riparativa, contenuta nel titolo IV del d.lgs. n. 150. Dando attuazione alle direttive fissate dall’art. 1, comma 18, l. n. 134 del 2021, il delegato ha posto anzitutto norme lato sensu procedurali (ossia volte a disciplinare gli istituti, i principi e gli obiettivi, nonché i programmi e le garanzie interne alla giustizia riparativa: capi I-III del titolo IV) e organizzative (dirette a regolare la formazione dei mediatori esperti e i servizi per la giustizia riparativa: capi IV e V del titolo IV).

In secondo luogo, il d.lgs. n. 150 contiene diverse disposizioni intese a regolare l’incidenza che l’esito riparativo può avere sul contenuto della decisione resa nel procedimento di cognizione – il riferimento è alle norme di natura sostanziale (inserite nel titolo I e nel titolo IV) – oppure in fase di esecuzione (con norme di diritto penitenziario, inserite nel titolo V).

In terzo luogo, la manovra pone una serie di norme dedicate a regolare l’innesto della giustizia riparativa sulla giustizia penale tradizionale. Si tratta di norme processuali (contenute nel titolo II e nello stesso titolo IV) volte a dare attuazione, per un verso, al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 18, lett. c) della l. n. 134 (secondo il quale il delegato avrebbe dovuto «prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della lettera a)») e, per altro verso, al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 18, lett. d) della l. n. 134 (in particolare sotto il profilo della completa, tempestiva ed effettiva informazione della vittima del reato e dell’autore del reato).

Su queste ultime previsioni strettamente processuali penali conviene soffermarci in questa sede, nella consapevolezza che esse troveranno applicazione nel momento in cui i centri per la giustizia riparativa previsti dal d.lgs. n. 150 del 2022 verranno istituiti. Sul punto, potrebbe forse intervenire in sede di conversione il Parlamento per inserire apposita norma transitoria al fine di chiarire ogni dubbio.

 

4.1. Le informazioni all’indagato, all’imputato, alla vittima e alla persona offesa.

 

Per quanto il programma di giustizia riparativa possa essere attivato anche prima dell’attivazione della giustizia tradizionale, ossia prima della proposizione della querela (art. 44, comma 3, d.lgs. n. 150), il procedimento penale rappresenta il luogo naturale in cui le parti del conflitto vanno informate della possibilità di iniziare un percorso di giustizia riparativa. Il decreto prevede molteplici norme volte a introdurre oneri informativi in capo all’autorità giudiziaria procedente.

Prendendo le mosse dalla persona sottoposta alle indagini, va detto che il d.lgs. n. 150 prevede che venga avvisata della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa con la letter of rights contemplata dall’art. 293, comma 1-bis e dall’art. 386, nonché con l’avviso di cui all’art. 415-bis e nel decreto di fissazione dell’udienza di cui all’art. 447 c.p.p. Va rilevato che, in quest’ultima ipotesi, sembra che l’informazione relativa alla giustizia riparativa rischi di sovrapporsi alla prospettiva negoziale, che ha carattere completamente diverso. Ad ogni modo, si può trattare pur sempre della prima occasione nella quale l’indagato viene a contatto con l’autorità giudiziaria.

Quanto all’imputato, un’informazione è prevista nel decreto penale di condanna (art. 460, comma 1, lett. h-bis) e, dopo la condanna, dall’ordine di esecuzione (artt. 656, comma 5 e 660, comma 3, c.p.p.). Con riferimento in particolare all’ordine di esecuzione delle pene pecuniarie, non si può non rilevare come suoni un po’ contraddittorio l’inserimento dell’informativa della possibilità di accedere alla giustizia riparativa in un atto che si sostanzia nell’ingiunzione a pagare.

Con riferimento al soggetto offeso dal reato, bisogna prendere atto che il legislatore ha giustamente sdoppiato gli avvisi, tenuto conto che, sulla base della definizione di vittima del reato fornita dall’art. 42 del d.lgs. n. 150 (e che riprende quella contenuta nella direttiva 2012/29/UE), vi può non essere coincidenza tra questa e la persona offesa dal reato. Il disallineamento è inevitabile e si è cercato di ridimensionarlo con la clausola generale di estensione dei diritti riconosciuti alla vittima al soggetto giuridico offeso dal reato dell’art. 42, comma 2, del decreto. Ad ogni modo, restano dei casi di non coincidenza e quindi coerentemente il Governo ha, per un verso, integrato l’elenco degli avvisi alla persona offesa dal reato di cui all’art. 90-bis c.p.p., con l’inserimento di una lettera p-bis), secondo la quale l’autorità deve informarla della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e, per altro verso, inserito un art. 90-bis.1, dedicato specificamente all’informazione alla vittima, come definita dall’art. 42, comma 1, lett. b) del decreto.

Va segnalato inoltre che, in forza del nuovo art. 90-bis, comma 1, lett. p-ter), l’autorità procedente è tenuta a fornire al querelante l’informazione in merito «al fatto che la partecipazione del querelante a un programma di giustizia riparativa, concluso con un esito riparativo e con il rispetto degli eventuali impegni comportamentali assunti da parte dell’imputato, comporta la remissione tacita di querela». Si tratta di una modifica consequenziale alla scelta effettuata dal delegato, il quale ha costruito un sistema basato su un’architettura bipartita.

Da un canto, per i reati perseguibili a querela soggetta a remissione, l’esito riparativo conduce all’estinzione del reato e quindi la giustizia riparativa si configura come potenzialmente alternativa a quella tradizionale. L’ordinamento presume infatti che il raggiungimento di un accordo riparativo (l’esito riparativo presuppone sempre un accordo ai sensi dell’art. 42, comma 1, lett. e) determini il venir meno della volontà di punizione da parte della vittima, ossia della volontà di attivare la giustizia contenziosa: avvenuta la riparazione, la spada va deposta definitivamente e l’istituto prescelto dal delegato per formalizzare l’estinzione del reato è stato giustamente la remissione tacita della querela di cui all’art. 152 c.p. La scelta di puntare sull’estinzione per condotte riparatorie di cui all’art. 162-ter c.p. avrebbe infatti finito per contaminare la giustizia riparativa con una logica patrimoniale (sottesa a quest’ultimo) che le è completamente estranea.

Dall’altro, per i reati perseguibili d’ufficio e per quelli per i quali la querela è irrevocabile, l’esito riparativo incide soltanto sul quantum di pena o sulla sospensione condizionale come si desume dall’art. 58 del d.lgs. n. 150 e dagli artt. 62, n. 6 e 163, u.c., c.p.: in questi casi è evidente che la giustizia riparativa si colloca in una posizione di complementarietà rispetto a quella contenziosa.

Infine, vi è una serie di avvisi che vanno dati, tanto all’indagato prima e imputato poi, quanto alla persona offesa: si allude all’informazione di garanzia (art. 369, comma 1-ter), all’avviso di fissazione dell’udienza a seguito della richiesta di archiviazione (art. 409), all’avviso di fissazione dell’udienza preliminare (art. 419, comma 3-bis), al decreto che dispone il giudizio (art. 429, comma 1, lett. d-bis) e al decreto di citazione diretta a giudizio (art. 552, comma 1, lett. h-bis). Fin qui, gli avvisi appaiono tutti plausibili anche se un po’ ripetitivi, soprattutto laddove le parti li abbiano già ricevuti nel corso delle indagini preliminari; quel che risulta invece discutibile è l’avviso contemplato dall’art. 408, comma 3, c.p.p. nel caso di richiesta di archiviazione. Nulla quaestio per la persona offesa dal reato, posto che non vi è dubbio che il programma potrebbe essere avviato anche in caso di archiviazione; assai più arduo da comprendere è l’avviso all’indagato, che, come noto, non è contemplato in caso di archiviazione. Ebbene, non sembra assolutamente ragionevole prevederlo, con un notevole aggravio per gli uffici visto il numero considerevole di archiviazioni, al solo scopo di informare il già indagato della possibilità di accedere al programma di giustizia riparativa. Sul punto, pare che il riferimento all’indagato sia frutto di una svista. 

 

 

4.2. L’autorizzazione dell’autorità giudiziaria quale condizione per l’accesso ai programmi di giustizia riparativa.

 

La norma cardine che regola l’apertura delle porte verso i programmi di giustizia riparativa durante il procedimento di cognizione è quella dell’art. 129-bis c.p.p. Il legislatore delegato aveva davanti due possibilità: da una parte, inserire una serie puntiforme di previsioni finalizzate a inserire, nelle singole fasi processuali, delle “passerelle” di collegamento con i centri per la giustizia riparativa; dall’altra, introdurre una norma generale finalizzata a porre una disciplina destinata ad applicarsi, come previsto chiaramente dal criterio di delega contenuto nell’art. 1, comma 18, lett. c) della l. n. 134, in ogni stato e grado del procedimento. Questa seconda è stata la scelta del Governo: in forza del primo comma dell’art. 129-bis, infatti, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dell’imputato e della vittima del reato al Centro per la giustizia riparativa di riferimento dalle indagini preliminari sino al giudizio di cassazione. Nel primo caso, procederà il pubblico ministero, per la semplice ragione che è il soggetto che conosce il fascicolo e può dunque effettuare la valutazione sulla sussistenza dei presupposti indicati nel terzo comma. Durante il processo, la competenza è invece del giudice che procede, il quale viene opportunamente specificato dal nuovo art. 45-ter disp. att. c.p.p.: a seguito dell’emissione del decreto di citazione diretta a giudizio sarà il giudice per le indagini preliminari fino a quando il decreto, unitamente al fascicolo, non è trasmesso al giudice a norma dell’articolo 553, comma 1, c.p.p.; dopo la pronuncia della sentenza e prima della trasmissione degli atti a norma dell’art. 590 c.p.p., provvede il giudice che ha emesso la sentenza; durante la pendenza del ricorso per cassazione, provvede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Una volta chiarito l’ambito di applicazione, va rimarcato che l’invio da parte dell’autorità giudiziaria si configura come un’autorizzazione indispensabile per l’avvio del programma: non si potrebbe infatti pensare che, pendente un procedimento penale, si possa instaurare un programma di giustizia riparativa destinato a incidere sull’esito del procedimento stesso senza una previa valutazione dell’autorità giudiziaria.

Questo sindacato sull’opportunità dell’invio può essere richiesto personalmente dall’imputato e dalla persona offesa (comma 2) oppure avviato d’ufficio dall’autorità giudiziaria, la quale disponga di informazioni provenienti dai servizi o da altre agenzie che le facciano ritenere utile formulare l’invito a rivolgersi a un centro per la giustizia riparativa. A dispetto dell’apparente perentorietà dell’invio, non si tratta infatti che di un’autorizzazione, posto che la vittima e l’imputato possono senza dubbio rifiutarsi di iniziare il programma: in attuazione di consolidati principi internazionali, il d.lgs. n. 150 chiarisce, per un verso, che il consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa si atteggia a canone fondamentale (art. 43, comma 1, lett. d) e, per altro verso, che esso è «personale, libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta», nonché «revocabile anche per fatti concludenti» (art. 48, comma 1). Per di più, in forza della clausola di chiusura generale dell’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 150, «la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa». Pertanto, le preoccupazioni avanzate da taluni commentatori di imputati costretti a sottoporsi a programmi di giustizia riparativa in violazione dei loro diritti appaiono del tutto prive di fondamento. Basta leggere l’art. 42, comma 1, lett. a) per rendersi conto di come il consenso sia consustanziale alla stessa definizione di giustizia riparativa: essa infatti coincide con «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».

La chiave di volta della disposizione dell’art. 129-bis c.p.p. sta nel comma 3, che definisce i presupposti per l’invio e il sub-procedimento.

Quanto ai primi, merita soffermarsi anzitutto sul presupposto positivo: si potrà invitare a iniziare un programma di giustizia riparativa solo laddove risulti che il suo svolgimento possa essere «utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede». Si tratta dell’attuazione puntuale del criterio (di cui all’art. 1, comma 18, lett. c) che richiedeva la positiva valutazione dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso. Ebbene, il delegato ha richiesto al giudice di compiere semplicemente una prognosi che tenga conto in termini astratti dei connotati (non del reato, ma) del fatto per cui si procede e delle caratteristiche dei soggetti potenzialmente coinvolti. La scelta di fondo è stata di non richiedere alcun accertamento del fatto: il giudice non deve verificare la sussistenza di gravi indizi di reato, né tanto meno di gravi indizi di colpevolezza, né deve compiere un sindacato sulla non applicazione del 129 c.p.p. Non si tratta qui di applicare all’indagato una misura restrittiva di una libertà (come accade per la sottoposizione a intercettazioni o a una misura cautelare), né una sanzione o un trattamento afflittivo (come nel caso di patteggiamento, procedimento per decreto o messa alla prova); la posta in gioco è quella di precostituire la cornice giuridica per una prospettiva di incontro tra il potenziale autore del reato e la potenziale vittima. Nulla di più e nulla di meno.

Non vi può essere alcun pregiudizio per il giudice che si limita a valutare, in astratto, utile l’inizio di un percorso dialogico dell’imputato e della vittima con il mediatore. Non può motivare l’inutilità valorizzando i precedenti penali dell’imputato; né può direttamente raccogliere il consenso, che andrà manifestato esclusivamente davanti al mediatore come risulta chiaramente dall’art. 48, comma 6, d.lgs. n. 150. Il consenso non è insomma tra i presupposti per l’invio, ma potrebbe rilevare indirettamente sotto il profilo dell’utilità del programma: se palesemente manca sarà difficile ritenere utile l’invio.

L’aver escluso l’accertamento del fatto e il riconoscimento dei fatti davanti all’autorità giudiziaria rappresenta una scelta consapevole e meditata del legislatore delegato. Il richiamo alle fonti internazionali contenuto nell’art. 1, comma 18, lett. a l. n. 134 avrebbe consentito un’opzione diversa, posto che il riconoscimento dei basic facts è previsto quale requisito di accesso ai percorsi di restorative justice ante iudicatum dalla Raccomandazione CM/Rec(2018)8 e dalla stessa direttiva 2012/29/UE.

Ma sarebbe stata una scelta, al contempo, foriera di dubbi di legittimità costituzionali e irragionevole sul piano concettuale.

Sul primo versante, avrebbe condotto a una violazione della presunzione di innocenza di cui all’art. 27, comma 2, Cost. e del diritto di difesa tutelato all’art. 24, comma 2, Cost., nella particolare estrinsecazione espressa dal nemo tenetur se detegere.

Sul secondo, sarebbe stata sbagliata perché il riconoscimento della responsabilità, nell’orizzonte della giustizia riparativa, è solo un punto di partenza da cui il mediatore inizia un percorso, secondo una logica e un linguaggio che è proprio della dimensione riparativa; non è invece un punto di arrivo, com’è nella giustizia contenziosa e, soprattutto, non si configura come vero e proprio accertamento della responsabilità penale, ma come un riconoscimento della dimensione conflittuale ed offensiva che vivono le parti. Insomma, nell’ambito della restorative justice il richiamo al concetto di “responsabilità”  deve essere riferito non tanto ad un’ammissione per un qualcosa che è stato compiuto nel passato (rectius, il fatto di reato), bensì ad un percorso (che, a sua volta, si fonda su un “progetto” condiviso) che conduce entrambe le parti del conflitto a rispondere l’una verso l’altra, nel solco di un’idea di “corresponsabilità” per quanto accaduto che, come tale, assurge a paradigma fondante l’intero sistema di giustizia riparativa (v. art. 43, comma 4, d.lgs. n. 150).

Il Governo non si è accontentato del presupposto positivo, ma ha delineato un presupposto negativo che ha un’importanza decisiva nell’economia del sistema. Invero, l’invio non può essere autorizzato quando lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Per un verso, il giudice dovrà escludere che il programma possa trasformarsi in un pericolo per i singoli; per altro verso, ed è questa la norma più significativa, non si può dar corso alla giustizia riparativa se questa potrebbe pregiudicare l’accertamento dei fatti. In quest’ottica, andrà escluso l’accesso alla giustizia riparativa quando la prova non sia stata ancora cristallizzata, ad esempio perché la vittima del reato è una fonte di prova dichiarativa decisiva, che rischierebbe di essere alterata proprio dal dialogo riparativo con l’imputato. Non sfuggirà come questa clausola generale sia pensata proprio per salvaguardare in modo esplicito quello che è un valore fondante la giustizia tradizionale, ossia la stessa funzione cognitiva del procedimento penale, desumibile da plurime norme costituzionali (artt. 25, 27, comma 2, 111, 112 Cost.).

Per quanto riguarda il sub-procedimento, il giudice dispone l’invio con ordinanza motivata sentite le parti e, laddove lo ritenga necessario, la vittima. Con riguardo all’oggetto del contraddittorio, è evidente che riguarda la sussistenza dei presupposti per l’invio; sotto il profilo soggettivo, invece, va rilevato che il contraddittorio è giustamente esteso anche al pubblico ministero, che dovrà interloquire soprattutto sulla condizione negativa, ossia relativamente al pericolo dell’instaurazione di uno spazio riparativo in pendenza di un procedimento penale, mentre difficilmente potrà dire qualcosa sull’utilità del programma.  

Durante le indagini, come si è ricordato, si è previsto che proceda il pubblico ministero per una ragione di ordine pratico, ossia perché è l’unico a disporre del fascicolo e a poter attivarsi d’ufficio; dopo l’esercizio dell’azione penale, la competenza funzionale viene invece affidata al giudice procedente, ossia a quello che dispone del fascicolo.

 

 

4.3. Gli effetti del programma di giustizia riparativa sul procedimento penale.

 

A questo punto, una volta autorizzato l’invio, la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima – ossia i partecipanti – potranno recarsi al Centro per la giustizia riparativa dove riceveranno le informazioni da parte dei mediatori in una lingua comprensibile e in modo adeguato all’età e alle capacità degli stessi (art. 47, commi 3 e 5, d.lgs. n. 150) e lì esprimeranno, alla presenza eventuale dei loro difensori (art. 48, comma 6, d.lgs. n. 150), il consenso a iniziare un programma di giustizia riparativa.

Ebbene, gli effetti sul procedimento penale contenzioso dell’inizio di un programma di giustizia riparativa dipendono naturalmente dalla tipologia del reato per cui si procede.

Laddove in caso di esito positivo si può avere l’estinzione del reato è ragionevole che il processo venga sospeso perché la giustizia riparativa assume potenzialmente una funzione deflativa. Proprio per questo il quarto comma dell’art. 129-bis stabilisce che, «nel caso di reati perseguibili a querela soggetta a remissione e in seguito all’emissione dell’avviso di cui all’articolo 415-bis, il giudice, a richiesta dell’imputato, può disporre con ordinanza la sospensione del procedimento o del processo per lo svolgimento del programma di giustizia riparativa per un periodo non superiore a centottanta giorni. Si osservano le disposizioni dell’articolo 159, primo comma, numero 3), primo periodo, del codice penale, e dell’articolo 344-bis, commi 6 e 8, nonché, in quanto compatibili, dell’articolo 304».

Al termine delle indagini può attivarsi un meccanismo sospensivo solo su istanza dell’imputato: per evitare utilizzi strumentali, si prevede che la richiesta determina la sospensione della prescrizione ai sensi dell’art. 159, comma 1, n. 3; con riguardo invece alla sospensione dei termini di durata delle misure, la formulazione non è felicissima e sarebbe stato meglio prevedere un intervento sulla norma dell’art. 304 c.p.p. che lo renda applicabile anche in fase di indagini. Ad ogni modo, la ratio del richiamo è che, in caso di indagato in misura cautelare, i termini massimi rimangano sospesi.

Per tutti gli altri reati, in relazione ai quali la giustizia riparativa si configura come complementare e parallela al processo contenzioso, non si è previsto alcun meccanismo sospensivo: è ben vero che l’art. 43, comma 1, lett. h) d.lgs. n. 150 riconosce tra i principi fondamentali della giustizia riparativa la garanzia del tempo necessario allo svolgimento di ciascun programma, ma l’introduzione di istituti sospensivi avrebbe creato un problema rispetto al canone della ragionevole durata e rispetto alle stesse finalità perseguite dalla legge delega (ossia alla riduzione dei tempi dei procedimenti giudiziari). Ciò non significa che, nel caso concreto, non si possano comunque utilizzare istituti di carattere generale per consentire di portare a termine un programma di giustizia riparativa in modo da tenerne conto in sede giudiziale: nel caso in cui il programma si stia concludendo in prossimità della chiusura del dibattimento, l’imputato potrà chiedere un rinvio per consentire al giudice di prendere in considerazione l’esito riparativo in sede di commisurazione della pena.

Al termine del programma, in caso di esito positivo, il mediatore trasmette all’autorità giudiziaria una relazione contenente la descrizione delle attività svolte e dell’esito riparativo raggiunto (art. 57 d.lgs. n. 150). L’art. 129-bis, comma 5, c.p.p. si limita a stabilire – sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 464-septies – che l’autorità giudiziaria acquisisce la relazione, senza precisarne la natura. Una via avrebbe potuto essere quella di intervenire sull’art. 236 c.p.p., ma, a ben considerare, la relazione del mediatore è qualcosa di più e di diverso rispetto a un documento relativo alla personalità: involge infatti la relazione tra la persona indicata come autore e la vittima del reato e certifica un accordo riparativo.

 

4.4. La tutela dell’impermeabilità del processo.

 

La relazione del mediatore è l’unico ed esclusivo veicolo di conoscenza che il giudice ha rispetto a quello che è avvenuto nello spazio riparativo: uno spazio la cui confidenzialità viene protetta in modo rigoroso dal decreto. Vengono erette diverse barriere per assicurare, per un verso, la buona riuscita del dialogo riparativo e, per altro verso, l’impermeabilità del processo tradizionale rispetto a quanto avviene nella sfera della giustizia accogliente.

Per un verso, si segnalano gli ostacoli di natura soggettiva. I difensori dei soggetti interessati si fermano infatti sulla soglia del Centro: hanno la facoltà di partecipare ai soli colloqui preliminari (art. 54, comma 2) e alla definizione degli accordi relativi all’esito materiale (art. 56, comma 5), mentre sono esclusi dal nucleo centrale del programma. L’incontro deve avvenire tra le parti del conflitto con la parola e l’ascolto, senza l’interposizione della forma giuridica e l’intermediazione delle sue vestali, che finirebbero per alterare il dialogo riparativo.

Per altro verso, vanno rimarcate le barriere di natura oggettiva poste a presidio dello spazio riparativo. Tra i principi fondamentali scolpiti nell’art. 43, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 150 viene indicata la riservatezza sulle dichiarazioni e sulle attività svolte nel corso dei programmi di giustizia: e questo canone viene poi sviluppato nella sezione II del capo II, con tre norme cardine.

L’art. 50 sancisce il dovere di riservatezza dei mediatori e del personale dei Centri per la giustizia riparativa rispetto alle attività e agli atti compiuti, alle dichiarazioni rese dai partecipanti e alle informazioni acquisite per ragione o nel corso dei programmi di giustizia riparativa. In linea con quanto previsto dalla legge delega, vengono individuate tre deroghe: il consenso dei partecipanti alla rivelazione; l’assoluta necessarietà della rivelazione per evitare la commissione di imminenti o gravi reati; l’ipotesi in cui le dichiarazioni compiute integrino di per sé reato.

L’art. 51 prevede espressamente l’inutilizzabilità nel procedimento penale delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso del programma. Le uniche deroghe sono quella relativa ai contenuti della relazione e quella coincidente con i casi previsti dall’art. 50, comma 1.

Infine, l’art. 52 tutela il segreto del mediatore, stabilendo che questi non può essere obbligato a deporre davanti all’autorità giudiziaria né a rendere dichiarazioni davanti ad altra autorità sugli atti compiuti, sui contenuti dell’attività svolta, nonché sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni apprese per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione o il mediatore ritenga questa assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato. Lo scudo si estende, sul modello dell’art. 103 c.p.p., al sequestro e all’intercettazione e il limite viene presidiato con una previsione di inutilizzabilità speciale (commi 3 e 4), mentre non viene curiosamente allargato all’ispezione e alla perquisizione. Infine, il comma 5 stabilisce che il mediatore non ha obblighi di denuncia in relazione ai reati dei quali abbia avuto notizia per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa, salve le tre deroghe.

 

5. La partecipazione a distanza.

 

La l. n. 134 del 2021 delegava il governo a «individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza» (art. 1, comma 8, lett. c). Molto opportunamente, il delegato non si è limitato a integrare le ipotesi di intervento da remoto, ma ha inserito una disciplina generale della partecipazione a distanza nel nuovo titolo II-bis nel libro II del codice di procedura penale. Se prima dell’emergenza pandemica, la remote justice aveva carattere residuale ed eccezionale – tanto che la relativa regolamentazione era relegata, e per certi versi, nascosta nelle disposizioni di attuazione –, a seguito della disciplina introdotta nel periodo pandemico e grazie al progresso tecnologico, essa è destinata ad avere un’incidenza crescente. Preso atto di un tanto, la Commissione Lattanzi aveva auspicato di non disperdere l’esperienza emergenziale, che, al di là delle polemiche e delle resistenze, si era dimostrata positiva, sia per assicurare maggiore efficienza e rapidità al procedimento penale, ma anche al fine di incrementare i diritti della difesa.

Ebbene, prima di estendere la portata della partecipazione a distanza, il d.lgs. n. 150 prevede – sulla scorta del potere attribuito al delegato dall’art. 1, comma 3, l. n. 134 del 2021 – una serie di garanzie nell’art. 133-ter, le quali sono destinate ad avere portata generale: la norma di apertura del nuovo titolo prevede infatti che esse si estendano a tutte le ipotesi di remote justice, sia quelle innovative introdotte dalla manovra nel codice, sia quelle già previste dalle disposizioni di attuazione, salvo che sia diversamente stabilito (art. 133-bis c.p.p.). Insomma, il messaggio è chiaro: tale modalità di partecipazione può trovare cittadinanza nell’ordinamento solo a condizione che siano rispettati i diritti fondamentali delle parti e il canone del contraddittorio

Le garanzie meritoriamente fissate nel nuovo art. 133-ter c.p.p. sono riprese in parte dall’art. 146-bis disp. att. – che viene contestualmente abrogato nei commi 2, 3, 4, 5 e 6 – e in parte dall’art. 23, comma 5 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modificazioni dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176. Non vanno sottaciute, però, diverse novità assai significative, in ottica di tutela dell’effettiva partecipazione.

Degna di nota la disposizione del comma 3 che prescrive – sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e convenzionale – che il collegamento audiovisivo deve essere attuato con modalità «idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti all’atto o all’udienza»; peraltro, la previsione è opportunamente presidiata dalla sanzione della nullità. Altra previsione assai significativa, di cui non vi era traccia nella disciplina emergenziale – in quanto, in quel caso, veniva prevista l’udienza a porte chiuse – è quella relativa alla necessità di assicurare un’adeguata pubblicità degli atti compiuti a distanza (comma 3, ultima parte). Sotto il profilo della documentazione, si stabilisce che dell’atto o dell’udienza a distanza sia sempre disposta la registrazione audiovisiva. Peraltro, sempre al fine di rafforzare i presidi di garanzia, il comma 8 introduce una norma di grande rilievo che impone la presenza di un ausiliario del giudice e del pubblico ministero o un ufficiale di polizia giudiziaria (individuato in via prioritaria tra il personale in servizio presso le sezioni di polizia giudiziaria), il quale, non solo attesta l’identità delle persone, ma, nel redigere il verbale, deve dar atto delle cautele adottate per assicurare la regolarità dell’esame e dell’assenza di impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti all’interessato.

Viene inoltre riconosciuto un diritto di informazione dei soggetti interessati, posto che il decreto che dispone la partecipazione a distanza va notificato almeno tre giorni prima del compimento dell’atto.

Ultimo profilo interessante è la definizione dei luoghi del collegamento, che variano a seconda del soggetto e dello status: i soggetti liberi si collegheranno da un ufficio giudiziario o di polizia giudiziaria individuato dall’autorità giudiziaria; le persone, che si trovino a qualsiasi titolo ristrette nella libertà personale, si connetteranno dal luogo di detenzione, mentre i difensori si collegheranno dallo studio o da altro luogo – magari lo studio di un collega – purché idoneo (sia in termini di riservatezza che di decoro). Ad ogni modo, è prevista una clausola di chiusura (comma 6), in forza della quale l’autorità giudiziaria potrà consentire il collegamento da un luogo diverso, previo contraddittorio con le parti. Non sembra consentito invece la celebrazione di udienze da remoto, con la partecipazione a distanza anche del giudice e del pubblico ministero: questi dovrebbero essere sempre nell’aula di udienza. Da questo punto di vista, il legislatore delegato avrebbe potuto osare di più in termini di smaterializzazione, contemplando la possibilità di celebrare integralmente atti da remoto, ma ha ritenuto che la legge delega non lo consentisse (v. Relazione illustrativa, p. 214).

Con riguardo alle ipotesi di partecipazione a distanza, il d.lgs. n. 150 la prevede espressamente in diversi casi:

  • per l’udienza in camera di consiglio, se «l’interessato richiede di essere sentito ed è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice»: oltre che nei casi previsti dagli artt. 45-bis e 146-bis disp. att., quando l’interessato vi consente (art. 7, comma 1, lett. b);
  • all’interrogatorio di garanzia (art. 294, comma 4), su autorizzazione del giudice, previa richiesta dell’interessato o del difensore (art. 13, comma 1, lett. b), nn. 1 e 2);
  • nel giudizio di riesame di cui all’art. 309 c.p.p., sempre su disposizione del presidente e previo consenso dell’imputato (art. 13, comma 1, lett. g);
  • per le sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini di cui all’art. 350, comma 4-bis, c.p.p. su richiesta della polizia giudiziaria e previa autorizzazione del pubblico ministero, che può essere rilasciata solo quando l’indagato e il difensore vi consentono (art. 17, comma 1, lett. b), il quale precisa, forse inutilmente, che in tal caso «si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 133-ter»);
  • al conferimento dell’incarico e agli accertamenti tecnici non ripetibili (l’art. 18, comma 1, lett. a) prevede l’inserimento di un comma 3-bis nell’art. 360 c.p.p.), sempre su autorizzazione del pubblico ministero, previa richiesta della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa dal reato, dei difensori e dei consulenti tecnici;
  • all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini da parte del pubblico ministero (anche se delegato alla polizia giudiziaria), quando l’indagato e il difensore vi consentono (art. 18, comma 1, lett. d), che modifica l’art. 370 c.p.p., prevedendo un nuovo comma 1-bis, e specificando, anche qui inutilmente, che si applicano le garanzie dell’art. 133-ter c.p.p.);
  • all’udienza di convalida, quando l’arrestato, il fermato o il difensore ne facciano richiesta (art. 19, comma 1, lett. b), che interviene sull’art. 391, comma 1, c.p.p.);
  • all’assunzione di prove in udienza preliminare, sia quando una particolare disposizione di legge lo prevede, sia quando le parti vi consentono (art. 23, comma 1, lett. h);
  • all’assunzione delle prove dichiarative in dibattimento (esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate nell’articolo 210 e delle parti private), sulla scorta del nuovo art. 496, comma 2-bis, c.p.p., purché vi sia il consenso delle parti, salvi i casi in cui la legge non preveda altrimenti (si pensi agli art. 146-bis e 147-bis disp. att.);
  • nel procedimento di esecuzione di cui all’art. 660 c.p.p., quando una particolare disposizione di legge lo prevede o quando l’interessato vi consente (art. 39, comma 1, lett. a);
  • nell’interrogatorio dell’interessato da parte del procuratore generale nell’ambito del procedimento di estradizione (art. 40, comma 1, lett. a), che modifica l’art. 703, comma 2, c.p.p.);
  • all’audizione dell’interessato sottoposto a misura cautelare nell’ambito del procedimento di estradizione (art. 40, comma 1, lett. b), che modifica l’art. 717, comma 2, c.p.p.).

 

Per quel che concerne la definizione dei casi e dei requisiti della partecipazione a distanza, va detto che il criterio di delega di cui all’art. 1, comma 8, lett. c) della l. n. 134 avrebbe consentito di realizzare una manovra più ambiziosa. A ben considerare, infatti, la formulazione della disposizione era ambigua e si prestava a tre possibili letture. Un’interpretazione letterale, che faceva leva sul riferimento generico alla partecipazione a distanza a qualsiasi «atto del procedimento» o a qualsivoglia «udienza»: secondo tale approccio ermeneutico, ogni ipotesi di partecipazione a distanza, sia che fosse già prevista dalla normativa previgente sia che venisse introdotta ex novo, avrebbe dovuto comunque reggersi sul consenso delle parti. Un’interpretazione quasi capovolta, secondo la quale tutti i casi di partecipazione a distanza già previsti avrebbero dovuto essere mantenuti; il delegato avrebbe dovuto soltanto aggiungerne di nuovi, subordinandoli al consenso delle parti. Infine, un’interpretazione mediana, secondo la quale il delegato sarebbe stato chiamato a rivalutare tutti i casi di partecipazione a distanza, individuando quelli da subordinare al consenso delle parti.

Pare che quest’ultimo approccio ermeneutico avrebbe consentito di intervenire anche sulle ipotesi già previste dalle disposizioni di attuazione, le quali avrebbero potuto essere ricollocate nel titolo II-bis, escludendo il consenso per tutte le ipotesi nelle quali sussiste un’esigenza specifica di tutela del dichiarante che non può essere altrimenti soddisfatta e inserendolo invece nelle fattispecie che sono connotate da un’eccessiva vaghezza dei presupposti o da un sacrificio irragionevole del principio di immediatezza.

Il d.lgs. n. 150 ha invece lasciato invariate le disposizioni di attuazione, anche laddove la deroga all’immediatezza appaia fondata su presupposti di dubbia ragionevolezza: si pensi all’esame del testimone che si trova in stato di detenzione (caso oggi previsto dall’art. 146-bis, comma 1-quater, ultima parte, disp. att.), oppure quando vi siano gravi difficoltà ad assicurare la comparizione della persona da esaminare e quando si tratti di nuova assunzione a norma dell’art. 495, comma 1 (ipotesi contemplate dall’art. 147-bis, comma 5, disp. att.).  

Rispetto alle nuove ipotesi, l’unica che desta qualche riserva è quella relativa all’assunzione delle prove dichiarative: in effetti, sembra che il legislatore delegato si sia spinto al di là dell’equilibrio raggiunto durante la pandemia, quando si era esclusa la possibilità di un’escussione a distanza dei dichiaranti. Ad ogni modo, resta ferma la possibilità per l’imputato o le altre parti di negare il consenso all’assunzione a distanza.

 

 

6. Nuove forme di documentazione degli atti tra riproduzione audiovisiva e fonografica

 

Pure sul versante della documentazione degli atti, la legge delega aveva invitato il Governo a puntare sulla tecnologia: in fondo, a seguito della diffusione degli smartphone, nella vita quotidiana la verbalizzazione dell’esperienza è sempre più spesso affidata alla registrazione audio o video e sempre meno alla scrittura. La disciplina del codice di procedura penale andava allora adeguata alla rivoluzione copernicana alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni. Si badi, non tanto per ragioni di speditezza, quanto per assicurare una rappresentazione più accurata dell’atto di quel che avviene con la scrittura. Con un duplice obiettivo: per un verso, quello di garantire il controllo sul rispetto dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nell’atto (soprattutto laddove si tratti di atti compiuti durante le indagini e di interrogatori fuori udienza); per altro verso, quello di consentire di ri-ascoltare o di ri-vedere proprio quell’atto processuale in tutti i casi nei quali non sia possibile una ripetizione (ciò che rileva sia per gli atti di indagine, sia per gli atti istruttori compiuti in incidente probatorio o in dibattimento).

Ebbene, il d.lgs. n. 150 ha preso le mosse da un opportuno adeguamento della norma generale dell’art. 134 c.p.p. e ha previsto la riproduzione audiovisiva e fonografica come modalità generale di documentazione, che è destinata ad affiancare il verbale (l’art. 1, comma 8, lett. a) parlava di «forma ulteriore di documentazione»), nei casi previsti dalla legge (comma 1) e «quando il verbale è redatto in forma riassuntiva o quando la redazione in forma integrale è ritenuta insufficiente» (comma 3).

Per quel che concerne gli interrogatori, il legislatore interviene giustamente su quello che è il più delicato, ossia l’interrogatorio di garanzia dell’indagato in vinculis: la modifica del dettato dell’art. 141-bis c.p.p. è volta proprio a superare l’attuale equivalenza tra audio e videoregistrazione per chiarire la necessità di un impiego in via prioritaria della forma più garantita. Altra novità significativa è quella relativa all’interrogatorio di garanzia dell’indagato nei cui confronti non sia applicata una misura custodiale: sulla base del nuovo comma 6-bis dell’art. 294 c.p.p., esso andrà documentato «con mezzi di riproduzione audiovisiva o, se ciò non è possibile a causa della contingente indisponibilità di mezzi di riproduzione audiovisiva o di personale tecnico, con mezzi di riproduzione fonografica». Analoga disciplina è prevista per gli interrogatori del pubblico ministero sulla base del nuovo art. 373, comma 2-bis, c.p.p.

Con riguardo invece alla documentazione dell’assunzione di informazioni dai potenziali testimoni, il d.lgs. n. 150, pur introducendo una distinzione terminologicamente più netta tra le sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria e le informazioni rese al pubblico ministero (al fine di evitare ogni fraintendimento nell’art. 373, comma 1, lett. d), si elimina l’aggettivo “sommarie” dalle informazioni acquisite ai sensi dell’art. 362), contempla una disciplina comune, che prevede:

  • la registrazione fonografica quando si procede per taluno dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., oppure quando la persona chiamata a rendere informazioni ne faccia richiesta (artt. 357, comma 3-bis e 373, comma 2-ter), previa informazione alla stessa (artt. 351, comma 1-quater e 362, comma 1-quater);
  • la riproduzione audiovisiva o fonografica, a pena di inutilizzabilità, quando si tratta di dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente o in condizioni di particolare vulnerabilità, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto (artt. 357, comma 3-ter e 373, comma 2-quater);
  • la trascrizione va (opportunamente) effettuata solo ove essa risulti assolutamente indispensabile, onde evitare inutili aggravi (artt. 357, comma 3-quater e 373, comma 2-quinquies).

 

Poiché vi è un interesse oggettivo alla genuinità della documentazione dell’atto, non si possono condividere, né la scelta di delimitare l’obbligo in relazione a una serie soltanto di reati (è del tutto evidente che l’interesse alla fedeltà della documentazione non ha alcun nesso con la gravità del reato), né quella di attribuire rilievo alla volontà della persona informata sui fatti (non appare ragionevole far dipendere la forma di documentazione di un atto dalla scelta di un soggetto che, peraltro, nel procedimento penale potrebbe non aver alcun interesse), né, infine, quella di far salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione (non pare francamente che, dati i costi e la disponibilità delle tecnologie nella società dell’informazione, possa essere un limite accettabile nell’ambito del procedimento penale). Per di più, l’assenza di una sanzione – salvo quanto previsto, assai opportunamente, per il dichiarante fragile, pur sempre entro il discutibile limite della disponibilità delle tecnologie – rischia di depotenziare la previsione, la quale potrebbe avere un effetto comunque dirompente sugli atti di indagine e anche sugli equilibri tra questi e l’assunzione dibattimentale della prova.

Pare infatti che la registrazione (audio o video) potrà essere utilizzata per le “letture”, che non saranno più tali in senso stretto: considerata la valenza documentale di video e audioregistrazione non si potrà escludere che siano utilizzabili insieme ai verbali, al di là del tenore dell’art. 500, comma 2, c.p.p., che parla di dichiarazioni “lette” per la contestazione o degli artt. 511 ss., nella cui rubrica ci si riferisce alle “letture”. Per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco o dubbio forse avrebbe avuto senso adeguare la disciplina degli artt. 500 ss. e contemplare espressamente la possibilità di un ascolto dell’audioregistrazione o di una riproduzione del video.

Naturalmente, un discorso analogo vale anche per la documentazione delle dichiarazioni rese al difensore in sede di indagini difensive, la cui disciplina è stata opportunamente modificata dal d.lgs. n. 150, in linea con quanto appena visto sul versante delle sommarie informazioni rese alla p.g. e delle informazioni rese al p.m. (vedi art. 391-ter, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater).

Per quel che riguarda invece la documentazione dell’attività istruttoria, la previsione chiave è quella del nuovo art. 510, comma 2-bis, c.p.p., secondo il quale «l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva». Essa è prevista, sia per l’assunzione della prova dichiarativa in incidente probatorio (art. 401, comma 5) e per l’integrazione probatoria nell’ambito del giudizio abbreviato (art. 441, comma 6).

Con riguardo unicamente a tale previsione, va segnalato che l’art. 94 ne prevede l’entrata in vigore solo dopo un anno: nel frattempo, si potrebbe creare un problema di applicabilità dell’art. 495, comma 4-bis, c.p.p., destinato a escludere la riassunzione delle prove dichiarative in caso di cambiamento del giudice, solo laddove vi sia una documentazione audiovisiva. Quest’ultima norma dovrebbe far superare l’orientamento espresso sancito dalle Sezioni Unite Bajrami del 2019. L’auspicio è dunque che nei contratti d’appalto stipulati per la documentazione delle attività dibattimentali si inserisca subito anche la riproduzione audiovisiva.

 

 

7. La rinnovata disciplina delle notificazioni

 

La normativa sulle notificazioni risulta ampiamente ridisegnata dal d.lgs. n. 150, secondo due essenziali direttrici di fondo, rispondenti ai criteri della l. n. 134 del 2021.

La prima si incanala nel quadro più vasto riguardante il processo penale telematico, nell’alveo, cioè, degli interventi già sopra analizzati, riflesso dell’art. 1, comma 5, lett. a), l. n. 134 del 2021. In tale cornice si inserisce, oltretutto, la modifica dell’art. 161, comma 1, c.p.p., che, al fine di garantire il raccordo con le novità delle notificazioni a livello telematico, introduce la facoltà per il prevenuto di indicare un indirizzo PEC o un altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato (v., supra, par. 3.3.). Va, d’altra parte, precisato che tale disposizione di nuovo conio deve essere tenuta distinta da un’ulteriore interpolazione effettuata dal d.lgs. n. 150 all’art. 349 c.p.p., sempre nell’ottica di dare attuazione all’art. 1, comma 6, lett. a), questa volta, però, nel suo esordio. L’art. 17, comma 1, lett. a) aggiunge, in particolare, nel comma 3 dell’art. 349 l’obbligo in capo alla persona sottoposta alle indagini di «indicare i recapiti telefonici o gli indirizzi di posta elettronica nella sua disponibilità». Ebbene, si tratta di un dovere differente dalla facoltà appena delineata di eleggere domicilio presso un idoneo recapito telematico, posto che sarebbe meramente «utile per il rintraccio dell’indagato/imputato, per comunicazioni di cortesia o per le interlocuzioni con il difensore» (così, Relazione illustrativa, p. 224).

Il secondo filo conduttore, che percorre il decreto legislativo in materia, concerne una complessiva riscrittura del sistema di notifiche all’imputato, in attuazione dell’art. 1, comma 6, lett. b) e ss., l. n. 134 del 2021. Più precisamente, la regola fondamentale a cui il legislatore delegato ha dovuto attenersi è quella per cui tutte le notificazioni effettuate al prevenuto non detenuto successive alla prima, con l’eccezione di quelle attraverso le quali si realizza la citazione in giudizio, devono essere effettuate al difensore, indifferentemente se di fiducia o d’ufficio.

Nell’adempiere a tale direttiva, il d.lgs. n. 150 offre una soluzione normativa attraverso tre interventi principali.

Anzitutto, l’art. 10, comma 1, lett. i) modifica l’art. 157 c.p.p., destinato a disciplinare la prima notificazione all’imputato non detenuto. In particolare, la novella prevede, al primo comma dell’articolo, che, nei casi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p. – e, quindi, ove non si possa procedere alla notifica in via telematica – e qualora non abbia trovato applicazione l’art. 161, comma 01, c.p.p. (di cui subito si dirà), la prima notificazione al prevenuto non in vinculis debba avvenire mediante consegna alla persona di copia dell’atto in forma di documento analogico. In difetto, la notifica va eseguita nella «casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa», attraverso consegna a un soggetto convivente, a un addetto alla casa o al servizio dell’imputato, o, in assenza, al portiere o a chi ne fa le veci. La disposizione precisa, altresì, che, nell’ipotesi in cui la notifica sia effettuata presso il luogo di lavoro, la consegna deve essere fatta al datore di lavoro, a persona addetta al servizio del destinatario, a persona deputata alla ricezione degli atti o, ancora e in difetto, al portiere o a chi ne fa le veci. In attuazione dell’art. 1, comma 6, lett. c), l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 inserisce, poi, un nuovo comma 8-ter nell’art. 157 c.p.p., in forza del quale al compimento della notifica del primo atto, pure laddove avvenuto attraverso le forme telematiche, l’interessato deve essere avvisato che le notificazioni successive, diverse da quelle della vocatio in iudicium, saranno eseguite presso il difensore. Parimenti, il prevenuto deve essere avvertito dell’onere di attivarsi nei confronti del legale, al fine di indicargli un recapito telefonico o telematico presso cui poter ricevere le dovute comunicazioni. Per espressa indicazione dell’art. 157, comma 8-quater, c.p.p., il mancato o ritardato avviso dell’atto notificato da parte del difensore al suo assistito, imputabile al comportamento di quest’ultimo, non costituisce «inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale». 

La normativa dell’art. 157, comma 1, c.p.p. trova, peraltro, applicazione, come anticipato, purché non abbia previamente operato l’art. 161, comma 01, c.p.p. Si tratta di una disposizione introdotta dal d.lgs. n. 150 (art. 10, comma 1, lett. o), n. 1), e che riproduce, portandoli a un momento cronologico anteriore, gli stessi obblighi informativi di cui al comma 8-ter dell’art. 157 c.p.p. In questo caso, grava sulla polizia giudiziaria il compito di effettuare siffatti avvertimenti nel primo atto compiuto con l’intervento dell’indagato, a patto che essa si trovi «nelle condizioni di indicare le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e l’autorità giudiziaria procedente».

Il secondo intervento disegnato dal legislatore delegato si polarizza sull’introduzione di un nuovo art. 157-bis c.p.p. (art. 10, comma 1, lett. l). In esso si manifesta la portata più innovativa della riforma. Secondo la novella, è al patrocinatore che devono essere effettuate tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, con l’eccezione di quelle relative alla vocatio in iudicium. Ciò postula che il prevenuto abbia ottenuto gli avvertimenti di cui agli artt. 157, comma 8-ter o 161, comma 01, c.p.p.: in mancanza, la notificazione è nulla in base a quanto espressamente previsto dalla lett. e) dell’art. 171, comma 1, c.p.p., interpolata sul punto in modo coerente (art. 10, comma 1, lett. aa). Peraltro, sulla scia della l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 contempla un’importante deroga a tale regime semplificato di notificazione, la quale si materializza laddove l’imputato sia assistito dal difensore d’ufficio, non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. e la prima notifica non sia stata eseguita mediante consegna allo stesso o a persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci (art. 157-bis, comma 2, c.p.p.). 

Completa tale assetto l’art. 157-ter c.p.p.: previsione aggiunta, al pari di quella appena analizzata, dall’art. 10, comma 1, lett. l), d.lgs. n. 150 e rivolta a disciplinare le notifiche degli atti introduttivi al giudizio nei confronti dell’imputato non in vinculis.

La novella sancisce che le notifiche «dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna» vanno svolte nel domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 161 c.p.p. In difetto di ciò, la notificazione deve avvenire presso i luoghi e con le modalità di cui all’art. 157 c.p.p. In quest’ultimo caso, tuttavia, si è ritenuto opportuno escludere il ricorso alle modalità telematiche ex art. 148, comma 1, c.p.p. (art. 157-ter, comma 1, c.p.p.). Ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, si prevede, inoltre, quando è necessario per evitare la scadenza del termine di prescrizione del reato o della decorrenza di quello di improcedibilità di cui all’art. 344-bis c.p.p., oppure qualora sia in corso l’applicazione di una misura cautelare, o, in generale, laddove sia considerato indispensabile e improcrastinabile, che l’autorità giudiziaria possa disporre che la polizia giudiziaria effettui le notifiche degli stessi atti. Da ultimo, con una disposizione che si collega alle novità introdotte nel libro IX del codice di rito (art. 581, commi 1-ter e 1-quater, c.p.p.), si stabilisce, nel caso di impugnazione proposta dal prevenuto o nel suo interesse, di notificare l’atto di citazione a giudizio nel domicilio dichiarato o eletto ai sensi dei commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 c.p.p. (art. 157-ter, comma 3, c.p.p.).

Nella stessa cornice, un cenno meritano infine tre ulteriori novità.

La prima è volta ad adeguare la normativa sull’irreperibilità alla riforma sull’absentia (sulla quale v., infra, par. 8). Posto che le modalità di notifica previste in caso di dichiarazione di irreperibilità non garantiscono l’effettiva conoscenza del processo, viene modificato l’art. 160 c.p.p. In ragione di ciò, il decreto di irreperibilità cessa di avere efficacia non più con l’emanazione del provvedimento che definisce l’udienza preliminare, ma con la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 10, comma 1, lett. n).

La seconda modifica impatta sul sistema di notificazioni al latitante, ed è anch’essa funzionale al nuovo impianto eretto in merito all’istituto dell’assenza. Più nel dettaglio, in forza del novellato art. 165 c.p.p., le notifiche rivolte al latitante degli atti relativi alla vocatio in iudicium non sono più eseguite mediante consegna al patrocinatore, quale effetto automatico della declaratoria di latitanza. Siffatta modalità di notifica richiede, infatti, secondo la nuova impostazione del d.lgs. n. 150, il duplice presupposto della dichiarazione di latitanza e dell’esito infruttuoso delle notifiche eseguite nel domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.p., o, quando manca la dichiarazione o l’elezione di domicilio, ex art. 157 c.p.p. (art. 10, comma 1, lett. s).

La terza modifica riguarda le notificazioni all’imputato all’estero, disciplinate dal novellato art. 169 c.p.p. Al riguardo, merita sottolineare la novità costituita dalla possibilità – in precedenza esclusa – di disporre la notifica anche nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa: modifica ispirata dall’obiettivo – assolutamente condivisibile – di ampliare i canali finalizzati a garantire il reperimento dell’interessato. Uno dei nodi interpretativi da sciogliere sta nel rapporto tra tale modalità e il nuovo art. 157-ter: quest’ultimo, infatti, non richiama il domicilio eletto ai sensi dell’art. 169 c.p.p., ma pare che l’omissione possa essere superata a livello interpretativo, posto che quest’ultima norma ha carattere speciale. 

Per concludere, in un’ottica di coordinamento con il nuovo regime di notificazioni, in base a quanto richiesto dall’art. 1, comma 6, lett. e), l. n. 134 del 2021, la novella apporta ritocchi anche al regime di notifiche destinate all’imputato detenuto, incidendo sull’art. 156 c.p.p. (art. 10, comma 1, lett. h). Per effetto dell’intervento, in primo luogo, si stabilisce che tutte le notificazioni, incluse quelle successive alla prima, devono essere sempre effettuate mediante consegna di copia all’imputato nel luogo di detenzione, e, quindi, pure in caso di elezione o dichiarazione di domicilio. Il che comporta un chiaro allineamento al principio formulato dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2020, n. 12778). In secondo luogo, quanto all’ipotesi in cui il prevenuto sia detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari, si prevede che tutte le notifiche, anche quelle posteriori alla prima, siano effettuate presso i luoghi indicati dall’art. 157 c.p.p., senza, tuttavia, ricorrere alle modalità telematiche di cui all’art. 148, comma 1, c.p.p.

 

 

8. La disciplina del processo in assenza.

 

In attuazione dell’art. 1, comma 7, l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 compie un’opera di complessiva riforma della disciplina sul processo in assenza, nell’ottica di adeguarla al duplice obiettivo perseguito dalla delega, ossia correggere le storture interne rispetto alle indicazioni della grande e della piccola Europa e perseguire esigenze di deflazione. È chiara, a quest’ultimo riguardo, l’antieconomicità derivante dal processare “imputati fantasma”, i quali non hanno avuto conoscenza della celebrazione del processo.

 

 

8.1. I presupposti del processo in assenza.

 

Il profilo cardine della legge delega al quale il d.lgs. n. 150 si è dovuto conformare si sostanzia nel principio secondo cui si può procedere in assenza dell’imputato «solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una scelta volontaria e consapevole» (art. 1, comma 7, lett. a), l. n. 134 del 2021). Il criterio direttivo si lega strettamente a quello fissato in materia di notificazioni all’imputato non detenuto, laddove pone una deroga, in presenza della vocatio in ius, all’innovato meccanismo semplificato di notifica, proprio al fine di assicurare le premesse per una reale conoscenza degli atti introduttivi al giudizio. Si tratta di una direttiva che è stata attuata – non sarà inutile rammentarlo – attraverso l’inserimento dell’art. 157-ter nel codice di rito (v., supra, par. 7).

Ebbene, avendo di mira tali coordinate, l’art. 23, comma 1, lett. b), della novella interviene, anzitutto, sull’art. 420 c.p.p., aggiungendo un comma 2-bis, in forza del quale, in presenza di notifiche regolari, laddove l’imputato non sia presente in udienza preliminare e non sia impedito, il giudice è tenuto a verificare se vi sono i presupposti per procedere in assenza ai sensi dell’art. 420-bis c.p.p.

Quest’ultima disposizione si presenta nel d.lgs. n. 150 (art. 23, comma 1, lett. c) in una formulazione interamente innovata, con una doverosa espunzione, sulla falsariga delle indicazioni già impresse dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 23948), del profilo maggiormente critico dell’articolo, compendiato dai criteri presuntivi di conoscenza del processo.

I primi tre commi del nuovo art. 420-bis disciplinano le circostanze legittimanti la celebrazione del processo in absentia.

In primo luogo, vengono indicate due situazioni idonee ad assicurare certezza della conoscenza del processo: da un lato, il caso in cui il prevenuto sia stato citato a comparire mediante notifica eseguita a mani o tramite persona alla quale è stata data espressa delega dall’interessato per il ritiro dell’atto; dall’altro lato, laddove vi sia una rinuncia espressa dell’imputato a comparire o, in alternativa, sussista la rinuncia espressa a far valere un impedimento ex art. 420-ter c.p.p. (art. 420-bis, comma 1, c.p.p.).

In secondo luogo, l’art. 420-bis, comma 2, c.p.p. consente di procedere in absentia, pur in mancanza delle ipotesi appena tratteggiate, ove il giudice consideri «altrimenti provato che lo stesso ha effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza all’udienza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole». Qui si può cogliere l’elemento di massima cesura rispetto alla normativa precedente: nella riforma “Cartabia” protagonista centrale in materia è il giudice, al quale viene demandato il compito di vagliare in concreto la reale conoscenza del processo da parte del prevenuto, senza basarsi in alcun modo su automatismi. La disposizione di nuovo conio gli impone, infatti, di tenere in considerazione ogni circostanza rilevante del caso, tra cui, a titolo meramente esemplificativo, le modalità di notifica, gli atti compiuti dal prevenuto in data anteriore all’udienza, nonché la nomina di un difensore di fiducia.

Infine, l’ultima ipotesi contemplata dall’articolo si aggancia alla figura del latitante, e, in generale, ai casi di volontaria sottrazione alla conoscenza della pendenza del processo, rispetto a cui si consente la celebrazione del processo in absentia, nonostante la mancanza delle condizioni fissate nei primi due commi dell’art. 420-bis c.p.p. (art. 420-bis, comma 3, c.p.p.). Conformemente alla traiettoria prefigurata dalla legge delega, la novità si pone in linea con l’art. 8, par. 4, direttiva 2016/343/UE, il quale permette ai Paesi membri lo svolgimento del processo in assenza, in deroga ai presupposti di cui al par. 2 dello stesso articolo, nei confronti dell’accusato che «non può essere rintracciato nonostante i ragionevoli sforzi profusi». Il nuovo art. 420-bis, comma 3, c.p.p. va, oltretutto, letto, per un verso, alla luce delle novità – di cui si è già dato conto – relative alle notifiche degli atti introduttivi al giudizio rivolte al latitante (v., supra, par. 7) e, per altro verso, sulla scorta dell’innesto di una rinnovata disciplina sulla latitanza. A quest’ultimo riguardo, il d.lgs. n. 150, in ottemperanza all’art. 1, comma 7, lett. f), l. n. 134 del 2021, interviene sugli artt. 295 e 296 c.p.p. Il comma 2 del primo articolo viene interpolato, in modo tale da demandare al giudice, prima di dichiarare la latitanza, il compito di disporre nuove ricerche, qualora non ritenga quelle effettuate esaurienti (art. 13, comma 1, lett. c). Il secondo articolo viene parimenti modificato, con conseguente introduzione dell’obbligo di dichiarare la latitanza con decreto motivato, il quale, oltretutto, deve contenere, laddove lo status di latitante consegua alla mancata esecuzione di misure cautelari, «gli elementi che provano l’effettiva conoscenza della misura e la volontà di sottrarvisi» (art. 13, comma 1, lett. d).

Oltre ai casi sinora tratteggiati, connessi alle ipotesi di assenza del prevenuto, giova rilevare come il d.lgs. n. 150 provveda, sempre in forza della l. n. 134 del 2021, a ridefinire le situazioni in cui l’imputato è considerato presente. In merito, la soluzione adottata è quella di ritoccare ancora una volta l’art. 420 c.p.p. e di inserire al suo interno un comma 2-ter (art. 23, comma 1, lett. b). Così, da un canto, la novella riprende le stesse ipotesi contemplate dall’assetto normativo precedente di cui all’art. 420-bis, comma 3, c.p.p. Dall’altro canto, l’intervento configura due nuove fattispecie: la richiesta dell’imputato per iscritto di un procedimento speciale e la sua rappresentanza in udienza da parte di un procuratore speciale ai fini della formulazione della medesima istanza.

A riprova della vocazione a tutto tondo della riforma sulla disciplina dell’assenza si collocano, inoltre, quelle previsioni del d.lgs. n. 150, protese a normare e a rimodulare gli snodi processuali in cui sono svolti gli accertamenti sul rispetto del diritto fondamentale del prevenuto a presenziare al proprio processo. Nel prendere le mosse dalla formulazione dell’art. 1, comma 7, lett. d), l. n. 134 del 2021, l’intervento modifica l’art. 484 c.p.p., al fine di far sì che, fermi i controlli connessi all’art. 420-ter c.p.p., le nuove disposizioni in punto di assenza trovino applicazione in giudizio, solo nell’ipotesi in cui manchi l’udienza preliminare (art. 30, comma 1, lett. c).

Come chiarito nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 150, ciò mira a superare «quel che accade attualmente, per cui vi è una verifica dell’assenza sia in udienza preliminare che alla successiva prima udienza fissata per il giudizio» (Relazione illustrativa, p. 282). Si vuole, in sostanza, evitare di rinnovare la verifica in discorso, una volta che sia stata già compiuta nell’udienza preliminare, «in una fase successiva che ne è la mera prosecuzione, già fisiologicamente prevista come tale dal processo e, quindi, già conosciuta anche dall’imputato» (Relazione illustrativa, p. 282).

Vi è di più. Le novità introdotte sull’assenza investono anche l’appello. In proposito, viene introdotto un nuovo art. 598-ter c.p.p., rubricato «assenza dell’imputato in appello» (art. art. 34, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150). La novella opera una distinzione tra i casi di imputato appellante e non. Quanto alla prima ipotesi, si prevede che, qualora il prevenuto appellante non compaia alle udienze che si svolgono in presenza ex artt. 599 e 602 c.p.p., si possa procedere in assenza anche in difetto del dettato dell’art. 420-bis c.p.p. Rispetto alla seconda fattispecie, laddove l’imputato non appellante non sia presente alle medesime udienze di cui agli artt. 599 e 602 c.p.p., si impone al giudice di accertare la sussistenza dei presupposti di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 420-bis c.p.p. In difetto, deve essere disposta con ordinanza la sospensione del processo e vanno ordinate le ricerche dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione. Trattasi di una soluzione che si allontana da quanto stabilito rispetto al primo grado, nel quale – come subito si vedrà – deve essere emanata una sentenza di non doversi procedere. La diversità è stata giustificata alla luce della circostanza secondo cui «in questo caso c’è una sentenza di primo grado, che sarebbe revocata ove intervenisse una sentenza di non luogo a procedere» (Relazione illustrativa, p. 284). Va, infine, rilevato che l’art. 598-ter, comma 4, c.p.p. stabilisce di procedere allo stesso modo pure con riferimento all’ipotesi di rito camerale “non partecipato” di cui al nuovo art. 598-bis c.p.p., qualora la Corte di appello, accertata la regolare costituzione delle parti, si avveda della mancanza delle condizioni ex art. 420-bis c.p.p.

 

 

8.2. La sentenza di non doversi procedere.

 

L’art. 23, comma 1, lett. e) e f), d.lgs. n. 150 è, invece, interamente finalizzato a sviluppare la netta e innovativa soluzione adottata dalla legge delega (art. 1, comma 7, lett. e), l. n. 134 del 2021), qualora difettino le condizioni per procedere in assenza e non sussista un impedimento a comparire dell’imputato.

In proposito, l’intervento supera il meccanismo basato sulla sospensione del procedimento e opta per l’emanazione di una sentenza inappellabile di non doversi procedere, la cui disciplina viene convogliata nell’art. 420-quater c.p.p., che ne esce del tutto riformulato. Prima di giungere a tale epilogo, si richiede, tuttavia, al giudice di avvalersi della polizia giudiziaria, al fine di tentare di raggiungere l’imputato e di notificargli personalmente l’avviso ex art. 419 c.p.p., la richiesta di rinvio a giudizio e il verbale (art. 420-bis, comma 5, c.p.p.). Pertanto, solo nell’ipotesi in cui siffatta attività non porti ad alcun esito, deve essere adottata la pronuncia in questione. A partire dall’emanazione della sentenza, le ricerche dell’interessato proseguono, nella prospettiva di disporre la revoca della decisione ai sensi del nuovo art. 420-sexies c.p.p. Infine, l’art. 1, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 150 interpola l’art. 159 c.p., affinché alla pronuncia di tale sentenza consegua la sospensione del corso della prescrizione fino al rintraccio del soggetto nei cui confronti è stata emessa, con il limite, tuttavia, di non superare il doppio dei termini prescrittivi ex art. 157 c.p.

Sono del tutto evidenti la portata deflativa della manovra e la significativa incidenza sullo stesso disposition time, posto che tutti i casi di emissione della sentenza di non doversi procedere, invece di essere computati come pendenti finiranno tra i procedimenti definiti; con ciò verrà progressivamente ridotto il numeratore e, al contempo, aumentato il denominatore del calcolo della durata ipotetica dei processi (si ricordi che il disposition time si ricava dividendo il numero di cause pendenti a fine anno per il numero di quelle esaurite e moltiplicando la cifra così ottenuta per 365).

 

8.3. I rimedi in corso di processo.

 

Chiudono il cerchio sulla riforma in absentia le disposizioni di nuovo conio tarate sui rimedi, richieste dall’art. 1, comma 7, lett. g), l. n. 134 del 2021.

Ora, mentre la disciplina sinora tratteggiata sembra presentarsi, nel complesso, rispondente ai criteri fissati nella legge delega, al fine ultimo di correggere i disallineamenti della normativa sull’absentia rispetto ai paradigmi europei, le conclusioni appaiono opposte non appena si volge lo sguardo sui rimedi. Per chiarire tale assunto può essere utile riprendere quanto affermato dalla relazione illustrativa in proposito (Relazione illustrativa, p. 281). In estrema sintesi, da essa si evince come «la spina dorsale portante del sistema dei rimedi» poggi su una dicotomia quanto alle condizioni che portano all’attivazione degli stessi: da un lato, vi sono i casi in cui si è proceduto erroneamente in assenza e, dall’altro lato, si pongono le ipotesi in cui la declaratoria sull’absentia è corretta, ma è l’imputato a dover provare la sussistenza di determinati presupposti, i quali, in generale, chiamano in causa situazioni di assenza di colpa. Ebbene, inutile dire come quest’ultima fattispecie riecheggi il punctum dolens che attanaglia la normativa italiana in materia e che ha destato le maggiori critiche da parte dei Giudici di Strasburgo. Non possono dunque che essere manifestate perplessità quanto alla sua reiterazione nell’alveo di una riforma che ha preso le mosse proprio dalla necessità di conformare finalmente l’assetto interno ai dicta sovranazionali.

Ciò posto, volendo sondare le modifiche dettate sul punto, viene, anzitutto, in rilievo l’art. 420-bis, comma 6, c.p.p., nella nuova formulazione impressa dal d.lgs. n. 150.

La disposizione prevede la revoca, anche d’ufficio, dell’ordinanza che dichiara l’assenza, se l’imputato compare prima della decisione. La restituzione nel termine per l’esercizio delle facoltà in cui è decaduto è, tuttavia, subordinata a tre condizioni: ove risulti che non erano soddisfatti i presupposti per procedere in assenza (lett. c); qualora il prevenuto provi che «per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa» (lett. a); laddove, infine, l’imputato fornisca la prova, limitatamente ai casi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 420-bis c.p.p., «di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non essere potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto» (lett. b).

Di pari passo, l’art. 489 c.p.p. viene riformulato, secondo la medesima traccia di fondo di cui al novellato art. 420-bis, comma 6, c.p.p. (v. art. 30, comma 1, lett. d).

In particolare, per effetto della novella, per un verso, si prevede che, laddove risulti che nell’udienza preliminare sia stata dichiarata l’assenza in difetto dei presupposti, il giudice dichiari, anche d’ufficio, la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisca gli atti a quello dell’udienza preliminare (art. 489, comma 1, c.p.p.). Siffatta invalidità è sanata, se non è eccepita dall’imputato che è comparso o ha rinunciato a comparire, ferma la possibilità del medesimo di essere restituito nei termini in ordine alle facoltà in cui è decaduto. La nullità non è, invece, in alcun modo eccepibile o rilevabile d’ufficio, se il prevenuto era nelle condizioni di comparire all’udienza preliminare (art. 489, comma 2, c.p.p.).

Per altro verso, in alternativa a questa prima ipotesi legittimante la restitutio in integrum, l’art. 489 c.p.p. subordina il rimedio alla prova fornita dall’imputato delle stesse condizioni di cui viene gravato ai sensi del nuovo art. 420-bis, comma 6, lett. a) e b), c.p.p. In tali ipotesi, resta, tuttavia, ferma la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza (art. 489, comma 2-bis, c.p.p.).

Significative innovazioni in punto di rimedi sono, inoltre, dettate in sede di appello e di cassazione.

Quanto all’appello, a essere modificato è l’art. 604 c.p.p. (art. 34, comma 1, lett. l). Da un lato, il comma 5-bis della disposizione è sostituito da una nuova disciplina, deputata a trattare i casi in cui vi è la prova che nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato, in difetto delle condizioni ex art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, c.p.p. In questa evenienza, la Corte di appello è tenuta a dichiarare la nullità della sentenza e a disporre la trasmissione degli atti al giudice che procedeva al momento in cui si è verificata la nullità. Secondo la stessa impostazione di cui al nuovo art. 489 c.p.p., la nullità si deve, però, considerare sanata, qualora non sia stata dedotta nell’atto di appello e, in ogni caso, non può essere rilevata o eccepita, laddove emerga che «l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata». Dall’altro lato, dopo il comma 5-bis sono aggiunti due nuovi commi (5-ter e 5-quater), per effetto dei quali, salva la validità degli atti precedentemente compiuti, deve essere disposto l’annullamento della sentenza e la conseguente trasmissione degli atti al giudice della fase in cui la facoltà, rispetto a cui l’imputato è decaduto, può essere esercitata. Il tutto, però, è subordinato alla prova da parte del medesimo dei consueti presupposti stabiliti nel nuovo impianto normativo, a cominciare dall’art. 420-bis, comma 6, lett. a) e b), c.p.p. Egli, cioè, è tenuto a provare che, «per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa». In alternativa, deve dimostrare, limitatamente ai casi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 420-bis c.p.p., «di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non essere potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto». In ogni caso – prosegue la disposizione di nuovo conio – l’annullamento della sentenza e la regressione del procedimento sono esclusi, qualora il prevenuto formuli istanza di patteggiamento o di oblazione o chieda «esclusivamente la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Siffatta eccezione muove dall’idea che a queste ipotesi può provvedere direttamente la Corte di appello (Relazione illustrativa, p. 291). Connessa a quest’ultimo intervento si pone, d’altra parte, la modifica dell’art. 603 c.p.p., a cui è inserito un comma 3-ter (art. 34, comma 1, lett. i), n. 2). In ragione di ciò, viene disposta un’ulteriore ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, nel caso in cui il prevenuto ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 604, commi 5-ter e 5-quater c.p.p. Peraltro, qualora si sia proceduto in assenza ex art. 420-bis, comma 3, c.p.p., la rinnovazione viene subordinata al criterio maggiormente restrittivo di cui all’art. 190-bis c.p.p.

Rispetto, invece, al procedimento in cassazione, l’art. 35, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 150  introduce una lett. b-bis) nel comma 1 dell’art. 623 c.p.p. Sulla scia del novellato art. 604 c.p.p., il novum normativo contempla l’annullamento della sentenza di condanna sia nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-bis, c.p.p., sia in quelli di cui al comma 5-ter della stessa previsione, con conseguente trasmissione degli atti, nella prima ipotesi, al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità e, nella seconda ipotesi, a quello del grado e della fase in cui può essere esercitata la facoltà rispetto alla quale il prevenuto è decaduto. Ciò, tuttavia, non opera, qualora emerga che l’imputato «era a conoscenza della pendenza del processo» e versava, altresì, «nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata».

 

8.4. I rimedi post iudicatum.

 

Chiudono questo articolato assetto sui rimedi le rilevanti novità previste con riferimento agli strumenti da attivare dopo il passaggio in giudicato della sentenza e rispetto ai quali il condannato deve essere informato ai sensi del novellato art. 656, comma 5, c.p.p. (art. 38, comma 1, lett. a), n. 2).

In primo luogo, il d.lgs. n. 150 interpola l’art. 175 c.p.p., facendo rivivere – con una formulazione, tuttavia, che annida reali possibilità di imbattersi nuovamente nelle censure della Corte europea – un’impostazione che trovava spazio nella cornice dell’abolito istituto della contumacia.

Più precisamente, viene inserito un nuovo comma 2.1 e ritoccato il comma 2-bis (art. 11, comma 1, lett. b). In ragione di tali modifiche, si stabilisce che il prevenuto giudicato in assenza è restituito, su sua istanza, nel termine per presentare impugnazione, a meno che non vi abbia volontariamente rinunciato, «se, nei casi previsti dall’articolo 420-bis, commi 2 e 3, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa». La richiesta, inoltre, deve essere presentata entro trenta giorni dalla conoscenza effettiva del provvedimento.

La riproposizione dell’istituto della restituzione nel termine viene giustificata (v. Relazione illustrativa, pp. 290-291) alla luce di quanto contestualmente previsto dall’art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 nell’art. 581, comma 1-quater, c.p.p. Più nel dettaglio, in attuazione della delega, la novella impone, nel caso di impugnazione presentata dal difensore dell’assente, il deposito, a pena di inammissibilità, di «specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio». Si è dunque ravvisato nello strumento della rimessione nei termini «il rimedio più coerente con questa scelta, che tende a precludere la proposizione dell’impugnazione per l’assente che non si manifesti» (così, ancora, Relazione illustrativa, p. 291).

In secondo luogo, il novum normativo interviene sull’impugnazione straordinaria della rescissione del giudicato.

Al contrario di quanto indicato dal legislatore delegante, che sollecitava una complessiva revisione del rimedio in linea finalmente con l’art. 9 direttiva 2016/343/UE, l’art. 37 d.lgs. n. 150 riformula l’art. 629-bis c.p.p., senza, però, segnare alcuna reale discontinuità rispetto ai profili critici del precedente assetto normativo.

In particolare, per effetto della novella, al di fuori del caso in cui operi il nuovo art. 628-bis c.p.p. (v. infra, par. 14.5.), il condannato processato in absentia (o il sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato) può ottenere la rescissione del giudicato, «qualora provi che sia stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, e che non abbia potuto proporre impugnazione della sentenza nei termini senza sua colpa, salvo risulti che abbia avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo prima della pronuncia della sentenza» (art. 629-bis, comma 1, c.p.p.). Per il resto, la disposizione di nuovo conio si limita, pressoché, a reiterare la disciplina ante riforma, con un limitato, ma salutare, ritocco al momento da cui decorre il termine per proporre l’impugnazione, agganciato alla conoscenza non più del generico requisito del procedimento, ma di quello più puntuale della sentenza.

Al netto di quest’ultimo aspetto, la previsione solleva riserve.

Dalla sua lettura emerge chiaramente la riproposizione del problematico presupposto racchiuso nell’onere della prova, il quale continua a gravare sul condannato, nonché dell’altrettanto critico requisito poggiante sull’assenza di colpa.

Si è, per di più, omesso di dare corso al criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 13, lett. o), l. n. 134 del 2021, che demanda al legislatore delegato di individuare per tale rimedio «una coerente collocazione sistematica».

Da ultimo, val la pena osservare come sembra esser stata persa l’occasione per modulare, in generale, l’apparato dei rimedi e, in particolare, l’impugnazione de qua, rispetto alla figura del latitante o del prevenuto in fuga, in linea con le recenti e assai rilevanti indicazioni offerte dalla Corte di giustizia proprio con riferimento all’art. 9 direttiva n. 343 del 2016 (C. giust. UE, 19 maggio 2022, C‑569/20). Riprendendo testualmente le parole dei Giudici di Lussemburgo, ferma la necessità di garantire un rimedio restitutorio, il medesimo, in tali ipotesi, può essere, tuttavia, negato all’accusato «qualora da indizi precisi e oggettivi risulti che quest’ultimo ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo».

Alcuni chiarimenti si impongono, poi, quanto al campo di applicazione del nuovo art. 629-bis c.p.p., anche in rapporto al nuovo meccanismo fissato nell’art. 175 c.p.p.

Il primo rimedio è destinato a operare, per effetto della sua riformulazione, solo rispetto alle ipotesi in cui si sia proceduto in assenza in difetto dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis c.p.p. Ne consegue, quindi, come, del resto, confermato nella relazione illustrativa (Relazione illustrativa, p. 292), che tale impugnazione non si applica per i casi in cui, sebbene la dichiarazione di assenza sia avvenuta correttamente, si faccia valere la mancata effettiva conoscenza del processo. In tali evenienze, limitatamente, però, alle ipotesi di cui all’art. 420-bis, commi 2 e 3, c.p.p. (con esclusione, quindi, del comma 1), viene in rilievo l’istituto della restituzione nel termine ex art. 175 c.p.p. Quest’ultimo, oltretutto, e a ben vedere, pare potersi attivare, al contrario di quello ex art 629-bis c.p.p., pure in situazioni di proscioglimento.

Rimane, per concludere, da segnalare l’art. 89 d.lgs. n. 150, che ha cura di apprestare un’opportuna disciplina transitoria in materia.

In merito, viene anzitutto prevista l’applicazione dell’intero impianto normativo ante riforma in relazione a quei processi in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150, qualora il giudice abbia già pronunciato, in qualsiasi stato e grado del procedimento, ordinanza di procedersi in assenza. In deroga a tale disposizione generale, si stabilisce che, laddove, prima dell’entrata in vigore del presente decreto, nell’udienza preliminare o nel giudizio di primo grado, sia stata già disposta la sospensione del processo ex art. 420-quater nella sua precedente formulazione e il prevenuto non sia stato ancora rintracciato, si applichi il nuovo art. 420-quater c.p.p., con conseguente emanazione della sentenza di non doversi procedere. Immediatamente operative sono, inoltre, le previsioni di cui agli artt. 581, commi 1-ter e 1-quater, 585, comma 1-bis, 175 e 157-ter, comma 3, c.p.p., le quali si applicano, però, solo con riferimento alle impugnazioni proposte contro le sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della riforma. Seguono, da ultimo, alcune puntualizzazioni temporali rispetto alla normativa sulla prescrizione, resesi necessarie dalle novità introdotte in argomento. A ciò si aggiunge l’art. 88 d.lgs. n. 150, che stabilisce, nei procedimenti riguardanti reati commessi prima del 1° gennaio 2020, nei quali sia disposta la restituzione nel termine prevista dall’art. 175, comma 2.1, c.p.p., di non tenere conto, ai fini della prescrizione del reato, del tempo intercorso tra la scadenza dei termini per impugnare ex art. 585 c.p.p. e la notificazione alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la restituzione.

 

 

9. Le modifiche relative alle indagini preliminari

 

Al fine di perseguire l’obiettivo di una riduzione dei tempi del procedimento penale, il legislatore non poteva che prendere le mosse da quella fase che, nelle intenzioni del riformatore del 1988, avrebbe dovuto essere snella e di durata predefinita. Tra le novità, assai discusse, del nuovo codice vi era, per un verso, la delimitazione cronologica stringente dell’avvio del procedimento (l’art. 347 c.p.p. imponeva alla polizia di trasmettere la notizia di reato entro 48 ore; l’art. 335 c.p.p. imponeva l’iscrizione immediata) e, per altro verso, la determinazione di termini massimi. Come ben noto, nella prassi i problemi si sono verificati al momento iniziale di fissazione del dies a quo – coincidente con l’iscrizione a modello 21 – e al termine delle indagini, posto che non vi è alcun meccanismo effettivo di messa in mora del pubblico ministero inerte o indeciso (palese il fallimento del rimedio affidato al procuratore generale introdotto nel 2017 con l’inserimento dell’art. 407, comma 3-bis, c.p.p.).

Ebbene, in attuazione della delega, il d.lgs. n. 150 affronta anzitutto – sia pur con soluzioni più o meno convincenti – entrambe le criticità.

Prima di entrare nel merito delle novità, conviene riconoscere che la materia delle indagini preliminari è quella nella quale la mancanza di una puntuale disciplina transitoria potrebbe creare più di qualche dubbio interpretativo: l’auspicio è che questa venga introdotta in sede di conversione del decreto-legge n. 162.  

 

 

9.1. Notizia di reato e controlli sulla corretta iscrizione.

 

Preso atto che, nel nostro sistema processuale, qualsiasi scelta del pubblico ministero relativa alla prosecuzione o alla chiusura delle indagini – tanto la proroga, quanto l’esercizio o il non esercizio dell’azione penale – è sottoposta al controllo del giudice, la legge delega, recependo un suggerimento della Commissione Lattanzi (v. Relazione finale della Commissione Lattanzi e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 18), aveva previsto un tale sindacato anche sulla tempestività dell’iscrizione (art. 1, comma 9, lett. q), e, a monte, il necessario chiarimento dei presupposti per l’iscrizione stessa in modo «da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni» (art. 1, comma 9, lett. p).

Il delegato ha chiarito che l’iscrizione è atto a struttura complessa, nel quale simbioticamente convivono una componente “oggettiva”, qual è la configurazione di un determinato fatto (“notizia”) come sussumibile nell’ambito di una determinata fattispecie criminosa; e una componente “soggettiva”, rappresentata dal nominativo dell’indagato, dalla cui individuazione soltanto i termini cominciano a decorrere.

Il primo aspetto è regolato – con l’obiettivo di ridurre le incertezze manifestatesi nell’utilizzo del c.d. “modello 45” da parte degli uffici di procura – dalla seconda parte del nuovo comma primo dell’art. 335 c.p.p., in forza del quale il pubblico ministero iscrive immediatamente (l’esclusione di uno iato temporale tra emersione della notitia criminis e iscrizione è stata opportunamente confermata), nell’apposito registro ogni notizia «contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice». Nella definizione rieccheggia – sia pur con qualche adattamento linguistico – la proposta avanzata dalla Commissione Riccio, secondo la quale la notizia di reato andrebbe definita «come rappresentazione non manifestamente inverosimile di uno specifico accadimento storico, attribuito o meno a soggetti determinati, dalla quale emerga la possibile violazione di una disposizione incriminatrice contenuta nel codice penale o in leggi speciali» (V. il punto 55.1 della Bozza di delega legislativa al governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). Gli elementi fondamentali sono: l’esistenza di una rappresentazione del fatto (l’espressione è stata preferita evidentemente perché più tecnica rispetto ad accadimento), la sua non inverosimiglianza, il suo carattere determinato (secondo il d.lgs. n. 150 le circostanze di tempo e di luogo del fatto non sono indispensabili a integrare il requisito della determinatezza, tanto che esse sono indicate solo ove risultino), la possibilità di sussumere l’accadimento in una fattispecie incriminatrice. Insomma, la definizione permette di distinguere tra il mero sospetto di reato di cui all’art. 116 disp. att. – che corrisponde a un’ipotesi astratta – e la notizia di reato, che coincide con un’ipotesi concreta.

L’aspetto relativo alla soggettivizzazione della notizia è affidato a un apposito comma 1-bis. Il problema fondamentale era quello di trovare un bilanciamento tra esigenze di garanzia (che condurrebbero ad anticipare il più possibile l’iscrizione) ed esigenze di certezza (che porterebbero a posticipare il momento dell’iscrizione a quando si è raggiunto un compendio indiziario serio). Già nella versione antecedente l’espressione usata dal codice nell’art. 335, comma 1, “risulta” evocava la sussistenza di indizi: è un verbo che postula inesorabilmente una certa pregnanza cognitiva. Il delegato si è preoccupato però di non essere troppo esigente, nella consapevolezza che, se si richiedesse un grado troppo elevato di conferma, si finirebbe per assimilare l’iscrizione a una sorta di pre-giudizio di colpevolezza, con il risultato che sarebbe difficile non ricondurre alla mera iscrizione degli effetti pregiudizievoli (ciò che richiedeva invece l’art. 1, comma 9, lett. s). In quest’ottica, si è deciso (assai opportunamente) di non codificare la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione e la stessa “Circolare Pignatone”, che richiedono “specifici elementi indizianti”; per coerenza sistematica con l’art. 63 c.p.p. – e con lo stesso art. 403 c.p.p. – si è preferito ricollegare l’iscrizione al momento in cui sussistono indizi a carico della persona: una formula che porta ad escludere la sufficienza di meri sospetti (l’ipotesi deve essere per l’appunto concreta), ma anche la necessità di un livello di gravità indiziaria che finirebbe per determinare un’eterogenesi dei fini. Non si può pertanto accogliere la lettura fatta propria dal Parere reso dal CSM il 21 settembre 2022, secondo il quale «l’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito si impone (…), quando gli elementi a carico della stessa abbiano un grado di consistenza tale da attingere la soglia della probabilità di fondatezza dell’accusa» (p. 17). Questo è lo standard rilevante solo al termine delle indagini per l’esercizio dell’azione penale. Se davvero l’asticella fosse così alta ci ritroveremmo in un sistema nel quale le indagini vengono fatte dal p.m. senza riconoscere alcun diritto all’interessato e il p.m. iscrive solo al termine delle stesse.  

In effetti, al fine di neutralizzare gli effetti in malam partem della sottoposizione a procedimento penale dando attuazione al criterio di delega dell’art. 1, comma 9, lett. s) della l. n. 134, il d.lgs. n. 150 prevede l’inserimento nel codice di rito di un nuovo art. 335-bis in forza del quale «la mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito». Per come è formulata, pare che la norma consenta di desumere tali effetti, laddove la persona sottoposta a procedimento penale sia anche destinataria di una misura cautelare oppure quando si abbia conoscenza di elementi probatori tali da giustificarli. Si pensi alle ipotesi nelle quali vi è spazio per un accertamento motivato da parte di terzi, come nell’ipotesi delle misure di prevenzione adottate dal questore nei confronti del soggetto “denunciato”: potrà essere infatti valorizzato il substrato fattuale riportato nella denuncia. Accanto alla previsione codicistica, il d.lgs. n. 150 ha scelto di non intervenire con un’abrogazione espressa di tutte le norme dell’ordinamento che fanno discendere effetti pregiudizievoli dalla sola sottoposizione a procedimento penale o dallo status di indagato, ma ha introdotto una norma di interpretazione autentica nell’art. 110-quater disp. att. c.p.p., in forza della quale queste disposizioni «devono intendersi nel senso che esse si applicano comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale o è stata esercitata l’azione penale». In sostanza, ferma restando la possibilità, desumibile dall’art. 335-bis del codice, di far discendere effetti pregiudizievoli da una valutazione basata sulla sottoposizione a procedimento penale più altri elementi, quando la disposizione preveda un effetto pregiudizievole automatico (il caso più emblematico è forse quello dell’art. 463-bis c.c., secondo il quale «sono sospesi dalla successione il coniuge, anche legalmente separato, nonché la parte dell’unione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile»), questo va ricondotto alla sottoposizione a una misura cautelare personale o al processo vero e proprio. Peraltro, dalla lettura congiunta delle due disposizioni si dovrebbe desumere il divieto di escludere dai concorsi o dalle gare di appalto i soggetti per la sola circostanza di essere coinvolti in un procedimento penale. Pare che la norma sia destinata ad applicarsi immediatamente, anche alle iscrizioni già effettuate: ove così non fosse, infatti, si rischierebbe di introdurre una irragionevole disparità di trattamento tra posizioni identiche (sottoposizione a procedimento penale) determinata da una circostanza del tutto accidentale (ossia la data dell’iscrizione).

Con riferimento al controllo del giudice, il d.lgs. n. 150 contempla due diversi istituti.

Da un lato, nel nuovo art. 335-ter c.p.p. si prevede che il giudice per le indagini preliminari, quando deve compiere un atto del procedimento, «se ritiene che il reato per cui si procede debba essere attribuito a una persona che non è stata ancora iscritta nel registro delle notizie di reato, sentito il pubblico ministero, gli ordina con decreto motivato di provvedere all’iscrizione». Opportunamente, si è introdotto anzitutto un contraddittorio con il pubblico ministero e si è poi previsto – in linea con l’impianto codicistico – che sia lui ad avere l’ultima parola nell’indicare il dies a quo (comma 2): potrebbe infatti decidere di retrodatare per avere certezza sull’effettivo orizzonte temporale delle indagini. Peraltro, l’indagato conserva la facoltà di chiedere al giudice la retrodatazione. Al fine di consentire l’esercizio di tale controllo da parte del giudice, si è previsto che «il pubblico ministero, quando presenta una richiesta al giudice per le indagini preliminari, indica sempre la notizia di reato e il nome della persona a cui il reato è attribuito» (nuovo art. 110-ter disp. att., introdotto dall’art. 41, comma 1, lett. m).

Dall’altro lato, nel nuovo art. 335-quater c.p.p. si introduce l’istituto inedito dell’accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. Esso può essere attivato dalla persona sottoposta alle indagini – ma anche dall’imputato, in udienza preliminare o nel giudizio (comma 7) – la quale ha l’onere di indicare, non solo le ragioni che la sorreggono (come richiesto dalla delega), ma anche gli atti dai quali è desunto il ritardo (comma 1): questo onere di allegazione appare ragionevole al fine di semplificare il lavoro del giudice; è fissato un termine perentorio pari a venti giorni che decorrono – in linea con quanto previsto dalla delega (art. 1, comma 9, lett. q) – dal momento in cui l’indagato ha avuto facoltà di prendere conoscenza degli atti del procedimento (che dimostrano il ritardo (comma 3). Nella maggior parte dei casi, questo momento coinciderà con la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, ma questa sovrapposizione non è assolutamente necessaria: l’atto da cui emerge il ritardo nell’iscrizione potrebbe essere infatti conosciuto durante le indagini oppure anche dopo l’esercizio dell’azione penale.

Per tale ragione, l’incidente sulla tempestività potrà essere attivato autonomamente durante le indagini preliminari, con richiesta depositata presso la cancelleria del giudice previa notifica al pubblico ministero (comma 6), oppure può essere incardinato in un procedimento incidentale, sempre che sia rilevante ai fini della decisione (comma 5); infine, durante l’udienza preliminare o il giudizio la richiesta potrà essere proposta in udienza o depositata in cancelleria e verrà comunque decisa in udienza (comma 7). Nell’ipotesi di instaurazione nel procedimento incidentale, verrà trattata e decisa nelle forme di tale procedimento, mentre in caso di incidente autonomo si è prevista giustamente l’instaurazione di un contraddittorio scritto con il pubblico ministero e, solo laddove il giudice ritenga necessario un contraddittorio orale, fisserà un’udienza in camera di consiglio (comma 6, quarto periodo).

Il giudice sarà chiamato a valutare la sussistenza di un ritardo inequivocabile e ingiustificato. Con riferimento al primo profilo, deve risultare conclamata la ricorrenza di indizi a carico dell’indagato in epoca antecedente alla sua iscrizione; con riguardo invece al secondo requisito, il d.lgs. n. 150 ha ripreso tale e quale la formulazione della delega, prescrivendo la retrodatazione solo nel caso in cui il ritardo sia privo di giustificazioni. Ebbene, tale formulazione rischia di aprire la strada a un’interpretazione lata in forza della quale si finirà per considerare giustificato anche il ritardo motivato da carenze organizzative o dal sovraccarico dell’ufficio. Non sfuggirà, però, che tale esegesi finirebbe per neutralizzare la novità condannandola all’inutilità: l’unica via ragionevole è dunque quella di ritenere giustificato il solo ritardo derivante dalla oggettiva complessità delle valutazioni richieste ai fini dell’iscrizione. Laddove il giudice ritenga sussistenti i presupposti, sarà lui stesso a indicare al pubblico ministero la data nella quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato è attribuito (comma 8).

È contemplato inoltre un sindacato sulla decisione: il comma 9 prevede che l’imputato la cui richiesta è stata rigettata oppure il pubblico ministero o la parte civile in caso di accoglimento possano chiedere che la questione venga riesaminata prima della conclusione dell’udienza preliminare oppure, se questa manca, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1.

Proprio in considerazione di questa novità, per prevenire un eventuale intervento successivo del giudice a’ sensi dell’art. 335-quater si è previsto che il pubblico ministero possa direttamente indicare la data anteriore a partire dalla quale l’iscrizione deve intendersi effettuata, quando non ha provveduto tempestivamente ai sensi dei commi 1 e 1-bis (art. 335, comma 1-ter). Il che appare perfettamente ragionevole se si considera che il ritardo – magari dovuto a inefficienze del sistema – non può andare a pregiudicare la persona sottoposta alle indagini.

 

 

9.2. I criteri di priorità nella trattazione della notizia di reato e nell’esercizio dell’azione penale.

 

La delega contenuta nell’art. 1, comma 9, lett. i), della l. n. 134 del 2021 è stata attuata con due manovre parallele.

Sotto il profilo ordinamentale, il legislatore è intervenuto correttamente in sede di riforma dell’ordinamento giudiziario. L’art. 13 della l. n. 71 del 2022 ha infatti riscritto – recependo un emendamento governativo ispirato dal gruppo di lavoro sull’attuazione della delega in materia di indagini preliminari – i commi 6 e 7 dell’art. 1 del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, prevedendo che la sede in cui il procuratore della Repubblica deve definire i criteri di priorità è quella del progetto organizzativo: per un verso, deve fissare dei «criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre», i quali vanno  definiti, «nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con  legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili»; per altro verso, sulla scorta di tali criteri deve determinare «le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto dei  criteri  di priorità». La procedura di approvazione del progetto – che prevede che vadano sentiti il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e previo parere del consiglio giudiziario – consente di assicurare un dibattito su un tema di grande delicatezza e, per di più, l’allineamento con i criteri di priorità che vincolano l’attività degli uffici giudicanti.

Il d.lgs. n. 150 ha correttamente chiarito che i criteri di priorità non hanno però una valenza soltanto organizzativa, ma sono destinati a incidere sulle scelte procedimentali del pubblico ministero. Si è così introdotta una norma di portata generale, da inserire in apertura del capo delle disposizioni di attuazione dedicato al pubblico ministero, che vincola il pubblico ministero al rispetto dei criteri di priorità tanto nella fase delle indagini, quanto al momento dell’esercizio dell’azione penale (art. 3-bis disp. att. c.p.p.). In secondo luogo, si è intervenuti nell’ambito dell’avocazione facoltativa: il procuratore generale deve necessariamente tener conto dei criteri di priorità, per evitare di avocare un’indagine postergata dal pubblico ministero proprio in applicazione delle scelte di priorità (art. 127-bis disp. att. c.p.p.).

In conclusione, sembra che il riconoscimento definitivo dei criteri di priorità come strumenti finalizzati a rendere le scelte dei singoli uffici e dei singoli sostituti vincolate, prevedibili e controllabili – sarebbe stato preferibile sancire in termini espressi la pubblicità dei progetti organizzativi, o almeno delle parti relative ai criteri di priorità – rappresenti un passo avanti culturale di notevole portata. In tal modo, si favorisce il superamento di quella che Giovanni Falcone definiva «concezione feticistica dell’azione penale», intesa come astratto e ipocrita paravento dietro al quale nascondere scelte discrezionali, che finora ha dominato la prassi della giustizia italiana. Certo la strada è ancora lunga perché le resistenze sono forti: nondimeno, oggi è finalmente passato il messaggio per cui le scelte di politica repressiva non possono essere fatte autonomamente e in modo non trasparente da ogni singola monade giudiziaria dell’ordinamento. A monte, verranno predeterminati dei criteri generali dai rappresentanti del potere democratico e, a valle, le opzioni compiute saranno controllabili dai cittadini. 

 

 

9.3. I nuovi termini delle indagini e il sistema delle proroghe.

 

Dopo aver garantito maggiore certezza con riguardo al momento iniziale, il d.lgs. n. 150 – in attuazione dell’art. 1, comma 9, lett. c) della legge delega – ha ricalibrato la durata delle indagini, introducendo nell’art. 405, comma 2, c.p.p. un regime tripartito in base alla natura del reato: per la generalità dei delitti, il termine precedente di sei mesi di cui all’art. 405 c.p.p. viene allungato a un anno; per le contravvenzioni il termine ordinario rimane di sei mesi; per i delitti dell’art. 407, comma 2, c.p.p. la durata diviene di un anno e sei mesi.

Il d.lgs. n. 150 non si limita però a questa modifica: correttamente, viene abrogato il primo comma – ripreso nel nuovo art. 407-bis – e modificata la rubrica, la quale viene allineata al contenuto della disposizione, che disciplina soltanto i termini per la conclusione delle indagini preliminari.

A tale intervento si affianca la duplice manovra sull’art. 406 (in attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 9, lett. d), della l. n. 134 del 2021): da un lato, si prevede che il pubblico ministero possa chiedere la proroga del termine quando le indagini sono complesse (nuovo comma 1); dall’altro, si stabilisce che la proroga può essere concessa una sola volta e per sei mesi (nuovo comma 2), eliminando «il meccanismo – farraginoso e poco trasparente – delle ripetute proroghe» (Relazione finale della Commissione Lattanzi e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 19).

La portata delle modifiche è pertanto chiara: viene ampliata la prima arcata temporale per quanto riguarda la generalità dei delitti, nonché le fattispecie criminose di cui all’art. 407, comma 2, c.p.p., senza che venga esteso il termine massimo, che rimane, rispettivamente, a diciotto mesi e a due anni. Dall’altro lato, il termine massimo per le contravvenzioni viene ridotto a un anno.

Alla riscrittura dell’art. 405, con la presa d’atto che vanno differenziati i termini relativi alle indagini (previsti dai nuovi artt. 405 e 406) rispetto al termine per l’esercizio dell’azione penale (disciplinato dal nuovo art. 407-bis, comma 2), è conseguita la modifica dell’art. 407, comma 3, ove si è (giustamente) eliminato il riferimento all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di archiviazione: saranno inutilizzabili gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine, eventualmente prorogato, a nulla rilevando la scelta sull’azione penale.

 

 

9.4. Regola di giudizio per l’archiviazione e riapertura delle indagini.

 

Dopo più di trent’anni di applicazione del codice di rito, due dati di realtà sono incontrovertibili.

Per un verso, le indagini preliminari non hanno preso la forma dell’inchiesta di parte che avevano in testa gli ideatori dell’“accusatorio all’italiana” (in particolare Carnelutti e Cordero); non si sono mai sviluppate, come promesso (ingenuamente?) dall’art. 326 c.p.p., ossia come un’indagine “interna” all’ufficio di procura (di «carattere – per così dire – “privato”, nel senso che, con esse, l’accusatore avrebbe procurato risultati conoscitivi a se stesso»: così, Nobili) e quindi incompleta e deformalizzata. Al contrario, il crogiolo della prassi – alimentato da controriforme inquisitorie, manovre garantiste, crescente incidenza della prova scientifica e tecnologica – ha plasmato indagini complete, formalizzate e destinate ad avere un peso rilevante anche sul giudizio.

Per altro verso, i tassi di proscioglimento dibattimentale sono molto elevati, soprattutto nel procedimento davanti al tribunale monocratico: il che significa che il filtro al momento dell’esercizio dell’azione penale è a maglie troppo larghe.

Preso atto di un tanto, l’art. 1, comma 9, lett. a), l. n. 134 del 2021 aveva delegato l’esecutivo a prevedere che la pubblica accusa chieda l’archiviazione «quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna». All’esito di un’indagine completa, appare ragionevole pretendere dai pubblici ministeri il raggiungimento di uno standard più alto per esercitare l’azione penale, superandosi così le interpretazioni tradizionali che ricollegavano la nascita dell’obbligo di agire al criterio del favor actionis.

Il legislatore delegato ha abrogato la disposizione di attuazione dell’art. 125, dove si era cercato di relegare un criterio di giudizio figlio dell’improvvida scelta, compiuta dall’art. 2, direttiva n. 50, della l. 16 febbraio 1987, n. 71, di legare la dicotomia tra il non esercizio e l’esercizio dell’azione alla “manifesta” infondatezza della notitia criminis.

Ha previsto quindi correttamente di portare la regola di giudizio nel nuovo art. 408, comma 1, c.p.p., secondo il quale il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca». Ebbene, il riferimento esplicito alla “condanna” sembra assumere proprio il significato di imporre all’accusa di optare per l’inazione anche nei casi in cui le indagini (complete) abbiano restituito un quadro probatorio insufficiente e contraddittorio, di cui non vi sia un’effettiva probabilità di evoluzione dibattimentale, aprendo così le porte a un’applicazione del canone dell’in dubio pro reo già in questa fase.

La novità va accolta positivamente, non solo perché la nuova norma pare risolvere definitivamente le incongruenze emerse nel corso del tempo tra regola di giudizio posta all’esito delle indagini preliminari e possibilità per i prevenuti di richiedere il giudizio abbreviato secco, ma soprattutto perché essa è volta a perseguire due obiettivi certamente meritori. Per un verso, quello di ridurre il numero strabordante di giudizi da celebrare, e, per l’altro, abbassare il tasso elevatissimo di esiti liberatori in dibattimento.   

Per quel che riguarda la prognosi di applicazione di misura di sicurezza diversa dalla confisca, il legislatore delegato ha ragionevolmente ripreso la formulazione dell’art. 425, comma 4, c.p.p.

Altra novità relativa al procedimento di archiviazione riguarda l’esclusione della notifica dell’avviso di richiesta di archiviazione alla persona offesa che abbia rimesso la querela (l’art. 22, comma 1, lett. e), n. 2 prevede la riscrittura dell’art. 408, comma 2, c.p.p.).

Ultima novità significativa in materia di archiviazione concerne i presupposti della riapertura delle indagini. Figlio dell’evoluzione delle indagini prospettata poco sopra, l’art. 1, comma 9, lettera t) della legge delega – frutto di un emendamento parlamentare – imponeva di fissare «criteri più stringenti ai fini dell’adozione del decreto di riapertura delle indagini». Ebbene, il d.lgs. n. 150 chiarisce (nella seconda parte del primo comma dell’art. 414 c.p.p. come modificato dall’art. 22, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 150) che la «richiesta di riapertura delle indagini è respinta quando non è ragionevolmente prevedibile la individuazione di nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare l’esercizio dell’azione penale». Va detto che la novità è assai timida e che si sarebbe potuto agire con più coraggio, stabilendo chiaramente la possibilità di riaprire solo quando, sulla base di un criterio diagnostico, siano emersi elementi che dimostrano l’esigenza di ulteriori investigazioni. In questo senso pare indispensabile che gli elementi siano emersi dopo il provvedimento di archiviazione, risultando così escluso che, per riaprire l’indagine, basti una mera rivalutazione di elementi preesistenti, non sorretta da un quid novi. Molto positivo il nuovo comma 2-bis, che prevede espressamente la sanzione dell’inutilizzabilità per gli atti di indagine compiuti in assenza di un provvedimento di riapertura del giudice.

 

 

9.5. I rimedi alla stasi del procedimento

 

La riforma Cartabia ha affrontato anche il tema – assai delicato – della chiusura delle indagini. Com’è ben noto, a fronte della previsione di termini perentori per il compimento delle indagini, l’ordinamento processuale non prevede meccanismi effettivi per garantire la definizione in tempi ragionevoli del procedimento penale. Il legislatore del 2017, in coerenza con l’impianto codicistico, che affida al procuratore generale il potere di controllo sul rispetto dei tempi da parte del pubblico ministero, aveva costruito un congegno basato sull’investitura della procura generale (art. 407, comma 3-bis, c.p.p.). Come era prevedibile, l’istituto è fallito e, pertanto, la l. n. 134 – recependo le indicazioni della Commissione Lattanzi – aveva abbandonato questa impostazione e aveva previsto, da un lato, di responsabilizzare indagato e persona offesa e, dall’altro, di coinvolgere il giudice per le indagini preliminari.

Il d.lgs. n. 150 prevede una normativa che si articola in diversi passaggi.

Il più lineare riguarda l’attuazione del criterio di cui all’art. 1, comma 9, lett. e) della legge delega. Si è prevista, correttamente, la riscrittura della norma sull’alternativa che si pone alla fine delle indagini. Il nuovo art. 407-bis (introdotto dall’art. 22, comma 1, lett. d) ha anzitutto ripreso (nel comma 1) il contenuto originario dell’art. 405, non senza aver integrato il novero delle forme di esercizio dell’azione penale con il richiamo alla messa alla prova (titolo V-bis); nel comma 2 ha poi razionalizzato il cosiddetto periodo di riflessione entro il quale il pubblico ministero deve prendere le determinazioni sull’azione penale: esso sarà pari a tre mesi per tutti i reati e a nove mesi nei casi dell’art. 407, comma 2 e decorrerà dalla scadenza del termine di indagine oppure, se il pubblico ministero abbia notificato l’avviso di conclusione, dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415-bis, comma 3 e 4. Per la verità, quest’ultima evenienza sembrerebbe fisiologica, alla luce del nuovo art. 415-bis, comma 1, secondo il quale l’avviso va notificato prima della scadenza del termine di indagine.

Come conseguenza della modifica relativa al periodo di riflessione vengono abrogati anche il comma 3-bis dell’art. 407, nonché il comma 2-bis dell’art. 416 e il comma 1-bis dell’art. 552 in tema di omicidio e lesioni stradali, che appaiono incompatibili con il criterio di delega che – come si legge nella relazione di accompagnamento – «contempla la ‘gravità del reato’ unicamente quale fattore di prolungamento (e non già di abbreviazione) del cd. termine di riflessione» (p. 263).

L’attuazione dei criteri di cui alle lett. f), g) e h) appare decisamente più cervellotica.

Anzitutto, il d.lgs. n. 150 interviene sull’avocazione del procuratore generale, nonostante l’istituto, anche dopo la riforma Orlando, non abbia dato un grande contributo nell’assicurare un controllo effettivo sulla tempestività delle scelte del pubblico ministero. L’art. 22, comma 1, lett. g) prevede – in nome del principio di realtà – la trasformazione dell’avocazione per inerzia del pubblico ministero da obbligatoria in facoltativa e la consente quando il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, oppure non ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, 415-bis, comma 5-ter, 415-ter, comma 3. Al fine di consentire l’effettivo esercizio di tale prerogativa, il legislatore delegato è intervenuto sulle comunicazioni delle notizie di reato che devono essere effettuate dalla segreteria del pubblico ministero al procuratore generale ai sensi dell’art. 127 disp. att. c.p.p. (art. 41, comma 1, lett. n).

La seconda novità (forse quella che più sorprende) è la modifica dell’art. 415-bis c.p.p., con l’inserimento di un meccanismo di differimento della notifica dell’avviso nei nuovi commi 5-bis e 5-ter (inseriti dall’art. 22, comma 1, lett. l), n. 4), che è attivabile in casi espressamente previsti (da un lato, quando è stata richiesta l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari e il giudice non ha ancora provveduto o quando, fuori dai casi di latitanza, la misura applicata non è stata ancora eseguita; dall’altro, quando la conoscenza degli atti d’indagine può concretamente mettere in pericolo la vita o l’incolumità di una persona o la sicurezza dello Stato, ovvero, nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, arrecare un concreto pregiudizio), previa autorizzazione del procuratore generale: il differimento può essere accordato per il tempo strettamente necessario e, comunque, per un periodo complessivamente non superiore a sei mesi o, se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, non superiore a un anno. Questa previsione non pare autorizzata dalla lett. f) dell’art. 1, comma 9 della legge delega, che consente inequivocabilmente il differimento della sola discovery all’esito del periodo di riflessione nel caso di inerzia del pubblico ministero, né l’intervento pare legittimato dalla norma generale dell’art. 1, comma 3, l. n. 134, la quale si riferisce alle sole modifiche consequenziali.

In realtà, al criterio di delega della lett. f) viene dato attuazione con il nuovo art. 415-ter c.p.p. (rubricato “Diritti e facoltà dell’indagato e della persona offesa in caso di inosservanza dei termini per la conclusione delle indagini preliminari”): vi si prevede che, se alla scadenza del periodo di riflessione il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata in segreteria, con facoltà della persona sottoposta a indagini e della persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini, di esaminarla ed estrarne copia, previa notificazione dell’avviso dell’avvenuto deposito (avviso che andrà comunicato anche al procuratore generale). Si tratta di quella che si può definire discovery patologica obbligatoria, ossia conseguente all’inerzia dell’organo dell’accusa e finalizzata ad attivare lo sblocco della stasi su iniziativa delle parti. Opportunamente, il d.lgs. n. 150 prevede che, se il pubblico ministero non la effettua, il procuratore generale (che non abbia ricevuto la comunicazione) ordina con decreto motivato al procuratore della Repubblica di provvedere alla notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 entro un termine non superiore a venti giorni e copia del decreto è notificata alla persona sottoposta a indagini e alla persona offesa. Se il pubblico ministero non assume le determinazioni sull’azione penale entro un mese (o tre mesi nei casi di cui all’articolo 407, comma 2) dalla notifica dell’avviso di deposito o del decreto del procuratore generale, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al giudice di ordinare al pubblico ministero di provvedere (comma 3). 

Per la verità, prima della scadenza del termine di riflessione, quando ricorrono le circostanze di cui al comma 5-bis dell’art. 415-bis, il pubblico ministero può presentare richiesta motivata di differimento del deposito e della notifica dell’avviso di deposito al procuratore generale, il quale provvede ai sensi del comma 5-ter dell’articolo 415-bis (art. 415-ter, comma 4). Naturalmente, la norma si preoccupa di coordinare il differimento della discovery patologica e quello della discovery ordinaria, ossia conseguente alla scelta del pubblico ministero di esercitare l’azione penale (l’esordio dell’art. 415-bis continua a prevedere l’invio dell’avviso di conclusione se il pubblico ministero «non deve formulare richiesta di archiviazione»), stabilendo che la prima non si attiva quando il pubblico ministero ha già presentato la richiesta di differimento dell’avviso di conclusione prevista dal comma 5-bis dell’art. 415-bis.

In conclusione, il d.lgs. n. 150 prevede una norma di chiusura – incongruamente collocata in quella sorta di disposizione omnibus che è diventato l’art. 415-bis, invece di prevedere un autonomo art. 415-quater – che dà attuazione alla lett. g) dell’art. 1, comma 9: il nuovo comma 5-quater dell’art. 415-bis stabilisce che, alla scadenza del periodo di riflessione, se il pubblico ministero rimane inerte, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al giudice di ordinare al pubblico ministero di assumere le determinazioni sull’azione penale. Il giudice, se ritiene di accogliere l’istanza, ordina al procuratore della Repubblica di assumere le determinazioni sull’azione penale entro un termine non superiore a venti giorni con un decreto che va comunicato al pubblico ministero e al procuratore generale presso la corte d’appello e notificato al richiedente. Sulla scorta del comma 5-quinquies il pubblico ministero deve trasmettere al giudice e al procuratore generale copia dei provvedimenti assunti in conseguenza dell’ordine emesso ai sensi del comma 5-quater. L’ultimo comma (il 5-sexies) stabilisce che, nel caso di ordine del giudice, se la persona offesa dal reato non ha già ricevuto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, le va notificato l’avviso previsto dal comma 1 dell’articolo 415-ter.

Ora, al di là della (per certi versi ineludibile) complessità della disciplina e delle incongruenze, quel che non convince è l’aver puntato ancora sul procuratore generale (sia per l’avocazione che per l’autorizzazione al procedimento), nonostante la scelta chiara fatta dalla legge delega sull’investitura del giudice per le indagini preliminari. Nel d.lgs. n. 150, questi interviene solo ed esclusivamente su istanza della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, mentre la direttiva di cui alla lett. g) – che prescrive di prevedere “in ogni caso” rimedi alla stasi mediante il coinvolgimento del g.i.p. – avrebbe richiesto un intervento più coraggioso, magari con una norma di chiusura che prevedesse un intervento ufficioso del giudice.

La critica avanzata al meccanismo dal CSM merita di essere approfondita: nel Parere si legge che, nell’individuare una possibile soluzione al problema dello stallo, il delegato «deve essersi basato su un modello ideale di Ufficio di Procura, ove, pendendo poche decine di procedimenti penali, è doveroso attendersi che il P.M. e la sua segreteria monitorino con puntualità tutte le scadenze e che la Procura sia quindi in grado di osservare la tempistica individuata per la definizione della fase delle indagini preliminari» (Parere della VI Commissione del CSM, p. 31). Nella prassi, invece, secondo quanto risulta da un’analisi dell’ufficio statistico del CSM relativa al triennio 2019/2020/2021, presso la Procura di Milano, i sostituti sono stati titolari di una media di 814 procedimenti penali ciascuno, a Roma di una media di 730 procedimenti a testa, a Napoli di 204 procedimenti, a Busto Arsizio di 1399 procedimenti, ad Ivrea di 2053 procedimenti contro noti; a Rieti di 1.036 procedimenti e, infine, a Brescia di 1003 procedimenti (Parere della VI Commissione del CSM, p. 36).   

Il punto è proprio questo: il filo rosso delle modifiche introdotte dalla riforma è costituito dalla necessaria riduzione delle iscrizioni, dalla razionalizzazione delle scelte di quali notizie coltivare effettivamente, dall’estensione dell’ambito di applicazione delle forme di definizione alternative (sia con procedimento per decreto, che con istituti di giustizia riparativa finalizzati alla remissione tacita di querela), dalla limitazione del numero di azioni penali (estensione della procedibilità a querela, definizione di uno standard per l’esercizio dell’azione penale più elevato) e del numero di dibattimenti. Insomma, la scommessa è che, nel meccanismo (completamente) inceppato della giustizia bisogna far entrare un numero significativamente inferiore di regiudicande. Preso atto che le depenalizzazioni possibili sul piano politico sono già state fatte, è la magistratura a dover farsi carico di una riduzione in concreto.

 

 

9.6. Il controllo giurisdizionale sulla legittimità della perquisizione.

 

Il criterio di delega dell’art. 1, comma 24, della l. n. 134, finalizzato a introdurre un rimedio avverso il decreto di perquisizione cui non consegua un sequestro non era affatto ispirato dallo scopo di aumentare l’efficienza della macchina giudiziaria, ma piuttosto dal proposito di adeguare l’ordinamento interno ai principi stabiliti dalla Corte di Strasburgo nel caso Brazzi c. Italia (Corte edu, sez. I, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia); caso nel quale la Corte ha ritenuto l’Italia responsabile di violazione dell’art. 8, par. 2, CEDU, in una fattispecie in cui il ricorrente si era lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo o a posteriori nei confronti di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene.

Ebbene, la novella  prevede l’inserimento nel tessuto codicistico di un nuovo istituto, all’art. 252-bis c.p.p., denominato “opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero”: vi si prevede che, salvo che alla perquisizione sia seguito il sequestro, contro il decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero, la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e la persona nei cui confronti la perquisizione è stata disposta o eseguita possono proporre opposizione entro dieci giorni dalla data di esecuzione del provvedimento o dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuta perquisizione. Sull’istanza il giudice provvede in camera di consiglio e, quando accerta che la perquisizione è stata disposta fuori dei casi previsti dalla legge, si limita ad accoglierla. Una disciplina analoga viene inoltre inserita nell’art. 352, comma 4-bis, c.p.p. per le ipotesi di perquisizione a iniziativa della polizia giudiziaria, sulla convalida delle quali il pubblico ministero decide con decreto motivato (nuovo art. 352, comma 4, c.p.p.).

Ebbene, l’interrogativo che sorge spontaneo rispetto a tale rimedio è la finalità che si persegue: il giudice, infatti, si limita ad accogliere l’opposizione. Ma il provvedimento è destinato a rimanere privo di conseguenze concrete.

 

 

10. Le modifiche relative all’udienza preliminare.

 

In linea con le direttive contenute nella legge delega, il d.lgs. n. 150 apporta alcuni correttivi alla disciplina dell’udienza preliminare: sono tre le linee di intervento.

 

10.1. I nuovi termini per la costituzione di parte civile.

 

La prima è volta a valorizzare l’udienza preliminare come il momento ultimo per la costituzione del danneggiato come parte civile: nell’intento di «consentire a tutte le parti un più effettivo esercizio del diritto alla prova» e di ridurre le tempistiche del dibattimento (Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 21), la l. n. 134 recepisce un suggerimento avanzato dall’Unione Camere Penali e restringe lo spazio temporale in cui è ammessa la costituzione di parte civile. A tal fine, il d.lgs. n. 150 interviene sull’art. 79, comma 1, dove si stabilisce che «la costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare, prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, o, quando manca l’udienza preliminare, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484 o dall’articolo 554-bis, comma 2». Il secondo comma precisa che si tratta di termini perentori, mentre il nuovo art. 78 incide sulle formalità di costituzione, precisando che «il difensore cui sia stata conferita la procura speciale ai sensi dell’articolo 100, nonché la procura per la costituzione di parte civile a norma dell’articolo 122, se in questa non risulta la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione».

 

 

10.2. Il vaglio del g.u.p. sull’imputazione.

 

La seconda direttrice fondamentale coincide con l’obiettivo di rafforzare la capacità dell’udienza di preparare al meglio il dibattimento. La delega aveva recepito i suggerimenti della Commissione Lattanzi, la quale aveva preso le mosse dalla consapevolezza che le prassi non rigorose nella formulazione dell’imputazione hanno prodotto effetti perniciosi, sia sul piano dei principi – posto che la Costituzione prescrive l’obbligo di agire per perseguire responsabilità personali e quindi postula l’attribuzione di fatti precisi e che l’imputazione lacunosa o generica si traduce in un vulnus del diritto di difesa – sia sul piano dell’efficienza del processo, dal momento che è tra i fattori che incidono sul tasso inaccettabile di assoluzioni.

In quest’ottica, in attuazione del criterio contenuto nell’art. 1, comma 9, lett. n), il d.lgs. n. 150 prevede due diversi meccanismi, destinati a trovare immediata applicazione.

Da un lato, l’art. 23, comma 1, lett. g), n. 1 modifica l’art. 421, comma 1, prevedendo un possibile rimedio all’imputazione generica: nel caso in cui il g.u.p. rilevi una violazione dell’art. 417, comma 1, lett. b), il giudice, sentite le parti, invita il pubblico ministero a riformulare l’imputazione e, qualora questi non provveda, il giudice dichiara anche d’ufficio la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e dispone, con ordinanza, la restituzione degli atti al pubblico ministero. Sul piano teorico, la modifica è rilevante perché chiarisce che la genericità dell’imputazione determina una nullità che è rilevabile d’ufficio, quanto meno perché a regime intermedio. Per ragioni di economia processuale, si prevede ragionevolmente la possibilità per il pubblico ministero di sanare l’invalidità direttamente in udienza.

Dall’altro lato, l’art. 23, comma 1, lett. i), n. 2 della novella inserisce un nuovo comma 1-bis nell’art. 423, per le ipotesi diverse nelle quali non vi è corrispondenza tra le risultanze degli atti e l’imputazione. Laddove il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza non sono indicati nell’imputazione in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti oppure la definizione giuridica risulta non corretta, il giudice invita il pubblico ministero a operare le necessarie modificazioni. Se la difformità indicata permane, sentite le parti, il giudice dispone con ordinanza, anche d’ufficio, la restituzione degli atti al pubblico ministero.

I nuovi poteri attribuiti al giudice dell’udienza preliminare sulla corretta descrizione del fatto e sulla sua rispondenza alle risultanze delle indagini preliminari hanno suggerito di abrogare, in quanto ormai superflua, la previsione dell’art. 429, comma 2-bis, che disciplina una situazione non più verificabile (art. 98, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150).

 

10.3. La nuova regola di giudizio del non luogo a procedere.

 

La terza modifica di sicura rilevanza è quella riguardante la regola di giudizio relativa alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. L’art. 23, comma 1, lett. l), d.lgs. n. 150 interviene sull’art. 425, comma 3, c.p.p. prevedendo che la pronuncia liberatoria va adottata pure quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna. L’intento della novella è quello di allineare in tutto e per tutto il vaglio del giudice dell’udienza preliminare a quello del giudice per le indagini preliminari richiesto dell’archiviazione e, in quest’ottica, si apprezza anche l’eliminazione del riferimento all’insufficienza e contraddittorietà degli elementi raccolti.

Ora, pare che l’innovazione sia idonea, almeno in astratto, a realizzare l’obiettivo di ridurre le ipotesi di rinvio a giudizio. Pare infatti che il delegato abbia “codificato” quegli indirizzi pretori più rigorosi che, già fino a oggi, ritenevano che il rinvio a giudizio potesse essere pronunciato solo in presenza di un quadro probatorio “serio”, tale da giustificare una prognosi di probabile condanna del prevenuto. Il che porta a dire che dovrà essere, al contrario, abbandonato l’opposto indirizzo giurisprudenziale, a detta del quale il passaggio al dibattimento si sarebbe potuto disporre in presenza di qualsivoglia situazione probatoria comunque “aperta”, ossia suscettibile di una possibile evoluzione dibattimentale.

Nondimeno, non si può nascondere il timore che, di per sé, la semplice riformulazione letterale di tale regola di giudizio non sia in grado di imprimere una vera e propria virata nella prassi; come è ben noto, per il giudice dell’udienza preliminare il rinvio a giudizio rimane pur sempre più conveniente perché si tratta di un provvedimento non motivato. Occorrerà allora fare una riflessione sull’opportunità di verificare eventuali tassi anomali di decreti che dispongono il giudizio in sede di valutazione sull’operato del singolo giudice, magari analizzando il dato alla luce dei proscioglimenti dibattimentali.

 

 

11. I procedimenti speciali.

 

Non è un mistero che la scommessa fatta dai codificatori del 1988 su un impiego massiccio dei riti speciali premiali, quale presupposto essenziale per il buon funzionamento del modello accusatorio, sia stata persa. Nonostante i molteplici tentativi compiuti dal legislatore nel corso degli anni, il numero di procedimenti speciali celebrati è rimasto sempre inferiore alle aspettative. Quel che è peggio è che alcuni riti alternativi su cui si era puntato di più, per deflazionare la criminalità minore – tra cui in particolare il patteggiamento e il procedimento per decreto – al posto di migliorare il proprio stato di salute statistica, negli anni Dieci del Duemila sono entrati in crisi profonda, vedendo abbattersi il loro tasso di operatività. Ebbene, al fine di invertire tale trend, la Commissione Lattanzi aveva predisposto una serie di proposte, assai innovative, in quest’ambito. Anche in questo caso, molte idee sono state andate perdute nel difficile negoziato tra le forze politiche. Ciò nondimeno, nella l. n. 134 del 2021 e nel decreto delegato non mancano novità, anche assai rilevanti, concernenti tutti i procedimenti speciali premiali.

 

 

11.1. Il giudizio abbreviato.

 

Il giudizio abbreviato è forse il rito alternativo che ha più risentito del ridimensionamento dei più ambiziosi propositi della Commissione Lattanzi. La l. n. 134 del 2021 non se l’è, infatti, sentita di accogliere la prospettiva più rivoluzionaria ventilata da tale consesso, ossia quella di sdoppiare l’abbreviato secco da quello condizionato, affidando quest’ultimo al giudice dibattimentale. Le preoccupazioni, legate alla diffusione delle incompatibilità e ai conseguenti rischi di funzionalità, soprattutto nelle sedi piccole, hanno indotto ad abbandonare l’idea.

Pertanto, se si eccettua la novità – decisamente apprezzabile – concernente lo sconto di pena aggiuntivo previsto per il condannato in abbreviato che faccia totale acquiescenza alla sentenza, che avremo modo di esaminare in seguito (infra, par. 14.3.), le modifiche effettivamente implementate dalla novella non appaiono rivoluzionarie, andando a incidere su tre aspetti abbastanza settoriali.

In attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 1 della l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 provvede, anzitutto, a modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, stabilite all’art. 438, comma 5, c.p.p. In sostanza, fermo restando il criterio della necessità dell’integrazione probatoria, già presente nella versione vigente della previsione, la novella mira a sostituire la regola di ammissione della “compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento”, con un parametro legato al concetto di risparmio di tempi rispetto ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale. A uno sguardo attento, non sfuggirà come una tale riformulazione letterale si ponga, in realtà, nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia. È noto, infatti, che la Consulta ha da lungo tempo stabilito che, per svolgere la valutazione circa le finalità di economia processuale del rito, l’abbreviato andasse posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale (Corte cost., 115/2001). Ebbene, proprio tenendo conto della giurisprudenza della Consulta in materia, sembra potersi dire che il nuovo criterio rappresenti un filtro a maglie assai larghe. Si deve, infatti, tenere presente che – proprio in ossequio a quanto affermato dal giudice delle leggi – l’abbreviato consenta pressoché sempre un risparmio di tempo rispetto al giudizio dibattimentale. Ciò nondimeno, la novità in questione pare comunque poter dare un contributo a incentivare il ricorso all’abbreviato condizionato: a ben vedere, infatti, nonostante l’esegesi estensiva, fornita dalla Corte costituzionale, una parte della giurisprudenza di legittimità aveva fatto comunque leva sulla clausola della compatibilità con l’economia processuale per giustificare il rigetto di richieste di integrazione probatoria. Ebbene, è chiaro che, con la nuova norma, tali indirizzi pretori dovranno essere ripensati, essendo stato fatto passare il messaggio per cui solo in casi residuali di marcata superfetazione probatoria il rito ex art. 438 c.p.p. non permetterebbe di realizzare comunque una economia processuale, rispetto ai prevedibili tempi del giudizio ordinario.

Maggiori perplessità desta, invece, l’introduzione di un nuovo ultimo periodo all’interno del comma 6-ter dell’art. 438 c.p.p., volto a stabilire esplicitamente che, laddove la richiesta di giudizio abbreviato, proposta nell’udienza preliminare, sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato. Pur trattandosi, infatti, di una norma che a sua volta va semplicemente a recepire quanto stabilito in via additiva dalla Consulta (cfr. Corte cost. 169/2003), tale innovazione non sembra avere uno specifico referente normativo nella legge delega, risultando, dunque, discutibile la sua introduzione da parte del Governo.

Il d.lgs. n. 150 contiene, infine, alcune modifiche (art. 27, comma 1, lett. b) volte a facilitare la conversione tra il rito immediato e il rito abbreviato. Più precisamente, tramite un’interpolazione dell’art. 458 c.p.p., si è inteso far sì che gli imputati che si vedano respinta una richiesta di giudizio abbreviato condizionata in sede di abbreviato possano avanzare, in seguito, una richiesta non condizionata, una di patteggiamento o una di sospensione del procedimento con messa alla prova. Nonostante le buone intenzioni, non si può fare a meno di segnalare come la modifica in questione sembri in grado di produrre benefici mimali in termini di riduzione del carico giudiziario, dato il numero estremamente basso di casi in cui in cui opera l’immediato (attestatosi, negli ultimi anni, a meno di 4000 procedimenti).

 

 

11.2. Il patteggiamento.

 

Anche l’applicazione della pena su richiesta delle parti ha rappresentato un terreno di confronto nel corso dei lavori preparatori della l. n. 134 del 2021. A seguito degli scontri tra le forze politiche sono state, invero, abbandonate diverse modifiche di notevole rilievo sistematico, quali, in particolare, il proposito di elevare la premialità, quantomeno per il patteggiamento concluso nel corso delle indagini preliminari, che era stato condiviso anche da alcuni emendamenti parlamentari.

Se un tanto è vero, va tuttavia riconosciuto che le modifiche effettivamente apportate in materia sembrano da accogliere positivamente, perché idonee a rendere più appetibile il procedimento negoziato, aiutandolo a superare la grave crisi di rendimento attraversata nell’ultimo decennio.

In primo luogo, la riforma, sulla scia, ancora una volta, delle sollecitazioni della Commissione Lattanzi, ha puntato su un allargamento dei profili negoziali del trattamento sanzionatorio; e ciò nella consapevolezza del fatto di comune esperienza per cui sono spesso le pene accessorie e la confisca ad essere avvertire come le sanzioni più afflittive. In quest’ottica, si prevede, più precisamente, una modifica dell’art. 444, comma 1, c.p.p., volta a stabilire che l’imputato e il pubblico ministero possano chiedere, da un lato, anche nel patteggiamento allargato al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata (salvo quanto previsto dal comma 3-bis dell’art. 444 c.p.p. per quanto concerne alcuni gravi reati nei confronti della pubblica amministrazione) e, da un altro lato, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, che non venga ordinata la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato. Correlato a tale ritocco è poi quello al comma 2 dell’art. 444 c.p.p., il quale attribuisce al decisore il compito di valutare la correttezza anche degli eventuali patti accessori concernenti la confisca, oppure le pene accessorie.

Non sfuggirà che questi interventi danno vita a una sorta di “codificazione ragionata” di alcuni recenti arresti delle sezioni unite. Ci si riferisce, in particolare, a quelle pronunce in cui il massimo collegio, superando un previo atteggiamento restrittivo della giurisprudenza, si era – in modo criticabile – spinto così in là da consentire, a codice invariato, la possibilità di concludere patti accessori sulle misure di sicurezza. Orbene, mediante la modifica in esame lo scenario è stato correttamente riportato nell’alveo del principio di legalità processuale, delineando in via normativa i confini e le modalità operative di questa tipologia di intese, dall’impatto potenzialmente dirompente.

In secondo luogo, sempre nella prospettiva di incentivare la scelta del rito in esame, la legge delega si è riproposta di ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi (art. 1, comma 10, lett. a), n. 2 della l. n. 134 del 2021).

Ebbene, onde recepire tali indicazioni l’art. 25, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 150 ha prefigurato una profonda riscrittura del comma 1-bis dell’art. 445 c.p.p., che si fonda su diversi livelli (cfr. Relazione illustrativa, p. 299).

Anzitutto, onde evitare che la sentenza di patteggiamento possa avere efficacia nel giudizio disciplinare, si è disposta l’abrogazione dell’inciso “salvo quanto previsto dall’articolo 653”, in apertura della menzionata disposizione.

A un secondo livello, il comma 1-bis dell’art. 445 stabilisce che la decisione negoziata, anche laddove sia pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, «non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile». Si tratta di una novità di sicuro rilievo dal momento che – com’è noto – una parte della giurisprudenza extra-penale era fino a oggi solita trarre precise inferenze probatorie dalla conclusione del pactum in sede penale, riducendo così sensibilmente l’appetibilità del rito concordato. Ne consegue, pertanto, l’obbligo di superare tali indirizzi esegetici, stante la chiara lettera della legge.

Infine, a un terzo livello, il decreto prevede che, in ogni caso in cui non si applichino pene accessorie (il che può avvenire, sia in ragione del fatto che la pena concordata si colloca in un range fino a due anni di reclusione, sia a seguito della nuova tipologia di intesa accessoria sul punto), verranno meno anche tutti gli altri effetti penali da intendersi come quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali; naturalmente, la disposizione ha il pregio per cui non vi è necessità di intervenire su tali leggi speciali, che restano in vigore e continuano ad applicarsi ogni volta che alla sentenza di patteggiamento verranno ricollegate pene accessorie.

In ultima analisi, va segnalato che il d.lgs. n. 150 racchiude delle modifiche (art. 27, comma 1, lett. c) volte a facilitare il passaggio tra una richiesta non accolta di patteggiamento presentata in sede di immediato, simili a quelle sopra esaminate per quanto concerne il giudizio abbreviato. Più nello specifico, un nuovo art. 458-bis c.p.p. stabilisce – tra l’altro – che nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto di un’istanza di applicazione della pena, presentata in sede di conversione di immediato, l’imputato, nella stessa udienza, potrà chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova o il giudizio abbreviato. Valgono, ovviamente, anche in questo caso le considerazioni già sopra avanzate concernenti l’incidenza modesta di applicazione concreta di tale forma semplificata di trasformazione tra riti speciali, stante il tasso di operatività molto basso del rito immediato.

 

 

11.3. Il procedimento per decreto.

 

Anche per quanto concerne il procedimento monitorio il legislatore ha messo in campo diverse innovazioni, così ambiziose da essere potenzialmente in grado di invertire la curva statistica discendente che tale rito ha avuto negli ultimi anni.

In primo luogo, l’art. 28, comma 1, lett. a), n. 1, d.lgs. n. 150 estende – tramite una modifica dell’art. 459, comma 1, c.p.p. – l’arco temporale in cui il pubblico ministero può avanzare la richiesta di decreto penale di condanna, fissandolo a un anno (e non più a sei mesi) dall’iscrizione ai sensi dell’art. 335 c.p.p. Il nuovo termine si raccorda con quello analogo di durata delle indagini per i reati diversi dalle contravvenzioni; e ciò, evidentemente, al fine di dare un lasso cronologico più ampio ai pubblici ministeri onde raccogliere un quadro probatorio sufficientemente solido da consentire la proposizione di istanza di rito monitorio. Una modifica, quest’ultima, che potrebbe essere in grado di ridurre, almeno in quota parte, il serio problema del numero elevato di casi in cui i prevenuti – evidentemente non convinti della solidità dell’impianto accusatorio – presentano opposizione al decreto emesso. Va segnalato che l’art. 68, comma 1, della novella apporta una modifica analoga anche in materia di responsabilità derivante da reato delle persone giuridiche, attraverso una modifica dell’art. 64 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

In seconda battuta, sempre nell’ottica di rendere più appetibile il rito in esame e di ridurre la quota delle opposizioni, si interpola una lettera h-ter all’interno del comma 1 dell’art. 460 c.p.p., volto ad attribuire una riduzione della pena ulteriore di un quinto, qualora il condannato, entro quindici giorni decorrenti dalla notificazione del decreto penale di condanna, rinunci all’opposizione e paghi la pena nell’entità ridotta. Come chiarito dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 150, «in pratica, il giudice nel decreto penale (se non già il p.m. nella sua richiesta) dovrà indicare due somme: quella “intera”, da pagare in esito all’acquiescenza al decreto, e quella ulteriormente ridotta di un quinto, da pagare entro 15 giorni dalla notifica del decreto, con contestuale rinuncia all’opposizione» (Relazione illustrativa, p. 305).

In terzo luogo, al fine di rendere più effettivo il recupero delle pene pecuniarie irrogate a seguito di emissione del decreto di condanna, l’art. 28, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 150 del 2022 interviene sul comma 5 dell’art. 460 c.p.p., subordinando l’estinzione del reato all’effettivo pagamento della sanzione monetaria. È evidente come tale intervento vada letto nel contesto del lodevole tentativo complessivo del legislatore di far fronte al gigantesco problema rappresentato dai livelli bassissimi di concreto recupero delle pene pecuniarie (v. Relazione illustrativa, p. 430), che – com’è noto – riguarda anche quelle irrogate a seguito di emissione di decreto penale.

Non meno importante è, infine, rilevare che, per effetto delle previsioni di cui all’art. 28, comma, 1, lett. a), nn. 2 e 3 del decreto in materia di sanzioni sostitutive delle pene detentive, la portata operativa del rito in esame è destinata ad ampliarsi notevolmente. Infatti, nell’alveo della complessiva riforma delle sanzioni sostitutive, si è anche previsto, attraverso una modifica profonda dell’art. 459, commi 1-bis e 1-ter, che la pena detentiva fino a un anno possa essere sostituita con quella pecuniaria e con il lavoro di pubblica utilità. Si tratta, evidentemente, di un’estensione significativa, la quale avvicina il nostro ordinamento a quelli (come l’Olanda) che attribuiscono un ruolo di primo piano ai riti monitori quali alternative al procedimento penale ordinario.

 

 

11.4. La sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

Da ultimo, il legislatore ha contemplato una serie di modifiche dedicate all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, finalizzate, nel loro complesso, a potenziare l’istituto, sebbene esso abbia già dimostrato un buon tasso di applicazione nei suoi primi anni di applicazione pratica. Come ricordato, infatti, dalla stessa relazione illustrativa al d.lgs. n. 150, i dati dimostrano come il meccanismo de quo abbia giocato un ruolo via via più importante, sia in ottica di deflazione del carico processuale, sia nella prospettiva di deflazione penitenziaria. A riprova di ciò, basti pensare che «al 31 dicembre 2021 il numero dei soggetti in carico all’UEPE per MAP superava quello di quanti, dopo una sentenza definitiva di condanna, erano a quella data affidati in prova al servizio sociale (19.327), la più ricorrente tra le misure alternative alla detenzione» (Relazione illustrativa, p. 470). Il che sta a significare che, in tale data, gli ammessi all’istituto rappresentavano un numero pari a circa il 45% dei detenuti.

Ciò premesso, va segnalato che la “riforma Cartabia” si propone di rafforzare ancor di più questo trend positivo, in una duplice direzione: anzitutto, ampliando il novero dei reati per cui il meccanismo in esame può essere applicato. A questo proposito, l’art. 1, comma 22, lett. a) della l. n. 134 del 2021 aveva, infatti, delegato il Governo a estendere l’area di operatività della MAP, oltre ai casi previsti dall’articolo 550, comma 2, del codice di procedura penale, a ulteriori specifici illeciti penali, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestassero a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore.

Orbene, sul punto va rilevato che, per esigenze di tecnica e di economia legislativa, il decreto legislativo di attuazione ha recepito tale direttiva di delega solo indirettamente, sfruttando, da un lato, il rinvio mobile all’art. 550, comma 2, già contenuto nell’art. 168-bis c.p.p. (ovvero la disposizione che perimetra l’operatività oggettiva dalla messa alla prova per adulti), e, da un altro lato, l’ampliamento del novero dei reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio, in eccezione ai limiti edittali contenuti nel primo comma dell’art. 550, operato dall’art. 32, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 (cfr. infra, par. 13.1.). In altre parole, per attuare il menzionato art. 1, comma 22, lett. a), l. n. 134 del 2021 il legislatore delegato non ha modificato le norme in materia di messa alla prova, ma si è limitato a intervenire direttamente sull’art. 550, comma 2, c.p.p.; di modo che l’ampliamento del catalogo dei reati di cui alla citata previsione processuale «è stato […] realizzato dal Governo includendovi reati che, oltre a non presentare particolari difficoltà di accertamento, si prestano a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto di cui all’art. 168 bis c.p.» (Relazione illustrativa, p. 471). Sebbene si tratti di un incremento meno ambizioso rispetto a quello suggerito dalla Commissione Lattanzi (che si era spinta persino a proporre di estendere la MAP a specifici reati puniti con pena massima fino a dieci anni) e a quello forse ammesso dalla stessa legge delega (la quale, facendo riferimento in modo espresso a reati “ulteriori” a quelli di cui all’art. 550, comma 2, c.p.p., sembra poter portare il Governo ad ammettere l’applicazione della MAP anche per fattispecie ulteriori rispetto a regiudicande passibili di citazione diretta a giudizio), ci pare comunque che tale novità vada salutata con favore, avendo le potenzialità di favorire una non trascurabile dilatazione ulteriore del numero delle probation processuali via via applicate, rispetto allo status quo.

A ogni modo, va segnalato che l’art. 90 d.lgs. n. 150 contiene una specifica disposizione transitoria in materia: essa prevede non solo che le disposizioni del decreto legislativo volte a estendere la MAP anche a ulteriori reati si applichino anche ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in appello, alla data di entrata in vigore del decreto, ma anche che, laddove siano già decorsi i termini di cui all’articolo 464-bis, comma 2, c.p.p., il prevenuto può formulare la richiesta, a pena di decadenza, entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore della novella (per contro, quando nei quarantacinque giorni successivi non fosse stata fissata udienza, la richiesta andrà depositata in cancelleria, entro il predetto termine).

La seconda via intrapresa per potenziare l’istituto concerne, invece, prettamente il piano processuale: si allude alla regola di cui all’art. 1, comma 22, lett. b), l. n. 134 del 2021, il quale ha delegato il Governo a prevedere che l’iniziativa concernente l’attivazione del procedimento di sospensione del procedimento con messa alla prova possa promanare anche dal pubblico ministero. A questo riguardo, va, anzitutto, rilevato che il legislatore delegato ha suddiviso lo schema procedurale di MAP attivata su proposta del pubblico ministero in due scansioni: 1) iniziativa dell’accusa; 2) adesione della persona sottoposta a indagini (o dell’imputato). Per contro, non è stato espressamente contemplato lo sviluppo di una fase di negoziazione formale tra tali soggetti, sotto forma, ad esempio, della presentazione da parte del prevenuto di una richiesta in parte emendata rispetto a quella dell’accusa. L’esperienza insegna, peraltro, che, nonostante tale lacuna, non è affatto detto che spazi per trattative tra tali soggetti, circa il raggiungimento di un pactum negoziato di messa alla prova, non si sviluppino informalmente nella prassi. Ed è proprio per questo motivo che ci pare che il legislatore delegato avrebbe fatto meglio a prevenire direttamente tale eventualità, regolandola ex ante nel codice.

Stiano o meno così le cose, va ulteriormente segnalato che il d.lgs. n. 150 ha comunque regolato, in modo minuzioso, la sequenza procedimentale della possibile iniziativa dell’accusa, in tema di attivazione della MAP. Sul punto, il delegato ha condivisibilmente assunto un approccio estensivo, consentendo che la proposta del pubblico ministero possa essere avanzata, non solo in udienza preliminare o in sede predibattimentale (il che, stando alla nuova versione dell’art. 464-bis c.p.p., farà scattare una “pausa di riflessione” di venti giorni entro cui l’imputato potrà decidere se chiedere o meno effettivamente di attivare l’istituto), ma anche al momento della conclusione delle indagini preliminari.

Si tratta dell’innovazione procedurale che potrebbe avere un significativo impatto deflativo. Tale ipotesi viene disciplinata dal nuovo art. 464-ter 1 c.p.p., interamente dedicato alla MAP su proposta del p.m. in indagini, il quale è completato da alcune regole di dettaglio, inserite nelle disposizioni di attuazione al codice di rito (cfr. artt. 141-bis e 141-ter disp. att. c.p.p.).

In estrema sintesi, il complesso di tali norme prevede che l’accusa, nell’ambito dell’avviso previsto dall’articolo 415-bis, possa proporre l’attivazione del probation processuale (anche avvalendosi dell’ausilio istruttorio dell’UEPE, per delineare i contenuti dell’istanza), indicando la durata e i contenuti essenziali del programma trattamentale. Ove ciò dovesse avvenire, la palla passerà all’indagato che avrà venti giorni per aderire con dichiarazione resa personalmente o a mezzo di procuratore speciale, depositata presso la segreteria del pubblico ministero. Va segnalato che, nel caso in cui si formasse un pactum, l’accusa sarà sempre tenuta a formulare l’imputazione (in piena coerenza con la tradizione nostrana in tema di attivazione dei riti speciali premiali nel corso delle indagini preliminari) e a trasmettere gli atti al giudice per le indagini preliminari, dando avviso alla persona offesa del reato della facoltà di depositare memorie. Infine, onde rendere più snello possibile il procedimento, il legislatore delegato ha previsto che l’ineliminabile vaglio del decisore sull’accordo di MAP in indagini (regolato in modo specifico dai commi 4 e 7 del nuovo art. 464-ter.1 c.p.p.) si svolga, di norma, all’esito di un procedimento cartolare, essendo comunque possibile per il giudice fissare un’udienza camerale, ai sensi dell’art. 127 c.p.p., oppure convocare il prevenuto onde verificare la volontarietà della sua richiesta.

Ci troviamo, in definitiva, di fronte a uno schema normativo assai articolato, che potrà in futuro rappresentare il modello di riferimento anche per gli ulteriori riti alternativi premiali attivati nel corso delle indagini preliminari (come il patteggiamento), per cui la disciplina attuale (ad es. concernente il momento e l’atto con cui l’accusa può effettivamente avanzare una sua proposta di intesa) continua a presentare vistose lacune e incertezze per gli operatori. Se un tanto è vero, non si può fare a meno di notare che, come giustamente ammesso dalla stessa relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 150, il successo dello schema di MAP predisposto è legato, ancor più di quanto già non accadesse fino a oggi, all’effettiva possibilità per gli UEPE di adempiere in modo rapido al carico di lavoro (inevitabilmente crescente) loro sottoposto: affinché il sistema non finisca per incepparsi, sarà assolutamente «cruciale, monitorando i dati statistici relativi all’evoluzione della MAP nei prossimi anni, assicurare che gli UEPE abbiano sempre una adeguata dotazione di risorse umane e materiali» (Relazione illustrativa, p. 480). Nel rinnovato assetto processuale, è ovvio che a dover fare buona guardia sul punto dovrà essere, in primis, il Comitato tecnico-scientifico per il  monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, creato dall’art. 2, comma 16, l. n. 134 del 2021 e già effettivamente istituito presso il Ministero della giustizia, proprio al fine di controllare l’effettiva funzionalità degli istituti finalizzati a garantire un alleggerimento del carico giudiziario, creati dalla riforma Cartabia, al quale dovranno, pertanto, essere periodicamente forniti i dati essenziali per comprendere il grado di intasamento degli UEPE.

 

 

12. Le modifiche relative al giudizio.

 

L’art. 30 d.lgs. n. 150 è interamente dedicato ad apportare alcuni significativi ritocchi alla disciplina sul giudizio, riassumibili in tre chiavi di lettura.

La prioritaria matrice di fondo dell’intervento muove nel segno di un irrobustimento del diritto alla prova delle parti, in una cornice che tocca anche i fondamentali principi di concentrazione e di immediatezza. Il tutto nel tracciato delle indicazioni contenute nell’art. 1, comma 11, l. n. 134 del 2021. Il secondo fil rouge, che attraversa la disposizione in commento, si sostanzia nell’introduzione di una disciplina quanto mai attesa, volta, finalmente, a dare corpo normativo e organicità al tema della richiesta dei riti speciali a fronte delle nuove contestazioni, sulla falsariga di quanto prescritto dall’art. 1, comma, 10, lett. e) e f) della legge delega. Infine, quale terza linea di fondo, si collocano ulteriori modifiche strettamente allacciate a diverse e precise novelle dettate dalla manovra in altri settori (processo penale telematico, forme di documentazione degli atti attraverso la riproduzione audiovisiva, partecipazione a distanza, processo in assenza).

Ebbene, volendo prendere le mosse dalla prima coordinata di azione del d.lgs. n. 150, da essa emerge chiaramente che la riforma “Cartabia” non si limita a porre le basi normative per una riduzione a monte del numero di giudizi pieni da celebrare, ma introduce una serie di novità volte a dare nuova linfa al canone di concentrazione, «quale presupposto di tutti i corollari del contraddittorio nella formazione della prova di cui all’art. 111, comma 4, Cost.» (Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 29). Gli interventi sul punto partono, più in particolare, da una constatazione di base: il palese fallimento dell’idea originaria dei codificatori del 1988 di dar vita a giudizi snelli e rapidi dipende anche da fattori di non adeguata organizzazione del lavoro giudiziario.

Per quel che riguarda l’art. 31 del d.lgs. n. 150, che inserisce un nuovo art. 545-bis nel codice di rito, destinato a disciplinare l’udienza di sentencing in caso di condanna a pene sostitutive, si rinvia a un successivo contributo che verrà pubblicato sulla rivista e destinato a illustrare in modo organico le modifiche relative al sistema sanzionatorio. 

 

 

12.1. Il calendario delle udienze.

 

In quest’ottica, l’art. 30, comma 1, lett. a), sulla traccia fissata dalla delega, modifica l’art. 477, comma 1, c.p.p., il quale stabilisce che, laddove non sia possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, «il presidente, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere». È il caso di rilevare come si tratti di una delle regole potenzialmente più importanti dell’intera riforma. E ciò in quanto – come chiarito dalla Commissione Lattanzi – essa non è tesa unicamente a codificare a livello generale e astratto una prassi di pianificazione delle udienze già contemplata da vari protocolli locali, ma ha un obiettivo ben più ambizioso: «quello di richiamare […] i dirigenti degli uffici a sperimentare forme innovative di organizzazione delle udienze dibattimentali, che tengano conto della maggiore efficienza […] della trattazione dei  casi in sequenza e non in  parallelo sia in termini di capacità di definizione che […] di chiusura [più rapida] dei processi» (Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 29).

Vi è da dire che il nuovo comma 1 dell’art. 477 c.p.p. riprende pressoché interamente la formulazione dell’art. 1, comma 11, lett. a) della legge delega, con la salutare aggiunta di due incisi. Da un lato, si colloca la precisazione riferita al presidente di fissare il calendario delle udienze «sentite le parti», in un’ottica di proficuo clima collaborativo tra gli attori coinvolti nella giustizia, premessa essenziale per agevolare la celerità del suo corso. Dall’altro lato, la disposizione di nuovo conio si rivolge, ancora una volta, al presidente e gli prescrive di calendarizzare le udienze, esplicitando per ognuna di esse «le specifiche attività da svolgere» e garantendo il perseguimento degli obiettivi di «celerità e concentrazione».

A cascata rispetto al nuovo profilo organizzativo introdotto viene, infine, interpolato l’art. 145, comma 2, disp. att. c.p.p. (art. 41, comma 1, lett. v). Per effetto dell’intervento, si tramuta in obbligo la facoltà del presidente, ivi prevista, di indicare, laddove il dibattimento si protragga per più giorni, quello in cui i testimoni, i periti, i consulenti tecnici e gli interpreti devono comparire.

 

12.2. L’illustrazione delle richieste di prova.

 

Nella prospettiva della valorizzazione del diritto alla prova, nonché dell’agevolazione della decisione del giudice del dibattimento sull’ammissione delle prove, si staglia, inoltre, l’art. 30, comma 1, lett. e) della novella.

La disposizione investe l’art. 493 c.p.p., al fine di prevedere che le parti procedano a un’illustrazione delle proprie richieste di prova, «esclusivamente» dal punto di vista della loro ammissibilità ai sensi degli artt. 189 e 190, comma 1, c.p.p. Giova osservare che la novella prende le mosse dall’esigenza di instaurare uno spazio dialettico nell’alveo delle richieste di prova formulate dalle parti; il che dovrebbe agevolare «un consapevole e razionale esercizio del sindacato giudiziale previsto dagli artt. 189 e 190 c.p.p., al fine di evitare un ingresso incontrollato di prove nel dibattimento» (Relazione illustrativa, p. 309). D’altra parte, l’impiego a opera della nuova disposizione della locuzione “esclusivamente” – che va, così, a circoscrivere con rigore l’oggetto dell’illustrazione – va letto alla luce della necessità di evitare situazioni di abuso della disciplina: proprio quegli abusi che avevano spinto il legislatore del 1999 a eliminare l’esposizione introduttiva. In sostanza, si vuole assicurare che la novella non diventi, di fatto, un’occasione per veicolare al giudice elementi di prova raccolti durante le indagini preliminari (Relazione illustrativa, p. 309). Per questo, forse si sarebbe potuto intervenire – sempre in forza dell’art. 1, comma 3 – su quel moncherino normativo che è il riferimento all’esposizione introduttiva nell’incipit dell’art. 494 c.p.p., sostituendola con l’illustrazione delle richieste di prova; in questa maniera, si sarebbe chiarito inequivocabilmente che non si tratta in alcun modo di un ritorno al passato.  

 

 

12.3. Mutamento del giudice e riassunzione delle prove.

 

Di portata centrale è, inoltre, l’art. 30, comma 1, lett. f), che interviene sull’art. 495 c.p.p. Sulle orme del tracciato disegnato dall’art. 1, comma 11, lett. d), l. n. 134 del 2021, a essere, in particolare, impattato è il principio di immediatezza, nell’ottica di fornire un rimedio al grave problema della modifica del giudice (dovuto per lo più al numero rilevante di trasferimenti di magistrati); evenienza che imporrebbe la necessaria rinnovazione delle prove già assunte, con tutto ciò che ne consegue in termini di dilatazione dei tempi processuali.

Ebbene, pur nella consapevolezza della necessità di intervenire sul piano ordinamentale, per risolvere alla radice la questione del passaggio troppo frequente dei magistrati da un ufficio all’altro (o all’interno dello stesso ufficio), il d.lgs. n. 150 cerca di individuare una soluzione di natura processuale, che offra un bilanciamento ragionevole tra i diversi valori in gioco, attraverso la valorizzazione dello strumento della videoregistrazione.

Più nel dettaglio, la novella inserisce un nuovo comma 4-ter nell’art. 495 c.p.p., il quale, anzitutto, fissa, quale regola generale, quella per cui, nei casi di mutamento del giudice nel corso del dibattimento, «la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate»; il che salvaguarda, evidentemente, il canone di immediatezza. In secondo luogo – e qui viene la novità – si esclude la riassunzione, qualora il «precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva». In ogni caso, tuttavia, si prevede che la rinnovazione possa essere disposta, laddove – secondo una regola analoga a quella di cui all’art. 190-bis c.p.p. – il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze.

In tal modo, l’intervento, non solo abbandona l’impostazione “estremista” contenuta nella versione originaria della “bozza Bonafede” (la quale era incentrata su un’estensione pressoché generalizzata dell’ambito di applicazione dell’art. 190-bis c.p.p., al contesto in esame), ma accoglie, in buona sostanza, un suggerimento proveniente dalla Consulta. Il giudice delle leggi – nella celebre sentenza n. 132 del 2019 (Corte cost. 132/2019) – ha, infatti, individuato nella videoregistrazione delle prove dichiarative uno strumento “compensativo” idoneo ad assicurare la correttezza della decisione, salvaguardando, contemporaneamente, l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale. Il che – è evidente – finisce per attribuire una sorta di “patente” di legittimità costituzionale ex ante al meccanismo ideato dal delegante – sulla base delle indicazioni maturate in seno alla Commissione Lattanzi – e ora sviluppato dal decreto legislativo in commento.

Non sfuggirà, peraltro, che la videoregistrazione della prova dichiarativa ha l’effetto di rafforzare lo stesso canone di immediatezza. Garantendo «una verbalizzazione attendibile e puntuale dell’assunzione della prova» (Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 16), idonea a fotografare pure i tratti non verbali della dichiarazione, essa consentirà al giudice di motivare facendo leva anche su queste sfumature dell’atto comunicativo, che oggi sfuggono alla documentazione d’udienza e, dunque, alla motivazione.

Anche in questo caso, la doverosa apertura nei confronti delle nuove tecnologie pare, in definitiva, aver consentito di tagliare un nodo gordiano, dando vita a una soluzione equilibrata, idonea ad assicurare, allo stesso tempo, un adeguato standard di tutela del principio di immediatezza e una gestione più oculata del fattore tempo, evitando la ripetizione di attività processuali che potrebbero risultare in concreto del tutto inutili.

                      Sulla scia di tali osservazioni, è appena il caso di rimarcare come l’intero impianto congegnato si leghi profondamente alle significative novità impresse, di pari passo, dal d.lgs. n. 150 quanto alle nuove forme di documentazione degli atti mediante la riproduzione audiovisiva (v., supra, par. 6). Di rilievo è il nuovo comma 2-bis dell’art. 510 c.p.p. (art. 30, comma 1, lett. i), secondo cui «l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva».

 

 

12.4. Relazione scritta e contraddittorio sulla prova tecnico-scientifica.

 

                      A conclusione delle innovazioni riconducibili al primo filo conduttore della manovra in tema di giudizio, merita indicare l’art. 30, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 150, finalizzato ad assicurare una più proficua esplicazione del contraddittorio processuale nel caso di prova scientifica. Il novum normativo congegnato al riguardo introduce due nuovi commi (commi 1-bis e 1-ter) nell’art. 501 c.p.p. e interpola il comma 2 della medesima previsione. In ragione di ciò, si prevede che, almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per l’esame del perito, quest’ultimo depositi in cancelleria la propria relazione scritta e che, allo stesso modo, provveda la parte che ha nominato un consulente tecnico (art. 501, comma 1-bis, c.p.p.), nonché quella che ne ha chiesto l’esame (art. 501, comma 1-ter, c.p.p.). È garantita, ad ogni modo, per effetto della modifica dell’art. 501, comma 2, c.p.p., la facoltà del perito e del consulente tecnico di prendere visione delle relazioni depositate.

Si tratta, evidentemente, di un intervento che parte dall’idea che il deposito preventivo dell’eventuale relazione tecnica dovrebbe essere in grado di agevolare la formazione di «un contraddittorio adeguatamente informato, e dunque, consapevole ed efficace, sulla prova scientifica» (Relazione illustrativa, p. 310). Ciò, si badi, ferma la natura di prova orale della perizia stessa, riaffermata anche recentemente dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2019, n. 14426).

            Va, infine, messo in risalto come si sia opportunatamente evitato di configurare una sanzione legata all’omesso o al tardivo deposito della relazione; scelta che è stata giustificata alla luce del fatto che questo «non possa pregiudicare la validità dell’esame orale del perito o del consulente tecnico» (Relazione illustrativa, p. 310).

 

 

12.5. Nuove contestazioni e accesso ai riti premiali

 

              Il secondo terreno di elezione dell’art. 30 d.lgs. n. 150 è rappresentato, come si è anticipato, dall’innesto di una disciplina finalizzata a normare il rapporto tra modifica dell’imputazione e richiesta di riti premiali. L’intervento va salutato con grande favore, giacché riconosce inequivocabilmente – a seguito delle innumerevoli pronunce della Corte costituzionale avvicendatesi nel tempo – il diritto del prevenuto di accedere ai riti alternativi in presenza delle nuove contestazioni.

              Ciò viene, in particolare, perseguito attraverso quattro essenziali linee di azione.

              La prima si sostanzia nel modificare l’art. 519, comma 1, c.p.p., al fine di far sì che l’imputato venga informato, a fronte delle nuove contestazioni, del diritto di formulare richiesta di giudizio abbreviato, di patteggiamento o di sospensione del procedimento con messa alla prova, «nonché di richiedere l’ammissione di nuove prove» (art. 30, comma 1, lett. l), n. 1).

              La seconda è consequenziale e riguarda il comma 2 dell’art. 519 c.p.p., il quale viene sostituito, in modo tale da conferire al prevenuto la facoltà di presentare, «a pena di decadenza entro l’udienza successiva», l’istanza relativa ai medesimi procedimenti speciali e la richiesta di ammissione di nuove prove (art. 30, comma 1, lett. l), n. 2).

              La terza si polarizza sull’art. 520 c.p.p. e ha lo scopo di adeguare tale previsione al nuovo impianto normativo (art. 30, comma 1, lett. m). Per la verità, a questo obiettivo si aggiunge quello di coordinare la materia delle nuove contestazioni rispetto alla riforma sul processo in assenza, parimenti introdotta dalla novella (cfr., supra, par. 8). Il quadro che ne deriva può essere, dunque, e in ultima analisi, così ricostruito. Anzitutto, la rubrica dell’art. 520 c.p.p. muta e diviene «nuove contestazioni all’imputato non presente»; di pari passo, la parola «assente» contenuta nel primo comma della previsione viene sostituita dall’espressione «che non è presente in aula, neppure mediante collegamento a distanza». Va da sé, pertanto, che la portata applicativa della disposizione risulta precisata e viene, in particolare, rivolta al prevenuto che non è presente in aula fisicamente o attraverso un collegamento a distanza; il che comprende anche le ipotesi in cui, «per espressa previsione legislativa, l’imputato debba considerarsi presente, nonché i casi in cui quest’ultimo sia evaso durante il dibattimento o sia comparso ad una precedente udienza dibattimentale» (Relazione illustrativa, p. 307). Una volta chiarito il campo operativo dell’articolo, il legislatore delegato provvede ad assicurare che, anche in tale evenienza, l’imputato sia avvertito che «entro l’udienza successiva può formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché richiedere l’ammissione di nuove prove».

              Infine, il quarto intervento tocca l’art. 141 disp. att. c.p.p., riguardante il procedimento di oblazione. Sulla falsariga delle modifiche adottate, si interpola il comma 4-bis dell’articolo, con il risultato che l’imputato è rimesso in termini per chiedere l’oblazione non solo nell’ipotesi di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale la medesima è ammissibile, ma anche «nel caso di nuove contestazioni ai sensi degli articoli 517 e 518 del codice» (art. 41, comma 1, lett. q).

 

 

13. Il procedimento davanti al tribunale monocratico.

 

Due sono le novità rilevanti in materia di procedimento davanti al tribunale monocratico, sulle quali merita soffermarsi.

 

 

13.1. L’estensione delle ipotesi di citazione diretta.

 

Come noto, la Commissione Lattanzi aveva condivisibilmente proposto di circoscrivere l’istituto dell’udienza preliminare ai procedimenti relativi ai reati di competenza della corte di assise e del tribunale in composizione collegiale (salve ipotesi specificamente previste) (art. 3, lett. i): ciò che avrebbe ridotto radicalmente l’incidenza statistica dell’udienza. Purtroppo, nel negoziato politico, questa innovazione coraggiosa è stata ridimensionata e l’art. 1, comma 9, lett. l) della l. n. 134 del 2021 ha delegato il Governo semplicemente ad ampliare il catalogo di reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica rispetto ai quali non va celebrata tale udienza, individuando le fattispecie in discorso unicamente nell’ambito dei delitti «puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento».

Nell’attuare la delega, l’art. 32, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 è intervenuto sull’art. 550, comma 2, c.p.p. ampliando in modo significativo il novero dei reati per i quali si applicherà il procedimento a citazione diretta. Tra questi, vanno segnalati, quanto meno per la rilevante incidenza statistica, la truffa aggravata (art. 640 cpv. c.p.), la frode in assicurazione (art. 642 c.p.) e l’appropriazione indebita (art. 646 c.p.): in questi casi, come emerge dalla relazione, si è tenuto anche conto della circostanza che spesso i querelanti si fanno parti attive con produzioni documentali o indicando persone informate sui fatti. Nei casi di disposizioni incriminatrici contenute nel medesimo articolo che prevedano pene diverse o circostanze aggravanti ad effetto speciale, per fattispecie sostanzialmente uniformi in punto di difficoltà di accertamento, il legislatore delegato ha giustamente cercato di razionalizzare il trattamento processuale dei reati, uniformandone la procedura attraverso l’estensione dell’ambito della citazione diretta, quando ciò fosse consentito dal criterio di delega. In tal senso, si possono citare l’esercizio abusivo di una professione aggravata per chi determina/dirige l’attività (art. 348 comma terzo c.p.); l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità aggravata dalla qualifica di capi, promotori, organizzatori (art. 340 comma terzo c.p.); la procurata inosservanza di pena in caso di delitto (art. 390 c.p.); la violazione di domicilio aggravata (art. 614 ultimo comma c.p.).

 

 

13.2. La nuova udienza predibattimentale: una scommessa pragmatica.

 

L’art. 1, comma 12 della l. n. 134 aveva delegato il Governo a prevedere un’innovativa udienza filtro, destinata a operare davanti al tribunale in composizione monocratica nell’alveo dei procedimenti a citazione diretta ex art. 550 c.p.p. Si tratta di istituto già presente nel testo originario del d.d.l. A.C. 2435, la cui introduzione veniva giustificata richiamando la necessità di configurare anche rispetto ai reati dove è prevista la citazione diretta a giudizio «un vaglio volto a evitare la comunque onerosa celebrazione di dibattimenti inutili, quando appaia scontato o notevolmente probabile che essi abbiano a concludersi con il proscioglimento» (Relazione al d.d.l. A.C. 2435, p. 8). Per parte sua, la Commissione Lattanzi dava prova di condividere la linea di intervento tratteggiata. In quest’ottica, si mettevano in evidenza due punti focali che avrebbero dovuto giustificare la previsione di un innovativo filtro giudiziale nei procedimenti a citazione diretta di cui all’art. 550 c.p.p.: da un lato, l’«elevatissimo numero di esiti assolutori che si registra nei procedimenti in questione» e, dall’altro lato, l’«esigenza logico-sistematica di affidare al controllo preventivo del giudice la corretta applicazione, da parte del pubblico ministero, del criterio di giudizio sotteso alla decisione di esercitare l’azione penale» (Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 31).

Ebbene, l’art. 32, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 ha attuato la delega, costruendo una disciplina che abbraccia a tutto tondo i profili della nuova «udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta» (così la rubrica dell’art. 554-bis c.p.p.).

Alla regolazione della stessa sono, in particolare, destinati gli inediti artt. 554-bis e 554-ter c.p.p., modulati secondo precise coordinate di fondo, che rispondono alle diverse finalità assegnate allo snodo processuale di nuovo conio.

In primo luogo, la novella configura l’udienza predibattimentale – da tenersi in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore dell’imputato e della pubblica accusa – quale sede deputata allo svolgimento di tutte le attività prodromiche al dibattimento. Sullo sfondo si intravvede l’esigenza di «consentire una più efficiente organizzazione» della fase dibattimentale (Relazione illustrativa, p. 318); l’idea è, in sostanza, quella di liberare il giudice, preposto a quest’ultima, dal compito di occuparsi delle attività diverse da quelle istruttorie e decisorie. Si tratta, invero, di adempimenti che – come messo in luce dalla relazione – «spesso, in ragione della loro non prevedibilità ex ante, impediscono la predisposizione di un calendario effettivo del dibattimento e, in particolare, dell’istruttoria» (Relazione illustrativa, p. 319).

Così, ai sensi dell’art. 554-bis, comma 2, c.p.p., la nuova udienza diviene il luogo in cui il giudice è tenuto ad accertare la regolare costituzione delle parti, nonché a vagliare il rispetto della normativa sul processo in absentia, laddove l’imputato non sia presente. In proposito, viene operato un puntuale rinvio alle disposizioni che rimodulano l’intero assetto sul diritto fondamentale del prevenuto a partecipare al proprio processo (artt. 420, 420-bis, 420-ter, 420-quater, 420-quinquies e 420-sexies c.p.p., sui quali, v., supra, par. 8). In stretta connessione con ciò, va letta l’interpolazione dell’art. 552, comma 1, lett. d), c.p.p., per effetto della quale, il decreto di citazione a giudizio deve contenere l’indicazione del giudice competente in relazione all’udienza di comparizione predibattimentale, con l’avviso all’imputato che, non comparendo, sarà processato in assenza (art. 32, comma 1, lett. b). Inoltre, sempre nell’udienza de qua, viene collocata la definizione delle questioni preliminari, le quali sono «precluse se non proposte subito dopo compiuto, per la prima volta, l’accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente» (art. 554-bis, comma 3, c.p.p.).

In linea con l’art. 1, comma 12, lett. b) e c), l. n. 134 del 2021, il legislatore delegato elegge, inoltre, la nuova udienza predibattimentale quale luogo volto a un controllo giurisdizionale sull’imputazione da svolgersi nel contraddittorio tra le parti.

Sulla falsariga delle innovazioni apportate all’udienza preliminare (v., supra, 10.2.), da un lato, viene introdotto un rimedio all’imputazione generica: l’art. 554-bis, comma 5, c.p.p. prescrive che, nel caso di inosservanza dell’art. 552, comma 1, lett. c), c.p.p., il «giudice, anche d’ufficio, sentite le parti, invita il pubblico ministero a riformulare l’imputazione e, ove lo stesso non vi provveda, dichiara, con ordinanza, la nullità dell’imputazione e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero».

Dall’altro lato, il comma immediatamente successivo è funzionale a far fronte ai casi di mancata corrispondenza tra le risultanze degli atti e l’imputazione. In particolare, nelle ipotesi in cui il fatto, la definizione giuridica, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza siano formulati in termini difformi da quanto emerge dagli atti, il giudice, anche d’ufficio, e sentite le parti, è tenuto a invitare la pubblica accusa a provvedere alle modifiche. Qualora ciò non si verifichi, si prescrive l’obbligo di restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 554-bis, comma 6, c.p.p.). Il novum normativo ha, oltretutto, cura di regolare i casi in cui, a seguito della modifica dell’imputazione, la fattispecie incriminatrice risulti attribuita alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, anziché monocratica, ovvero si configuri come un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare. Nel primo caso, la questione deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, «immediatamente dopo la nuova contestazione». Analogamente, si deve procedere quanto all’eccezione della seconda ipotesi (art. 554-bis, comma 7, c.p.p.).

L’ulteriore finalità impressa all’udienza filtro è quella di costituire la sede per l’eventuale richiesta di procedimenti speciali: a tal fine, l’art. 554-ter, comma 2, c.p.p. stabilisce che la richiesta di giudizio abbreviato, di patteggiamento, di sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché la domanda di oblazione devono essere formulate, a pena di decadenza, prima dell’emanazione dell’eventuale sentenza di non luogo a procedere.

La funzione decisiva della nuova udienza predibattimentale è quella di rappresentare un filtro contro le imputazioni azzardate. In questa prospettiva, l’art. 554-ter, comma 1, c.p.p. configura la possibilità che il procedimento abbia termine con una sentenza di non luogo a procedere. In proposito, viene richiamata la medesima regola di giudizio inserita nel nuovo art. 425, comma 3, c.p.p. (v., supra, par. 10.3.), sancendo che il giudice proceda in questo senso «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna». Per il resto, la previsione di nuovo conio opera un rinvio alle disposizioni dettate in relazione alla sentenza di non luogo a procedere, ove compatibili (si richiamano, in particolare, gli artt. 425, comma 2, 426 e 427 c.p.p.). Viene riprodotta, per di più, la regola in base alla quale la pronuncia de qua non possa essere emanata, qualora il giudice ritenga che dal proscioglimento consegua l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Segue una disciplina ad hoc destinata a regolare, da un canto, l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, e, dall’altro, la sua eventuale revoca

Sul primo versante, si colloca l’art. 554-quater c.p.p., il quale riflette pressoché interamente, salvi alcuni necessari adattamenti richiesti dalle peculiarità dell’udienza predibattimentale, l’art. 428 c.p.p. A ciò si aggiunge, di pari passo rispetto alle novità in materia di appello (v., infra, par. 14.3.), la prescrizione sull’inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere riguardante i «reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa» (art. 554-quater, comma 6, c.p.p.).

Sul secondo versante, viene in gioco l’art. 554-quinquies c.p.p. Esso provvede a normare la revoca della pronuncia in questione, prendendo a prestito la corrispondente disciplina ex artt. 434 ss. c.p.p. Ciò pur con i dovuti adeguamenti. In sostanza, nel regolare la materia, si è tenuto conto del fatto che alla revoca della pronuncia ex art. 554-ter c.p.p. non possa mai conseguire «la riapertura delle indagini, in quanto in questo caso il rito era già passato ad una fase successiva all’esercizio dell’azione penale propriamente processuale» (Relazione illustrativa, p. 319).

Per concludere, in ottemperanza all’art. 1, comma 12, lett. e), l. n. 134, laddove non venga emessa la sentenza di non luogo a procedere o non sia stata formulata richiesta di un rito alternativo, il comma 3 dell’art. 554-ter c.p.p. impone al giudice di fissare «per la prosecuzione del giudizio la data dell’udienza dibattimentale davanti ad un giudice diverso». Deve essere comunque rispettato un termine non inferiore a venti giorni tra la data di tale provvedimento e quella dell’udienza (art. 554-ter, comma 4, c.p.p.).

L’introduzione della nuova udienza predibattimentale ha, peraltro, imposto un’opera di interpolazione a valle di diverse previsioni codicistiche, in un’ottica di adeguamento alle novità.

A essere modificati sono, in particolare, gli artt. 552, 553 e 555 c.p.p. (art. 32, comma 1, lett. b), c) ed e). Quest’ultima previsione vede, più precisamente, mutare la sua rubrica in «udienza dibattimentale a seguito di citazione diretta» (art. 32, comma 1, lett. e), n. 1); a ciò, oltretutto, si somma l’abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 555 c.p.p. (art. 98, comma 1, lett. a). Da ultimo, va segnalata la modifica al comma 4 dello stesso articolo: sulla falsariga del ritocco svolto dal d.lgs. n. 150 all’art. 493 c.p.p. (v., supra, par. 12.2.), essa configura pure qui, nell’alveo delle richieste di prova, l’illustrazione delle medesime, «esclusivamente» quanto alla loro ammissibilità ai sensi degli artt. 189 e 190, comma 1, c.p.p. (art. 32, comma 1, lett. e), n. 3).

Chiude il cerchio la previsione di cui alla lett. f) dell’art. 32, comma 1, che inserisce nel codice di rito l’art. 558-bis c.p.p., destinato a disciplinare il giudizio immediato. Per un verso, il comma 1 – ribadendo per la verità quanto già desumibile dal rinvio generale dell’art. 549 c.p.p. – opera un richiamo alle disposizioni del titolo IV del libro sesto, in quanto compatibili. Per altro verso – e qui sta il punto di cesura rispetto al passato – il comma 2 dell’art. 558-bis c.p.p. sancisce che «nel caso di emissione del decreto di giudizio immediato non si procede all’udienza predibattimentale prevista dall’articolo 554-bis».

L’intervento determina, così, un netto e chiaro superamento della limitazione, avallata da una giurisprudenza ormai consolidata, dell’operatività di tale rito rispetto ai reati per i quali si applica il procedimento a citazione diretta. Secondo quanto chiarito dalla relazione, sarebbe proprio l’entrata in scena della nuova udienza – che, «come l’udienza preliminare, ha tra i suoi scopi principali di vagliare preliminarmente la sostenibilità dell’azione penale» – a sollecitare «l’applicazione di un rito che ha la funzione di evitare quel vaglio quando la prova appaia evidente» (Relazione illustrativa, p. 321).

La modifica è stata alquanto dibattuta in fase preparatoria, posto che, sul piano sistematico, sembra confermare una sostanziale equiparazione tra l’udienza predibattimentale e l’udienza preliminare: in fondo, il rito speciale postula di saltare una o più fasi in senso tecnico, mentre l’udienza predibattimentale è solo una porzione della fase del giudizio.

Nondimeno, in chiave pragmatica, si comprende la scelta del legislatore delegato. Al di là dell’equiparazione o meno con l’udienza preliminare, quel che appare chiaramente è che l’udienza predibattimentale si configura come una scommessa pragmatica.

Sul piano teorico, non si possono nascondere alcune perplessità.

Per un verso, viene introdotta, dove non c’era, un’udienza apparentemente simile all’udienza preliminare, che non ha certo dato prova di efficienza. Per altro verso, si consente al giudice del dibattimento di mettere gli occhi sul fascicolo di indagine. Certo, è un soggetto diverso da quello che eventualmente celebrerà il dibattimento; ma è pur sempre un collega dello stesso ufficio.

Ebbene, proprio qui sta la chiave di volta dell’istituto: nella scelta di collocare il filtro davanti allo stesso ufficio dibattimentale. Questo lo rende potenzialmente diverso dall’udienza preliminare, per la semplice ragione che il giudice monocratico avrà tutto l’interesse a guardare a fondo dentro il fascicolo: per sollecitare una definizione anticipata con rito alternativo e, in caso contrario, per definire subito il processo con sentenza di non luogo a procedere. Non dovrebbe insomma riprodursi quel meccanismo psicologico che porta il giudice dell’udienza preliminare ad adottare il provvedimento meno gravoso, ossia il rinvio a giudizio, “scaricando a valle” il processo a un altro ufficio. Così facendo, il giudice finirebbe infatti soltanto per appesantire il ruolo del collega. Da questa prospettiva, pare, insomma, possibile che la consapevolezza dei problemi trasversali di efficienza che attanagliano il medesimo ufficio, porti i giudici ad adottare un’impostazione pragmatica, opposta a quella verificatasi per quanto concerne l’udienza preliminare: se la scelta più “comoda” per i g.u.p. era quella dell’in dubio pro iudicio, per i tribunali monocratici c’è da auspicare che sia quella dell’in dubio pro reo, perché in grado di restituire un po’ di ossigeno ai ruoli trasversalmente intasati.

Inoltre, non si deve sottovalutare l’importanza di poter programmare le udienze stralcio avendo preso visione del fascicolo: il giudice potrà organizzarsi avendo piena contezza della causa; e, al fine di ottimizzare lo spoglio, sarà decisivo l’ausilio dell’ufficio per il processo che dovrebbe agevolare questa attività preliminare dell’ufficio che si trova in grande sofferenza. L’auspicio è che, nei tribunali, gli addetti vengano impiegati in modo mirato proprio per preparare al meglio le udienze predibattimentali.

Da ultimo, si deve rimarcare che questa udienza consente di attribuire un ruolo proattivo al giudice monocratico, anche sul versante della messa a punto dell’imputazione. Considerato che, proprio nei casi di citazione diretta, questa viene talora formulata da magistrati onorari, si coglie l’importanza del meccanismo contemplato dall’art. 554-bis, commi 5 e 6, c.p.p., sulla falsariga delle lett. b) e c) dell’art. 1, comma 12, l. n. 134 del 2021.

Come s’intuisce, si tratta di uno snodo processuale potenzialmente risolutivo, in grado di dare un contributo alla risoluzione di uno dei colli di bottiglia della giustizia penale, ossia il rito monocratico. Un rito le cui chiavi vengono consegnate proprio al giudice dell’udienza stralcio. Questi può infatti assumere un compito decisivo.

Anzitutto, chiudendo subito i processi che oggi sono destinati a concludersi con un’assoluzione al termine del dibattimento valorizzando la regola di giudizio più stringente. In alternativa, promuovendo i riti alternativi, laddove faccia semplicemente balenare la non infondatezza della citazione diretta: in tal modo, si aumenterebbe in modo significativo il tasso di applicazione dei riti premiali.

La scommessa potrà essere vinta solo se i giudici monocratici sapranno davvero assumere in concreto questa funzione. E, d’altronde, è una questione di vita o di morte, perché – come noto – il procedimento monocratico è oggi sull’orlo della bancarotta.

Certo, in prospettiva, sembra che questa modifica vada accompagnata da un alleggerimento a monte del carico dei tribunali in composizione monocratica. Posto che le prospettive di depenalizzazione sono difficilmente perseguibili in concreto (come conferma, d’altronde, lo stesso decreto-legge n. 162 del 2022 che ha inaugurato la XIX Legislatura con l’introduzione di un nuovo reato), l’unica strada potrebbe essere quella di un ripensamento del catalogo dei reati di competenza del giudice di pace. In effetti, una proposta in tale senso era venuta dalla Commissione Castelli, che aveva prospettato l’attribuzione al giudice onorario di una serie di reati che hanno grande incidenza statistica.

 

 

14. Le impugnazioni.

 

Nel corso dei lavori preparatori del d.d.l. A.C. 2435, dalla cui approvazione è scaturita la “riforma Cartabia”, la materia delle impugnazioni è stata, indubbiamente, una delle più discusse.

Com’è noto, al fine di rimediare al “peccato originale” del codice del 1988, rappresentato dal non aver adeguato il sistema dei rimedi al nuovo assetto accusatorio, la Commissione Lattanzi aveva avanzato diverse proposte ambiziose, molte delle quali concentratesi sull’appello penale. L’aspetto focale di tale iniziativa stava, infatti, nell’idea di trasformare il giudizio penale di seconda istanza in uno strumento di controllo nel merito della sentenza di primo grado a favore del solo imputato, attivabile solo per una serie di ragioni prestabilite dalla legge. La manovra avrebbe consentito di limitare sensibilmente i gravami, non tanto con l’eliminazione degli appelli del p.m. e della parte civile – che sono statisticamente assai poco rilevanti – ma soprattutto in ragione del fatto che essa avrebbe comportato una – seppur moderata – razionalizzazione dello strumento pure a favore dell’imputato. Il che avrebbe contribuito a riaffermare la centralità del giudizio di prime cure, con un conseguente effetto di responsabilizzazione dell’accusa e dello stesso giudice: la trasformazione dell’appello avrebbe aiutato a scardinare quell’approccio – ancora così radicato nella mentalità degli operatori – che porta a concepire il processo penale come una reiterazione di giudizi di merito che perfezionano progressivamente il prodotto giurisprudenziale.

Purtroppo, un progetto trasformativo come quello proposto ha finito per scontrarsi con le resistenze corporative. A fronte degli apprezzamenti di una parte degli studiosi, la magistratura e l’avvocatura hanno sollevato un fuoco incrociato di critiche. Pur di adottare la novella in tempi rapidi, il Governo si è trovato costretto a stralciare le proposte più ambiziose della Commissione Lattanzi, che, pertanto, non hanno trovato spazio nella l. n. 134 del 2021.

Pur al netto di tale ridimensionamento, va riconosciuto come nella delega e nel decreto legislativo di attuazione sia comunque rimasta una serie di modifiche di ampio respiro volte a razionalizzare il sistema delle impugnazioni. Anche in questo caso il filo rosso della maggior parte dei ritocchi in materia è quello di accorciare i tempi della giustizia e di deflazionare i ranghi dei giudici dei rimedi. Un obiettivo, quest’ultimo, quanto mai opportuno, se si considera la situazione di cronico sovraffollamento di gravami in cui versano, tanto molte corti d’appello, quanto la Cassazione. Ancora una volta, la riforma non si è fermata però qui, ma contiene anche norme volte a colmare lacune croniche dell’ordinamento processuale penale italiano, tanto a livello tecnologico e/o organizzativo, quanto di tutela dei diritti fondamentali dei prevenuti.

Per di più, non si può sottovalutare la circostanza che una spinta fortissima alla ridefinizione dei moduli organizzativi verrà dal vincolo esterno di quel metronomo che è l’improcedibilità. Pur esterno al sistema delle impugnazioni, si tratta di istituto che finirà per condizionare in modo ineludibile il suo plasmarsi in concreto, perché le corti d’appello in particolare dovranno valorizzare tutte le soluzioni organizzative per riuscire a fare in modo che l’improcedibilità sia solo un’evenienza eccezionale. Peraltro, onde fugare il rischio di un’applicazione estensiva dell’improcedibilità, la novella ha imposto, tramite l’inserimento di un nuovo art. 165-ter disp. att. c.p.p., alle corti d’appello e alla Corte di cassazione di compiere un monitoraggio costante del rispetto dei termini di improcedibilità, ma ha anche cercato di rilanciare l’efficienza del rimedio in esame attraverso l’introduzione di un ventaglio articolato di modifiche di stampo processuale

Prima di illustrarle analiticamente, conviene precisare che, laddove non dovesse essere prevista una specifica disciplina intertemporale in sede di conversione del decreto-legge n. 162, è destinato a operare il principio di diritto fissato dalle Sezioni unite in forza del quale, in materia di impugnazioni, l’applicazione del principio tempus regit actum richiede di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione (Cass., sez. un., 29 marzo 2007, n. 27614, Lista, in Cass. pen., 2007, p. 4451; conf. Cass., sez. I, 29 aprile 2021, n. 27004, ivi, 2021, p. 4054; Cass., sez. II, 25 ottobre 2018 n. 50213). Peraltro, laddove la modifica non riguardi la sussistenza del diritto stesso ad impugnare, ma incida soltanto sulla disciplina delle modalità del suo esercizio, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile la nuova disciplina (Cass., sez. V, 19 marzo 2018, n. 23631, in C.E.D. Cass., n. 273282;

 

 

14.1. Le disposizioni generali sulle impugnazioni.

 

A essere oggetto di non secondarie modifiche sono, anzitutto, le disposizioni generali sulle impugnazioni.

La prima serie di interventi in materia, contemplata sin dalla versione originaria del d.d.l. A.C. 2435, va letta nel contesto della grande spinta che la riforma si propone di compiere, affinché vengano poste le basi di un processo penale telematico. Nell’attuare l’art. 1, comma 13, lett. b), l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 provvede, per un verso, ad abrogare l’art. 582, comma 2, c.p.p. e l’art. 583 c.p.p. (art. 98) e, per un altro, a interpolare l’art. 582 c.p.p. Nella sua versione rinnovata, la norma appena richiamata attribuisce, in modo espresso, alle parti la possibilità di depositare in forma telematica anche gli atti d’impugnazione, fatta salva la facoltà per quelle private di continuare ad avvalersi delle modalità tradizionali, costituite dalla presentazione personale del gravame, anche a mezzo di incaricato, nella cancelleria del giudice a quo (art. 33, comma 1, lett. e). Va detto che il meccanismo appena ricordato ha alle spalle la sperimentazione di un istituto simile durante l’emergenza pandemica: si allude a quanto era stabilito dall’art. 24 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, come convertito dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176. Quest’ultima norma, che prevede anche l’invio tramite posta elettronica certificata risulta applicabile fino al 31 dicembre 2022, in forza della proroga disposta dall’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15. Il problema è che il nuovo art. 582 è destinato a entrare in vigore a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti previsti per la disciplina del processo penale telematico (art. 87), mentre gli artt. 582, comma 2, e 583 c.p.p. sono abrogati con efficacia immediata. In tal modo si rischierebbe che, dopo la fine dell’anno, le modalità siano molto penalizzanti per l’imputato: l’auspicio è pertanto che si intervenga a prorogare la disciplina emergenziale – sotto lo specifico profilo della proponibilità via p.e.c. – sino all’entrata a regime della disciplina relativa al processo penale telematico.

Al di là dei profili intertemporali, la nuova disciplina va certamente apprezzata, in quanto consente di superare definitivamente la giurisprudenza tradizionale che, sulla base di un atteggiamento formalistico, negava la possibilità di depositare i gravami tramite strumenti informatici. È facile intuire che, anche da questa prospettiva, la digitalizzazione del procedimento dovrebbe comportare un importante risparmio di tempi e di energie per le parti, favorendosi la soluzione del problema dei “tempi morti” nel passaggio tra i diversi gradi di giudizio, di cui si è avuto già modo di accennare in precedenza.

Un’altra disposizione fortemente modificata dalla riforma è quella dell’art. 581 c.p.p.

Il nuovo comma 1-bis pone in realtà una disposizione relativa unicamente all’appello e quindi va presentata quando si tratterà delle modifiche relative al secondo grado (cfr. infra, par. 14.3).

Alla stessa logica si ispira il nuovo comma 1-quater dell’art. 581 c.p.p., il quale si colloca nell’ambito della sopra esaminata riforma del processo in absentia: esso stabilisce che il difensore dell’imputato assente può impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza. Com’è evidente, l’intento è quello di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell’imputato, volendosi in tal modo evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati ignari del processo. Si tratta di un’iniziativa che ha incontrato critiche sia in dottrina, sia nell’avvocatura, fondate sul rilievo per cui la nuova norma, costituendo un serio ostacolo ai poteri della difesa, rischierebbe di aumentare il rischio di errori giudiziari. A stemperare, almeno in parte, tali critiche sta il fatto che il legislatore ha contemplato diverse tutele compensative rispetto alla nuova previsione. Tra queste rientrano, non solo l’ampliamento di quindici giorni del termine per impugnare per l’imputato assente, ma anche l’estensione del rimedio della restituzione in termini per impugnare. Un nuovo comma 2.1 dell’art. 175 c.p.p. provvede, infatti, a stabilire che l’imputato giudicato in assenza sia restituito, a richiesta, nel termine per proporre impugnazione, laddove fornisca la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa.

Strettamente connessa alla regola appena esaminata è quella del nuovo comma 1-ter dell’art. 581 c.p.p. – introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 – che prescrive alle parti private e ai difensori di depositare, a pena d’inammissibilità, con l’atto d’impugnazione la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. È chiaro come l’imposizione di tale onere formale abbia lo scopo, certamente condivisibile, di ridurre la probabilità di celebrare giudizi di gravame nei confronti di soggetti non effettivamente a conoscenza della data dell’udienza. Le parti sono, invero, state in tal modo responsabilizzate essendo, evidentemente, chiamate a indicare un indirizzo a loro congeniale, dove ricevere le notificazioni concernenti le regiudicande che le riguardino.

In conclusione, dalle ricordate modifiche relative alle disposizioni generali sulle impugnazioni sembra emergere un indirizzo chiaro nel senso del superamento del canone tradizionale del favor impugnationis, che merita di essere ripensato: per un verso, esso aveva una matrice in un contesto inquisitorio, nel quale era radicata la convinzione che la reiterazione dei giudizi fosse la via per ottenere una decisione giusta; per altro verso, la mole esorbitante di impugnazioni (si pensi che, negli ultimi trent’anni, le pendenze in appello in Italia sono cresciute di oltre il 142%, essendo passate da meno di 110.000 nel Duemila a oltre 260.000 nel 2019, con valori più di sette volte superiori alla Francia e più di sedici volte se paragonati a quelli della Polonia) ha reso improcrastinabile un impiego più razionale delle (scarse) risorse a disposizione dei giudici dei gravami, introducendo degli oneri di serietà a carico di chi attivi il rimedio.

 

 

14.2. I rapporti tra improcedibilità e azione civile e tra improcedibilità e confisca

 

Infine, in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, comma 13, lett. d), della legge delega, il d.lgs. n. 150 provvede a dettare alcune disposizioni, finalizzate a meglio regolare i rapporti dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione con l’azione civile esercitata nel processo penale, nonché con la confisca disposta con la sentenza impugnata.

Dal primo angolo visuale, il legislatore delegato ha modificato l’art. 578 c.p.p., rispetto a quanto originariamente stabilito dall’art. 2, comma 9, della l. n. 134 del 2021; disposizione quest’ultima che – com’è noto – nella precedente formulazione stabilisce che, nel caso in cui l’imputato sia condannato, anche in forma generica, le corti d’appello e la Cassazione sono tenute, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di improcedibilità, a rinviare per la prosecuzione del procedimento al giudice civile competente per valore, chiamato a decidere valutando le prove acquisite nel corso del procedimento penale (art. 578, comma 1-bis, c.p.p.). Ebbene, a questo proposito il d.lgs. n. 150 introduce varie modifiche al comma 1-bis della previsione: tra queste spiccano l’estensione, tanto dell’ambito oggettivo di applicazione della norma, la quale risulta applicabile in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli effetti civili, quanto della piattaforma istruttoria utilizzabile dal giudice civile dopo la trasmissione della regiudicanda, la quale ricomprende anche le prove acquisite eventualmente di fronte a lui. Allo stesso tempo, la nuova regola precisa che il meccanismo di trasmissione degli atti al decisore civile corrispondente può operare nel solo caso in cui l’impugnazione presentata nell’ambito del procedimento penale sia ammissibile. È chiaro come, così facendo, il legislatore delegato abbia, evidentemente, dato seguito a quello che era già l’orientamento giurisprudenziale prevalente formatosi in tema di rapporti tra improcedibilità e inammissibilità. Si allude al fatto che la suprema Corte in vari arresti aveva già chiarito che, nel caso di concorrenza tra il meccanismo di cui all’art. 344-bis c.p.p. e un’ipotesi di inammissibilità dovesse essere data prevalenza a quest’ultima. A seguito dalla suddetta modifica al comma 1-bis dell’art. 578 c.p.p. siffatto condivisibile filone pretorio acquisisce un chiaro puntello normativo esplicito. Il quadro normativo complessivo così delineato viene poi completato dall’inserimento di un nuovo comma 1-ter all’interno della medesima disposizione: onde evitare che il passaggio tra procedimento penale e civile finisca per avere quale effetto collaterale la dispersione del patrimonio del prevenuto, esso stabilisce che, nei casi di cui al nuovo comma 1-bis dell’art. 578 c.p.p., gli effetti del sequestro conservativo disposto a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato permarranno fino a che la sentenza che decide sulle questioni civili non sia più soggetta a impugnazione.

Ma non è tutto. Al fine di attuare l’ultima parte dell’art. 1, comma 13, lett. d) e di assicurare una coerenza intrinseca tra il nuovo art. 578 c.p.p. e la disciplina generale delle impugnazioni, l’art. 33, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 interpola un nuovo comma 1-bis all’interno dell’art. 573 c.p.p.: esso contempla un meccanismo analogo di trasferimento al giudice civile, operante in tutti i casi in cui la sentenza penale sia impugnata per i soli interessi privatistici e laddove il gravame non sia inammissibile. Ci troviamo, evidentemente, di fronte a una novità in grado di innovare profondamente lo scenario tradizionale (fondato sulla regola per cui le impugnazioni per i soli interessi civili sono proposte, trattate e decise con le forme ordinarie del processo penale), la quale è giustificata dalla relazione di accompagnato alla novella sulla base di ragioni di efficienza processuale (Relazione illustrativa, p. 331). La novità in questione determinerà, infatti, un risparmio di risorse, dal momento che nelle fattispecie in cui la decisione penale sia impugnata per i soli interessi civili starà ai giudici civili e non più a quelli penali dover proseguire il procedimento, utilizzando le prove acquisite nel processo penale o, eventualmente, assunte di fronte a sé. Per la verità, pare che il risparmio prefigurabile in proposito sia modesto, visto il tasso tradizionalmente basso di gravami attivati solo per far valere questioni privatistiche. Più convincente pare, invece, la parte della relazione in cui si nega che siffatta nuova forma di trasferimento possa determinare problemi di legittimità costituzionale: esso pare, invero, coerente con i più recenti arresti della Consulta in tema di impugnazioni della parte civile (cfr., ad esempio, Corte cost. 176/2019), posto che il giudice civile non potrebbe accertare, neppure incidentalmente, il tema della responsabilità penale, limitandosi a statuire sulla domanda risarcitoria.

Con riguardo al rapporto tra improcedibilità e confisca viene, invece, in gioco l’art. 33, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150, il quale introduce all’interno del codice di rito un nuovo art. 578-ter. Sotto tale profilo, occorre anzitutto considerare il punto di partenza del ragionamento del legislatore delegato, esplicitato nella relazione di accompagnamento al testo. La disciplina in materia, infatti, si fonda sul duplice presupposto per cui, per un verso, la confisca penale presupporrebbe la presenza di una condanna applicata in un procedimento penale informato a tutte le garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale e, per un altro, le decisioni ex art. 344-bis c.p.p. impedirebbero al giudice di proseguire nell’esame nel merito e di giungere a una condanna definitiva, caducando la precedente pronuncia. A detta del delegato, il superamento dei termini massimi previsti per il giudizio di impugnazione darebbe vita a uno sbarramento processuale che, diversamente da quanto accade per l’art. 578-bis c.p.p. in materia di prescrizione sostanziale e di amnistia, impedirebbe qualsivoglia «prosecuzione del giudizio, anche solo finalizzata all’accertamento della responsabilità da un punto di vista sostanziale e svincolato dalla forma assunta dal provvedimento» (Relazione illustrativa, p. 328). In modo coerente rispetto a tale impostazione di fondo, una volta esclusa la possibilità di proseguire il processo penale ai soli effetti della confisca penale, nonché la possibilità di trasferire la causa ad altro giudice, si è dovuta stabilire la regola generale della privazione degli effetti della misura ablatoria in sede penale, con la sola eccezione costituita dalle ipotesi di confisca obbligatoriamente prevista dalla legge anche fuori dai casi di condanna (come, ad esempio, quelle di cui all’art. 240, comma 2, n. 2, c.p.).

Nondimeno, a parziale attenuazione del criterio così stabilito, il legislatore delegato ha inteso creare un canale informativo di collegamento stabile tra procedimento penale ordinario e di prevenzione. Si allude al comma 2 dell’art. 578-ter c.p.p., il quale, nel caso vi siano beni in sequestro di cui nella sentenza impugnata sia disposta confisca, impone ai giudici dell’impugnazione di disporre, dopo aver dichiarato l’azione penale improcedibile, con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto o al procuratore nazionale antimafia, competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Come ha avuto cura di precisare la relazione, tale onere informativo non ha lo scopo di trasferire in altro ambito la confisca penale vera e propria, ma ha la funzione di mero impulso circa l’attivazione della procedura preventiva, da svolgersi nel rispetto della disciplina propria del procedimento di prevenzione, dettata dal cd. “codice antimafia” (Relazione illustrativa, p. 329).

Infine, va segnalato che, onde incrementare l’effettività, tanto della rinnovata versione dell’art. 578, comma 1-bis, c.p.p., quanto dell’art. 578-ter c.p.p. il legislatore delegato ha previsto l’interpolazione di un nuovo art. 175-bis all’interno delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, il quale impone alla Cassazione e alle corti di appello, nei procedimenti in cui vi siano parti civili o beni in sequestro, di pronunciarsi non oltre il sessantesimo giorno successivo al maturare dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione, di cui all’art. 344-bis c.p.p. Si tratta di una disposizione assai apprezzabile, volta a «evitare il pregiudizio che un ritardo nella declaratoria di improcedibilità potrebbe produrre all’azione della parte civile e alle esigenze di pronta attivazione dell’autorità giudiziaria compente per le misure di prevenzione» (Relazione illustrativa, p. 331), che testimonia, una volta di più, la costante (e rara) attenzione del legislatore delegato non solo per il piano normativo/regolatorio, ma anche per quello strettamente pratico-operativo.

 

 

14.3. Verso un appello quale istanza di controllo sulla decisione di prime cure

 

Nonostante il menzionato abbandono dei più ambiziosi propositi di riforma della Commissione Lattanzi, il giudizio di seconda istanza risulta senz’altro il rimedio su cui la riforma Cartabia è intervenuta in modo più incisivo. Ciò non stupisce, dal momento che i dati concernenti la durata media e l’arretrato abnorme testimoniano come – specie a causa del cattivo stato di salute in cui versano alcuni uffici giudiziari, tra cui, in primis, le corti d’appello di Roma e di Napoli – tale impugnazione rappresenti davvero uno dei principali colli di bottiglia del sistema penale italiano.

Ma non vi è solo un’istanza efficientistica: al fondo, vi è la volontà di fare un ulteriore passo avanti nella direzione della trasformazione dell’appello in uno strumento autenticamente di controllo. Sono passati più di cinquant’anni da quando la dottrina processualpenalistica ha dimostrato che l’appello è un giudizio mediato dal procedimento di primo grado e che pertanto esso non può che ispirarsi alla logica propria di ‘controllo’ sul giudizio (Massa). Un controllo per il quale non sono necessarie le regole che servono al giudizio, né tanto meno, i principi del giudizio. E sono passati più di trent’anni da quando il codice Vassalli ha stabilito che il giudizio, nel nostro sistema, presuppone il contraddittorio per la prova; e più di vent’anni da quando si è scolpito questo principio nell’art. 111 Cost.

Ebbene, la riforma intende anzitutto rafforzare la logica del controllo nell’appello.

Il più chiaro segnale di tale volontà di rigettare l’idea di un appello come “giudizio a tutto campo”, accogliendo, invece, una visione del rimedio quale mezzo di controllo (v. Relazione illustrativa, p. 324), su specifici punti e ragioni, della decisione di prime cure è fornita dall’art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150: esso, in attuazione dell’art. 1, comma 13, lett. i) della l. n. 134 del 2021, interpola all’interno dell’art. 581 c.p.p. un nuovo comma 1-bis, volto a prevedere l’inammissibilità dell’impugnazione di merito, «per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione». Va detto che, al netto delle perplessità circa la collocazione sistematica della nuova previsione – che, al posto di essere inserita all’interno delle disposizioni generali sulle impugnazioni, avrebbe potuto essere autonomamente introdotta all’interno del titolo II (ad es. tramite l’inserimento di un art. 593-ter) – l’origine della previsione è chiara. Essa si ricollega, infatti, alla nota giurisprudenza delle sezioni unite, secondo cui l’appello, al pari del ricorso in cassazione, deve necessariamente enunciare in modo puntuale ed esplicito i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione censurata (cd. “specificità estrinseca”). Una giurisprudenza che già la “riforma Orlando” aveva cercato di cristallizzare, tramite però una riscrittura dell’art. 581 c.p.p. talmente maldestra da non aver convinto i commentatori.

Pur a fronte dell’indubbia portata dogmatica della novità, non è facile comprendere se la stessa si limiti a codificare finalmente in modo adeguato siffatto indirizzo pretorio – a dire il vero già radicato – oppure se la stessa sia idonea a innalzare ancora di più lo standard di specificità estrinseca fino a oggi richiesto. Peraltro, la risposta a tale quesito può avere un’incidenza anche rispetto alla disciplina transitoria, posto che, in relazione alla riforma Orlando, la Cassazione aveva avuto modo di chiarire l’immediata applicabilità del nuovo art. 581 c.p.p. perché aveva semplicemente recepito un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 6554).

Ebbene, un possibile argomento nel senso dell’elevazione dello standard potrebbe desumersi da quel passaggio della relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 in cui si afferma che l’intento della novella è quello di «innalzare il livello qualitativo dell’atto d’impugnazione e del relativo giudizio in chiave di efficienza» (p. 324). L’obiettivo è legittimo, purché la giurisprudenza non assuma atteggiamenti troppo formalistici, finendo per trasformare surrettiziamente il controllo sulla specificità dei motivi in un controllo sulla loro non manifesta infondatezza. Ed è proprio per evitare il realizzarsi di una tale eventualità che i giudici d’appello devono fare sempre attenzione a parametrare il livello di precisione richiesto alle parti, con l’ampiezza delle argomentazioni della sentenza di primo grado, non imponendo all’appellante standard insostenibili. Il che sta a significare che, nel caso in cui la motivazione del giudice su un punto manchi o sia aspecifica, anche nei confronti dei motivi d’appello non dovrebbero continuare a imporsi livelli di puntualità troppo rigidi. Per contro, nel caso in cui il decisore di primo grado adempia adeguatamente ai propri obblighi motivazionali, ex artt. 192 e 546 c.p.p., allora anche l’appellante dovrà, in modo direttamente proporzionale, enunciare con la dovuta precisione i rilievi critici avverso le argomentazioni impiegate dal giudice.

Insieme a questa modifica va letto quel passaggio del nuovo art. 598-bis c.p.p. secondo il quale la corte «giudica sui motivi, sulle richieste e sulle memorie». Il nuovo art. 581, comma 1-bis, c.p.p. e la norma appena richiamata non possono che condurre a una lettura evolutiva dell’art. 597, comma 1, c.p.p., che è rimasto invariato, ma si trova in un sistema completamente diverso. La cognizione del giudice d’appello, una volta superato il vaglio di ammissibilità, continua ad avere ad oggetto il punto della decisione, al quale si riferisce il motivo: ma quest’ultimo avrà un ruolo fondamentale nella lettura critica della sentenza. È ben vero che il giudice mantiene il potere di riformare anche per un motivo diverso da quello sollevato dalla parte, ma nella logica introdotta dalla riforma questa sembra un’evenienza residuale. Il giudice viene insomma guidato dal motivo (arg. ex art. 598-bis, comma 1, c.p.p.), anche se non può essere vincolato dallo stesso (arg. ex art. 597, comma 1, c.p.p.).

Nella stessa direzione conduce una delle novità sistematicamente più importanti dell’intero progetto riformatore, ossia la cartolarizzazione del giudizio di seconde cure, attuata dall’art. 34, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150. Non sfuggirà come il nuovo art. 598-bis, oltre a perseguire intenti acceleratori, si spieghi alla luce della volontà di accentuare la natura dell’appello quale mezzo di gravame prevalentemente finalizzato a controllare quanto fatto in primo grado. È proprio in quest’ottica che sembra, invero, potersi leggere l’idea per cui l’appello potrebbe svolgersi di regola in forma scritta: fino a quindici giorni prima dell’udienza, il procuratore generale può presentare le sue richieste e tutte le parti possono proporre motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica.

Al fondo non vi è solo l’esperienza della disciplina emergenziale “a tempo” introdotta per contrastare la pandemia da COVID-19 (cfr. art. 23-bis del d.l. n. 137 del 2020, conv. con mod. in l. n. 176 del 2020). Vi è l’idea che, se si tratta di controllare un giudizio, il contraddittorio orale non è necessario: questo viene concepito quale corollario del contraddittorio nella formazione della prova desumibile dal terzo e dal quarto comma dell’art. 111 Cost. e riguarda il giudizio, ossia l’accertamento del fatto. Può avvenire una volta, ma quando il giudizio già c’è, vi è da controllare come vi si è arrivati e se è un giudizio giusto, salve naturalmente le eccezioni della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale; ma sono, per l’appunto, eccezioni (peraltro, come vedremo, ridimensionate).

Al riguardo, è utile precisare che, sebbene la nuova disposizione abbia già incontrato le critiche di una parte della dottrina e dell’avvocatura, la stessa non pare poter sollevare questioni di legittimità costituzionale o profili di incompatibilità rispetto al parametro convenzionale. E ciò, in particolare, in ragione del fatto che il legislatore non ha configurato la regola dello svolgimento cartolare dell’appello in termini assoluti, ma – in ossequio a quanto previsto dalla l. n. 134 del 2021 – ha attribuito all’appellante e, comunque, all’imputato o al suo difensore il potere di recuperare l’oralità chiedendo (nel termine di 15 giorni dalla notifica del decreto di citazione ex art. 601 o dell’avviso della data fissata per il giudizio d’appello) di partecipare all’udienza. Laddove un’istanza di tal tipo sia presentata, la Corte sarà chiamata a disporre che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti e a indicare se il gravame andrà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio, con le forme previste dall’art. 127 c.p.p. Non sfuggirà come, alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale, proprio tale possibilità di ottenere, a richiesta, la celebrazione di un’udienza pubblica rappresenti un presidio essenziale, nell’ottica di assicurare la tenuta della nuova previsione rispetto ai diritti fondamentali.

Sebbene apprezzabile nell’intento, maggiori perplessità desta, invece, il nuovo comma 3 dell’art. 598-bis c.p.p., il quale attribuisce anche alle corti d’appello il potere di disporre d’ufficio che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame. Al riguardo, merita, infatti, chiarire che, a differenza di quanto vedremo a breve in tema di ricorso in cassazione, la possibilità di un intervento ex officio della corte d’appello, onde ristabilire la pubblicità del rito, non compare in modo espresso nella legge delega. Come non ha mancato di rilevare attenta dottrina, quest’ultima si limita – in modo a dire il vero alquanto criticabile, ma comunque chiaro – a far riferimento a una richiesta delle parti sul punto, non facendo alcun riferimento a un potere di impulso officioso dei giudici di seconde cure. Ne consegue, dunque, che in parte qua l’operato del delegato, pur potendosi apprezzare nell’ottica della volontà di evitare squilibri irragionevoli con il rito di legittimità, potrebbe incorrere in un eccesso di delega, vista la mancanza di una copertura esplicita in proposito nella l. n. 134 del 2021.

La volontà di accentuare la natura di revisio prioris instantiae dell’appello sta al fondo di un’altra importante modifica al codice di rito.

Si allude, in prima battuta, alla riscrittura dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., programmata dall’art. 34, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 150, in attuazione dell’art. 1, comma 13, lett. l), l. n. 134 del 2021. Sin da un primo sguardo, ci si renderà conto di come tale novità intenda limitare la regola della rinnovazione necessaria dell’istruttoria, introdotta dalla l. n. 103 del 2017, a valle dell’interpretazione convenzionalmente orientata delle disposizioni in materia, offerta dalla giurisprudenza nostrana sulla spinta delle indicazioni provenienti dalla Corte europea, prevista per il ribaltamento in condanna degli esiti liberatori in prime cure, ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nell’ambito del giudizio di prime cure. Ci troviamo, evidentemente, di fronte a una reazione del legislatore all’orientamento delle sezioni unite che aveva (poco comprensibilmente) esteso l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello anche ai fini della riforma della sentenza di assoluzione pronunciata all’esito di rito abbreviato in cui non fosse stata svolta alcuna istruzione probatoria (officiosa o a richiesta di parte). Tale superamento dell’indirizzo pretorio consolidato è, peraltro, coerente con quanto affermato dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale in un recente arresto (Corte edu, sez. I, 25 marzo 2021, Di Martino e Molinari c. Italia) ha escluso che la mancata rinnovazione in appello, in caso di prova assunta in sede di abbreviato, fosse tale da dar luogo a una violazione dell’art. 6 CEDU, avendo le parti rinunciato volontariamente alla citazione e all’esame orale dei testimoni, accettando di essere giudicati sulla base degli atti di indagine.

In conclusione, allargando lo sguardo al sistema, sembra che la stessa limitazione dell’istituto dell’improcedibilità ai giudizi di impugnazione risponda alla necessità di distinguere nettamente, in un sistema tendenzialmente accusatorio, il giudizio di primo grado, sede dell’accertamento in contraddittorio sulla sussistenza della pretesa punitiva, dai giudizi di impugnazione, destinati a un controllo sulla sentenza emessa nel primo giudizio. Questo è uno dei passaggi più rilevanti sul piano sistematico ed è uno dei fili rossi che legano varie innovazioni contenute nella riforma: responsabilizzazione delle parti – dalla nuova regola dell’archiviazione, sino alla riaffermazione del requisito della specificità estrinseca dei motivi di appello – e superamento di quell’idea – tipicamente inquisitoria e così radicata nella nostra cultura giuridica – della portata garantistica della reiterazione dei giudizi.

 

 

14.4. Riduzione dell’ambito dell’appello e rafforzamento della negozialità in chiave deflativa.

 

In una prospettiva di economia processuale, vanno lette le modifiche agli artt. 593, comma 3 e 428, comma 3-quater, c.p.p., tese, rispettivamente, a rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, nonché, da un altro lato, quelle di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità o per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda. Si tratta di norme che vanno certamente nella giusta direzione, in quanto capaci di ridurre alla radice la mole immane di sopravvenienze in secondo grado, con riguardo alla criminalità di minore allarme sociale. Non sfuggirà come, tra le modifiche in questione, quella indubbiamente dotata di una maggiore potenzialità deflativa sia quella concernente l’inappellabilità delle condanne a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità. Difatti, stante la coraggiosa riforma concernente tale categoria di sanzioni, programmata dalla stessa riforma Cartabia, è ben probabile che la platea di regiudicande in cui opererà la misura sostitutiva sarà assai nutrita, con tutto ciò che ne consegue in termini di riduzione riflessa del numero di gravami presentati.

Un’ulteriore via prescelta dalla novella, onde migliorare l’efficienza dell’appello, è stata quella di rafforzare gli spazi di negozialità nel giudizio di seconde cure. In quest’ottica, va, anzitutto, letto il suggerimento – frutto di un’originale indicazione della Commissione Lattanzi – di prevedere che, nell’ambito del giudizio abbreviato, la pena sia ridotta dal giudice dell’esecuzione di un sesto, laddove il prevenuto o il suo difensore non presentino impugnazione. Per quel che riguarda il quantum dello sconto, esso deriva dalla considerazione che, sommando la riduzione di un terzo per il rito a quella ulteriore derivante dalla totale acquiescenza, si arriva a un abbattimento complessivo pari alla metà. Evidentemente, si tratta di un meccanismo – simile a quello che si è già avuto modo di richiamare in tema di procedimento per decreto – che viene inserito in un nuovo art. 442, comma 2-bis, c.p.p., fortemente innovativo: è la prima volta infatti che il legislatore cerca di ridurre la mole significativa delle impugnazioni, premiando con uno sconto di pena l’abdicazione a impugnare. L’intento – molto evidente nella proposta di emendamento e nella relazione della Commissione Lattanzi – è quello di evitare in particolare la proposizione dell’appello al solo fine di ottenere una riduzione della quantità della pena irrogata dal giudice di prime cure. Per la verità, qualche dubbio interpretativo potrebbe sorgere dal generico riferimento all’“impugnazione”: esso potrebbe indurre a credere che lo sconto vada riconosciuto anche se, a seguito della condanna in primo e secondo grado, l’imputato rinunci alla sola proposizione del ricorso. Ove interpretata in tal senso, la norma risulterebbe però intrinsecamente irragionevole: per un verso, finirebbe contraddittoriamente per alimentare e non per limitare la convenienza della proposizione dell’appello; per altro verso, riconoscerebbe uno sconto sempre uguale (pari a un sesto), a fronte di un risparmio che varia molto a seconda che si rinunci a qualsiasi impugnazione o al solo ricorso. In definitiva, l’unica interpretazione coerente con la ratio della previsione e in grado di salvaguardare la norma da censure di illegittimità è quella che porta a ritenere concedibile lo sconto in caso di rinuncia a qualsiasi impugnazione. E, in effetti, la relazione chiarisce opportunamente che l’acquiescenza dell’imputato deve essere “totale” e giustifica il riferimento generico all’impugnazione con la circostanza che l’imputato deve rinunciare tanto all’appello quanto al ricorso immediato per cassazione (cfr. Relazione, pp. 301-302).

Sempre in un’ottica negoziale va poi letta l’eliminazione delle preclusioni oggettive e soggettive all’accesso al concordato in appello di cui all’art. 599-bis c.p.p., programmata dall’art. 34, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 150, in attuazione dell’art. 1, comma 13, lett. h) della l. n. 134 del 2021. Si tratta di una modifica senz’altro apprezzabile dal momento che le limitazioni finora previste, oltre a non aver alcuna valida ragion d’essere, stante la natura non esplicitamente premiale dell’istituto, avevano – come affermato espressamente dalla magistratura – finora ostacolato l’auspicato decollo statistico di un meccanismo, quale quello in esame, certamente utile in termini di riduzione dei tempi del rito di seconde cure.

Il medesimo fine di potenziare il più possibile le capacità deflative dello strumento in parola sta al fondo delle ulteriori modifiche che la novella apporta all’art. 599-bis c.p.p. Tra queste spicca la fissazione di un termine perentorio per la presentazione della richiesta di concordato di quindici giorni prima dell’udienza; con la possibilità di ripresentarla in dibattimento solo nel caso in cui il primo patto non sia recepito dal giudice. Ebbene, è il caso di precisare che pure tale riassetto cronologico è frutto della volontà di recepire le indicazioni della magistratura, la quale aveva apertamente contrastato la prassi, finora vigente, che vedeva raggiungere l’intesa direttamente in udienza, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di sensibile riduzione delle capacità efficientistiche dello strumento. Pur al netto di questa condivisibile volontà, a prima vista, una tale modifica potrebbe stupire, non avendo la l. n. 134 del 2021 contemplato espressamente ritocchi al rito concordato ulteriori rispetto alla menzionata eliminazione delle preclusioni di cui all’art. 599-bis, comma 2, c.p.p. Nondimeno, non sembra configurabile un eccesso di delega: la modifica pare infatti poter trovare una copertura nel riassetto generale della dinamica del rito di seconde cure, conseguente alla scelta della riforma Cartabia di prevedere, quale regola generale, quella della celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato (art. 1, comma 13, lett. g), l. n. 134 del 2021).

Per concludere, va segnalata la disciplina transitoria dettata dall’art. 94, comma 2, d.lgs. n. 150 rispetto alle novità introdotte in punto di cartolarizzazione del giudizio di appello. Vi si prevede che il nuovo art. 598-bis c.p.p. (introdotto dall’art. 34, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150) e il correlato art. 167-bis disp. att. (inserito dall’art. 41, comma 1, lett. ee), d.lgs. n. 150), nonché la novellata disciplina degli artt. 599, 599-bis, 601 e 602 c.p.p. (modificati dall’art. 34, comma 1, lett. e), f), g), nn. 2, 3, 4, e h), d.lgs. n. 150) si applichino a decorrere dalla scadenza del termine previsto per l’operatività della normativa d’emergenza contenuta nell’art. 23-bis del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176; termine che è stato fissato al 31 dicembre 2022 dall’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15.

 

 

14.5. Le novità concernenti la Corte di cassazione.

 

Nell’ambito di un riassetto complessivo del sistema dei rimedi, il d.lgs. n. 150 interviene anche sulla Corte di cassazione.

A questo riguardo, viene in gioco, anzitutto, l’art. 4 d.lgs. n. 150, il quale, mediante l’inserimento di un inedito art. 24-bis c.p.p., ha inteso dare attuazione all’art. 1, comma 13, lett. n) della legge delega, in tema di rinvio pregiudiziale alla Cassazione per la decisione sulla competenza per territorio. Si tratta di un istituto fortemente innovativo, frutto dei suggerimenti della Commissione Lattanzi: è stato, invero, tale consesso a proporre di dar vita a un meccanismo, ispirato a obiettivi di efficienza e di ragionevole durata, volto a porre il processo “in sicurezza” da questioni relative alla competenza. Mediante tale strumento si è voluto, invero, «evitare casi, che si sono verificati, in cui l’incompetenza, tempestivamente eccepita, è stata riconosciuta fondata solo in Cassazione, con conseguente necessità di dover iniziare da capo il processo» (cfr. Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, p. 40). Una logica, pertanto, del tutto condivisibile che avrebbe potuto essere estesa anche ad altre questioni di diritto di particolare rilievo.

A livello operativo, l’art. 4 d.lgs. n. 150 ha inteso costruire il rinvio incidentale alla Corte di cassazione sul modello della proposizione e della risoluzione dei conflitti di giurisdizione e di competenza (artt. 30-32 c.p.p.), con i necessari adattamenti, resisi necessari onde rispettare lo scadere dei termini di rilievo della incompetenza per territorio. Va segnalato che, nella relazione illustrativa, i conditores hanno ammesso di essersi volutamente in parte discostati dal criterio di delega di riferimento, stabilendo che la Cassazione, in caso di accoglimento della questione di incompetenza, sia chiamata a ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente e non direttamente a quest’ultimo. E ciò al fine di «rispettare il dettato delle pronunce della Corte costituzionale intervenute sulla materia» (cfr. Relazione illustrativa, p. 340, la quale fa riferimento a Corte cost., 76/1993 e 70/1996).

Sul versante del procedimento in cassazione, è sempre l’obiettivo di abbattimento dei tempi dei processi e di risparmio di risorse giudiziarie ad aver portato a compiere una profonda riscrittura dell’art. 611 c.p.p., programmata dall’art. 35, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150, in attuazione dell’art. 1, comma 13, lett. m) della l. n. 134 del 2021. Le modifiche in proposito – frutto anche in questo caso delle proposte della Commissione Lattanzi, nonché della disciplina emergenziale introdotta a seguito della pandemia da COVID-19 – stabiliscono, in modo analogo a quanto si è osservato in materia d’appello, quale regola generale quella della celebrazione del giudizio di fronte alla suprema Corte in camera di consiglio con un contraddittorio “cartolare” (fino a quindici giorni prima dell’udienza il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica). Data la natura tecnica del rito di legittimità, sembra che la modalità cartolare possa assicurare una dialettica adeguata alle parti, le quali possono, in ogni caso, nelle ipotesi stabilite da un nuovo comma 1-bis della medesima disposizione, ottenere la trattazione orale a richiesta: ciò, in particolare, può avvenire nei procedimenti in cui la Corte sia chiamata a decidere ricorsi contro sentenze pronunciate in dibattimento o ai sensi dell’art. 442 c.p.p. Le parti hanno, invece, la possibilità di chiedere la trattazione in camera di consiglio con la loro presenza per la decisione dei ricorsi da trattare nelle forme previste dall’art. 127 c.p.p., nonché su quelli avverso sentenze pronunciate all’esito di udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti (a norma del nuovo art. 598-bis c.p.p.), salvo che l’appello abbia avuto esclusivamente a oggetto la specie o la misura della pena. La disciplina processuale dell’istanza de qua viene poi stabilita dal comma 1-ter della rinnovata versione dell’art. 611 c.p.p., il quale prevede che essa vada presentata, a pena di decadenza, nel termine di dieci giorni dalla ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza. Da tutto ciò consegue che andranno, invece, necessariamente trattati con procedimento in camera di consiglio senza l’intervento delle parti, sia i casi previsti da particolari disposizioni di legge quali quelli di cui agli artt. 428 c.p.p. e 612 c.p.p., sia tutti i ricorsi avverso provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta salva, ovviamente, l’eccezione delle sentenze di giudizio abbreviato.

Nel comma 1-quater è, invece, prevista l’ipotesi – in questo caso, come accennato, espressamente contemplata dalla l. n. 134 del 2021 – in cui sia la stessa Corte a disporre officiosamente la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio partecipata: ciò potrà avvenire negli stessi casi di cui all’art. 611, comma 1-bis, ovvero nelle ipotesi in cui le parti sono abilitate a richiedere l’abbandono della procedura meramente cartolare.

Infine, in ottemperanza all’ultima parte dell’art. 1, comma 13, lett. m), l. n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 prevede di introdurre al comma 1-sexies dell’art. 611 un’ulteriore eccezione alla regola generale del rito cartolare in cassazione, operante nel caso in cui la suprema Corte ritenga di dare al fatto una definizione giuridica diversa: in tale evenienza il giudice della nomofilachia sarà, infatti, tenuto a disporre con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio partecipata. Si tratta di una precisazione, frutto di un’indicazione della Commissione Lattanzi, da salutare favorevolmente, in quanto volta a evitare riqualificazioni “a sorpresa” da parte della suprema Corte, assicurando il rispetto tanto della giurisprudenza convenzionale (a partire da Corte edu, Drassich c. Italia), quanto di quella nazionale in materia (v., al riguardo, relazione di accompagnamento, p. 339).

Il d.lgs. n. 150 contempla anche una disciplina transitoria in materia. In linea con quanto previsto per l’appello, ai sensi dell’art. 94, comma 2 del decreto, la nuova formulazione dell’art. 611 c.p.p. trova applicazione a partire dalla scadenza del termine stabilito dall’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15 per l’operatività del regime vigente durante l’emergenza (ossia il 31 dicembre 2022).

 

 

14.6. Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

L’introduzione di un inedito rimedio volto a dare esecuzione alle decisioni della Corte di Strasburgo è uno degli esempi più lampanti di come la riforma Cartabia concepisca l’efficienza non solo – come asseriscono i detrattori della manovra – come rapidità, ma anche come migliore tutela dei diritti dell’imputato.

Era da più di vent’anni, ossia dalla Raccomandazione del 19 gennaio 2000, R(2000)2, con la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva sollecitato gli Stati membri a prevedere la celebrazione di un nuovo processo ogni qual volta la violazione di una norma processuale appaia talmente grave da aver condizionato l’esito del processo, che si attendeva un intervento del legislatore. Dinnanzi all’inerzia del Parlamento, la Corte costituzionale se l’era cavata nel 2011 con una sentenza additiva d’istituto (Corte cost. n. 113/2011).

Finalmente, sulla base di un suggerimento della Commissione Lattanzi, la legge delega aveva inserito un apposito criterio di delega (art. 1, comma 13, lett. o), che è stato sviluppato in modo molto equilibrato e puntuale dall’art. 36 d.lgs. n. 150.

Va anzitutto apprezzata la scelta sistematica di prevedere un apposito titolo II-bis nel libro IX, differenziando il rimedio da quello della revisione. Per meglio dire, assai opportunamente, il nuovo art. 628-bis c.p.p. disciplina dei rimedi (al plurale); ciò, in quanto, il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza che abbiano ottenuto una pronuncia della Corte che accerti la violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione possono rivolgersi alla Cassazione per ottenere (comma 1): la revoca della sentenza penale o del decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti; la riapertura del procedimento; l’adozione dei provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Come avevamo rilevato, il contenuto dell’obbligo nascente dalla pronuncia della Corte di Strasburgo che imponga – in termini generici – una qualche forma di riesame della causa come misura individuale varia e può configurarsi essenzialmente come obbligo di rivalutare il contenuto della sentenza, come obbligo di riaprire il processo, come obbligo di neutralizzare gli effetti della sentenza o come obbligo di rinnovare il processo. Giova notare che, in linea con quanto previsto dalla legge delega, la legittimazione viene riconosciuta solo al soggetto che ha ottenuto la pronuncia di Strasburgo, rimanendo invece esclusi i “parenti” (“fratelli minori” o “cugini”). Peraltro, va sottolineato che – sulla scorta di una lettura estensiva del criterio di delega che sul punto non vincolava il delegato – il d.lgs. n. 150 ha ragionevolmente equiparato alle sentenze che accertino una violazione della Convenzione le ipotesi in cui sia disposta la cancellazione del ricorso dal ruolo ai sensi dell’art. 37 della Convenzione in conseguenza del riconoscimento della violazione da parte dello Stato.

Dopo aver disposto, nel comma 2, le modalità della proposizione, il termine (pur essendo un rimedio straordinario, si stabilisce che va presentato con ricorso depositato entro novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione o dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo), gli oneri di allegazione e, nel comma 4, i moduli procedurali, il nuovo art. 628-bis stabilisce nel comma 5 la regola fondamentale sulla decisione della Corte. Vi si stabilisce che – laddove non debba pronunciare l’inammissibilità – la Corte accoglie la richiesta anzitutto quando «la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, ha avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente». Ora, il criterio dell’incidenza è finalizzato evidentemente a riconoscere alla Corte suprema un margine di apprezzamento rispetto alle indicazioni di Strasburgo. Nel convertire il vincolo internazionale in un dictum che porta a superare il giudicato interno, il legislatore ha previsto un sindacato autonomo da parte della Cassazione (giustamente, tale vaglio è stato affidato alla Corte suprema e non alle corti d’appello). Per la verità, si tratta di un’opzione comune a quella fatta in altri ordinamenti: dall’analisi comparatistica emerge come in diversi sistemi prevalga una logica di sussidiarietà, in forza della quale l’accertamento sull’incidenza effettiva del vizio processuale viene affidato (anche) al giudice interno.

Una volta ritenuto sussistente un vizio rilevante, ossia dotato di efficacia causale, si tratteggiano le alternative decisorie (ispirate al canone di economia processuale):

  1. Se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulta superfluo il rinvio, la Corte assume i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna.
  2. Altrimenti trasmette gli atti al giudice dell’esecuzione o dispone la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione e stabilisce se e in quale parte conservano efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi.

Secondo un’impostazione certamente da condividere, l’ultimo comma dell’art. 628-bis c.p.p. prevede che l’istituto trovi applicazione – in luogo della rescissione – anche quando la Corte di Strasburgo ha disposto la rinnovazione del processo, ossia quando ha accertato la violazione del diritto a partecipare personalmente al procedimento: in tal caso, per la verità, non sembra esservi spazio per un’autonoma valutazione da parte della Corte dell’incidenza causale dell’assenza involontaria.

In conclusione, si introduce un rimedio polivalente di natura straordinaria, che mette ordine in un settore che, seppur governato dal canone di tassatività, aveva visto un intervento di supplenza della magistratura. Il sistema di rimedi pretori che ne era conseguito aveva peraltro ingenerato negli anni gravi incertezze.

La disciplina transitoria contenuta nell’art. 91 d.lgs. n. 150 prevede che, quando si tratti di provvedimenti adottati dalla Corte europea in data anteriore all’entrata in vigore della novella, il termine di novanta giorni indicato nell’art. 628-bis, comma 2, c.p.p. decorre dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto.

 

 

15. Il diritto all’oblio della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato archiviati o prosciolti.

 

L’art. 41, comma 1, lett. h) della novella configura, nell’ambito delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, un inedito art. 64-ter, destinato a disciplinare il delicato tema dell’oblio. La materia toccata è, più precisamente, quella del diritto a non essere facilmente trovati nel mondo digitale dagli utenti dei motori di ricerca generalisti, con riferimento a informazioni relative alla sottoposizione a un procedimento penale conclusosi con esito favorevole.

Alle spalle del novum normativo si colloca l’art. 1, comma 25, l. n. 134 del 2021, il quale delegava l’esecutivo a stabilire, nell’ambito delle disposizioni attuative del codice, in materia di comunicazione della sentenza, che «il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati». Il riferimento al diritto eurounitario era chiaramente rivolto all’art. 17 regolamento 2016/679/UE (GDPR), in cui trova espressa consacrazione il right to be forgotten.

Ebbene, alla luce di tali coordinate di fondo, l’art. 64-ter disp. att. c.p.p. si apre attribuendo al soggetto destinatario di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere e a quello nei cui confronti sia stato emesso un provvedimento di archiviazione la facoltà di richiedere che «sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali» riportati in tali pronunce. Il tutto deve essere svolto «ai sensi e nei limiti» di cui all’art. 17 GDPR. Su suggerimento del Garante per la protezione dei dati personali (Garante per la protezione dei dati personali, punto n. 6 Parere sullo schema di decreto, cit.), è stata, oltretutto, inserita la clausola di salvaguardia in base a cui «resta fermo quanto previsto dall’articolo 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».

Dal punto di vista operativo, i commi 2 e 3 della previsione di nuovo conio disciplinano due tipologie di annotazione che la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento è tenuta ad apporre e a sottoscrivere, a seguito della richiesta dell’interessato. La prima rileva nel caso dell’istanza di preclusione ab origine dell’indicizzazione e deve contenere la formula secondo cui, in conformità all’art. 17 GDPR, «è preclusa l’indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell’istante» (art. 64-ter, comma 2, disp. att. c.p.p.). In proposito vi è da dire che è stata accolta l’indicazione espressa dal Garante privacy, che aveva chiesto di ridefinire il contenuto dell’attestazione preventiva (Garante per la protezione dei dati personali, punto n. 6 Parere sullo schema di decreto, cit.). La seconda annotazione opera nell’ipotesi della richiesta di deindicizzazione: in tale evenienza, la dicitura da trasporre sull’atto sancisce che lo stesso costituisce titolo, ai sensi e nei limiti dell’art. 17 regolamento 2016/679/UE, per ottenere «un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante» (art. 64-ter, comma 3, disp. att. c.p.p.).

L’intero impianto deve essere letto alla luce della normativa eurounitaria: in merito, il legislatore delegato ha ritenuto di attuare le indicazioni del delegante attraverso un generico richiamo al rispetto dell’art. 17 GDPR. Si tratta di una tecnica normativa che dovrebbe essere meglio idonea a «evocare – in modo recettizio – l’istituto del diritto all’oblio nella sua interezza, anche a fronte di future modifiche della disciplina U.E.» (Relazione illustrativa, p. 349). È bene, d’altra parte, chiarire che rimangono del tutto inalterate le competenze sul punto del Garante per la protezione dei dati personali (Relazione illustrativa, p. 348).

Ora, a fronte del novum normativo, si impongono alcune riflessioni a prima lettura. 

La disciplina configura, a ben vedere, «due forme di tutela del “diritto all’oblio”» (in questo senso, il Garante per la protezione dei dati personali nel Parere sullo schema di decreto, cit.). La prima è racchiusa nel divieto di indicizzazione e vale a monte, quale tutela preventiva, mentre la seconda è costituita dalla deindicizzazione e opera a valle, come rimedio successivo. Qui, però, va rilevato come, per la verità, la legge delega non faccia alcun riferimento al primo strumento, e cioè alla preclusione dell’indicizzazione, ma si riferisca solo al secondo, vale a dire la deindicizzazione. Sembra, pertanto, palesarsi il rischio di un eccesso di delega sul punto.

In secondo luogo, rispetto alla formulazione della l. n. 134 del 2021, si riscontra nel testo della novella un allargamento dei provvedimenti legittimanti l’istanza di deindicizzazione (o di preclusione dell’indicizzazione). L’art. 64-ter, comma 1, disp. att. c.p.p. abbraccia ogni provvedimento di archiviazione, la sentenza di non luogo a procedere, nonché quella di proscioglimento; viceversa, la previsione del legislatore delegante contempla, oltre alla sentenza di non luogo a procedere, il solo decreto di archiviazione e la mera sentenza di assoluzione. Ebbene, la divergenza viene giustificata dalla relazione illustrativa nell’ottica di soddisfare un’esigenza di armonizzazione (Relazione illustrativa, p. 349): circostanza che, secondo tale impostazione, dovrebbe allontanare il pericolo di un eccesso di delega. Nondimeno, se, da un lato, sembrerebbe in effetti poco coerente ammettere, quale titolo alla base dell’istanza in discorso, il mero decreto di archiviazione e non anche la relativa ordinanza, più difficile appare escludere uno sconfinamento dalla delega sul piano della pronuncia emessa in giudizio. La l. n. 134 sembra, infatti, aver fatto una chiara scelta nel limitare il presupposto della richiesta de qua alla sola sentenza di assoluzione, lasciando fuori quella di non doversi procedere.

Per concludere, può essere utile dedicare uno spazio di riflessione anche al richiamo operato dall’art. 64-ter disp. att. c.p.p. all’art. 17 GDPR.

Il rinvio a tale previsione riguardo alla deindicizzazione porta a ritenere che il provvedimento che la dispone implichi comunque un bilanciamento in concreto tra il diritto all’oblio e quello all’informazione, nonché gli altri interessi rilevanti, conformemente alla disposizione eurounitaria.

Sorgono, invece, perplessità quanto al richiamo all’art. 17 GDPR pure rispetto al divieto ex ante di indicizzazione. L’art. 17 regolamento n. 679 del 2016 tratta, invero, il diritto alla cancellazione; il che presuppone, a sua volta, una previa indicizzazione. È evidente, dunque, che la previsione UE «appare poco compatibile con una misura di carattere inibitorio e, come tale, preventivo» (così, Garante per la protezione dei dati personali, Parere sullo schema di decreto, cit.). L’impressione è, in definitiva, quella di una scarsa pertinenza del rinvio operato in parte qua dalla novella. La relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 ha comunque giustificato la scelta, ravvisando nell’art. 17 GDPR un fondamento per l’«istituto della deindicizzazione, anche intesa in forma preventiva e con riferimento al c.d. ridimensionamento della visibilità mediatica, che rappresenta un aspetto “funzionale” del diritto all’identità personale cui pure è riconducibile il diritto all’oblio» (Relazione illustrativa, p. 349, la quale cita Cass., 27 marzo 2020, n. 7559).

 

 

16. Il decreto sull’ufficio per il processo.

 

La delega in materia di Ufficio per il processo in ambito penale (art. 1, comma 26, della l. n. 134 del 2021) viene attuata attraverso uno specifico decreto legislativo (d.lgs. n. 151 del 2022) dedicato alla regolamentazione dell’istituto (“struttura organizzativa”), anche per quanto attiene al contesto civile.

Le disposizioni in esso contenute rivelano un approccio particolarmente attento del legislatore, sia rispetto al testo della l. n. 134 del 2021 e alle sue apparenti ambiguità, sia con riguardo ad alcune questioni critiche oggetto di ricognizione e studio in altri ordinamenti e, in maniera comparata, nel contesto della grande Europa, nonché nel raffronto con i precedenti testi legislativi in vigore in materia al momento della redazione del d.lgs. n. 151.

Alcune previsioni meritano, dunque, di essere segnalate.

Per quanto attiene all’ambito di estensione dell’istituto, emerge, già nel disposto dell’art. 1, un’apprezzabile specificazione per quanto attiene agli uffici giudiziari di merito, nei quali vengono esplicitamente inclusi i tribunali di sorveglianza, presso i quali l’UPP opera «secondo le disposizioni previste per l’ufficio per il processo penale presso i tribunali ordinari, in quanto compatibili». Sul punto, merita precisare che la legge delega, dopo aver fatto un cenno all’ufficio per il processo originariamente istituito solo presso i tribunali ordinari e le corti d’appello dall’art. 16-octies del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n.  221, e delle disposizioni di cui al d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, ha previsto una compiuta disciplina organica dell’ufficio per il processo istituito negli uffici giudiziari di merito. Correttamente, il d.lgs. n. 151 ha ritenuto che il tribunale di sorveglianza rientri tra questi; per di più, non vi è dubbio che l’istituzione dell’ufficio per il processo presso i tribunali di sorveglianza è perfettamente in linea con gli obiettivi perseguiti dalla riforma: non avrebbe alcun senso assicurare l’efficienza del solo processo penale di cognizione, generando il paradosso di una condanna che arriva in tempi ragionevoli ma non viene poi eseguita oppure lo è a distanza di anni (si pensi al fenomeno dei cosiddetti “liberi sospesi”, che si vedono definire le modalità concrete di attuazione della pena solo a distanza di anni a causa dell’arretrato dei tribunali di sorveglianza). E, in effetti, la l. n. 134 e il d.lgs. n. 151 sono finalizzati ad assicurare maggiore efficienza all’intero sistema penale: non a caso, molte norme volte ad alleggerire il processo di cognizione – si pensi soltanto alla disciplina delle notificazioni o della partecipazione a distanza – sono destinate ad applicarsi anche al procedimento di sorveglianza. Né pare che un argomento contrario all’estensione del perimetro applicativo dell’ufficio per il processo al tribunale di sorveglianza possa desumersi a contrario dalle lett. c) ed e) dell’art. 1, comma 26: la previsione esplicita della costituzione dell’ufficio per il processo presso la Corte di cassazione e la Procura generale presso la Corte di cassazione si spiega in considerazione della peculiarità di tali uffici giudiziari (la prima è un giudice di legittimità, la seconda un ufficio di procura) e la conseguente necessità di delineare dei compiti specifici. Per il tribunale di sorveglianza tale previsione espressa non era necessaria perché si tratta, a tutti gli effetti, di un ufficio giudiziario di merito.

L’art. 2 d.lgs. n. 151 ha una grande rilevanza in quanto, nell’individuare le finalità dell’ufficio per il processo, chiarisce il suo legame funzionale rispetto all’obiettivo della ragionevole durata, da perseguire «attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione». Insomma, si chiarisce per tabulas che l’UPP rappresenta lo snodo essenziale della modernizzazione e della digitalizzazione dell’attività giurisdizionale. Il luogo dove andranno necessariamente a incrociarsi competenze interdisciplinari – teoria dell’organizzazione, intelligenza artificiale, natural language processing, machine learning, statistica – per raggiungere l’obiettivo costituzionalmente primario della giustizia penale, ossia la ragionevole durata.   

L’art. 3 prevede l’inserimento dell’ufficio per il processo nel progetto organizzativo dell’ufficio, con la definizione delle priorità di intervento gli obiettivi da perseguire e le azioni per realizzarli, riprendendo un’impostazione già presente nell’art. 10 della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2020/2022.

L’art. 4, dopo aver effettuato una ricognizione delle figure professionali che andranno a comporre gli UPP e aver chiarito che ciascun componente svolge i compiti attribuiti all’UPP secondo quanto previsto dalla normativa e dalla contrattazione collettiva che regolano la figura professionale a cui appartiene, chiarisce un punto fondamentale, che è destinato ad assumere grande rilievo sistematico. Il comma 3 stabilisce infatti che, al fine di consentire lo svolgimento dei compiti affidati all’UPP e salva diversa decisione del giudice, i componenti dell’UPP possono, non solo aver accesso ai fascicoli e partecipare alle udienze, ma anche accedere alla camera di consiglio «nei limiti in cui è necessario per l’adempimento dei compiti previsti dalla legge». Si tratta di un cambiamento davvero epocale per il nostro ordinamento, all’interno del quale la “solitudine del giudice” raggiungeva il massimo grado proprio escludendo dalla camera di consiglio qualsiasi soggetto diverso dal giudice, compreso l’ausiliario (secondo il dettato dell’art. 125, comma 4, c.p.p.). Tale accesso per i nostrani judicial assistants rappresenta una peculiarità anche nel panorama europeo.

Il medesimo articolo, al comma 4, affronta una questione critica, evidenziata e discussa, ad esempio nell’Opinion N. 22 del Consultative Council of European Judges, con riguardo all’attività svolta dai judicial assistants in diversi ordinamenti. Essa attiene all’imparzialità del componente dell’UPP, atteso che i compiti svolti comportano una stretta interazione con il soggetto al quale la funzione giurisdizionale è attribuita e, dunque, una possibile influenza sulla sua attività e sulle sue decisioni (si pensi alla redazione delle “minute”, ma anche alla presenza in camera di consiglio appena richiamata e finalizzata a esporre gli esiti dell’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale compiuto dall’addetto: v. art. 6, lett. a). Per tale ragione, sia pure senza disciplinare le conseguenze e le sanzioni in caso di violazione del dettato normativo, si prevede ragionevolmente che «i tirocinanti e i magistrati onorari componenti dell’ufficio per il processo non possono accedere ai fascicoli, alle udienze e alla camera di consiglio relativi ai procedimenti rispetto ai quali sussistono le ipotesi previste […] dagli articoli 35 e 36, comma 1, lettere a), b), d), e), f), del codice di procedura penale». Sempre in tema di garanzie, il comma 5 prescrive l’obbligo «di riservatezza rispetto ai dati, alle informazioni e alle notizie acquisite nel corso dell’attività prestata», di segretezza su quanto appreso in ragione dell’attività svolta e di astensione testimoniale, per tutti i componenti dell’UPP, estendendo quanto già previsto per i tirocinanti “ex art. 73” (art. 73 comma 5, d.l. 21 giugno 2013, n. 69).

Gli artt. 6, 8 e 10 disciplinano rispettivamente i compiti dell’ufficio per il processo penale presso i tribunali e le corti d’appello, presso la Corte di cassazione e presso la Procura generale della Corte di cassazione. Le disposizioni riprendono sostanzialmente le funzioni definite dalla legge delega.

Per un verso, meritevole di essere segnalata la conferma della funzione dell’UPP di «incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, attraverso la valorizzazione e la messa a disposizione dei precedenti, con compiti di organizzazione delle decisioni, in particolare di quelle aventi un rilevante grado di serialità, e con la formazione di una banca dati dell’ufficio giudiziario di riferimento». È del tutto evidente la portata storica del richiamo al “precedente”, che entra nel lessico normativo, anche per quel che riguarda le decisioni di merito. In quest’ottica, s’intravvede sullo sfondo il tema – tanto attuale, quanto delicato – degli strumenti predittivi a fini decisori o, ancora, di quegli strumenti di “predizione decisoria”, finalizzati a predisporre future decisioni sulla scorta di fattispecie analoghe. Non vi è dubbio che, accompagnata alla prospettiva della digitalizzazione, la norma può aprire la strada all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, tanto nel contesto della giustizia penale deflativa (viene in mente la predisposizione di oblazioni e di decreti penali di condanna secondo modalità meno artigianali di quelle già oggi impiegate), quanto in relazione a quello che è il provvedimento statisticamente più rilevante nel nostro sistema e dotato di un rilevante grado di serialità, ossia l’archiviazione (in particolare nei procedimenti contro ignoti). 

Per altro verso, degno di nota è il comma 2 dell’art. 6, secondo il quale l’ufficio per il processo istituito presso la corte d’appello effettua prioritariamente uno spoglio dei fascicoli a rischio improcedibilità per superamento dei termini previsti dall’art. 344-bis c.p.p. Una previsione di grande rilievo, considerata la sofferenza di diverse corti d’appello. Ad essa fa da pendant l’art. 8, comma 1, lett. b), n. 3, che assegna all’UPP presso la Cassazione il compito di assistere allo spoglio dei ricorsi finalizzato a verificare l’urgenza nella trattazione, riconducibile in particolare al rischio del maturare dell’improcedibilità per superamento dei termini.

Infine, il d.lgs. n. 151 interviene sul testo del codice di rito, apportando due modifiche. In primis amplia l’elenco dei soggetti obbligati a rispettare le norme processuali ai sensi dell’art. 124, comma 1, includendo i “collaboratori” del giudice, termine riferibile a tutti i componenti dell’Ufficio per il processo. Inoltre, introduce, nell’art. 126 c.p.p., il comma 1-bis, ai sensi del quale «il giudice è supportato dall’ufficio per il processo penale nei limiti dei compiti a questo attribuiti dalla legge» e non solo più assistito «dall’ausiliario a ciò designato», secondo il disposto del primo comma.

In aggiunta, viene abrogato l’art. 16-octies del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, come “riscritto” dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, attraverso il quale, per la prima volta, la struttura organizzativa denominata ufficio per il processo era stata introdotta nel nostro ordinamento.