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  Opinioni  
06 Aprile 2020


Regioni vs Governo: fino a che punto possono spingersi le ordinanze regionali più restrittive? A proposito di mascherine e altre misure di contenimento del rischio epidemiologico


1. L’evoluzione del quadro normativo. – Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 ha operato una profonda riorganizzazione delle competenze ad adottare provvedimenti di contenimento del rischio epidemiologico da coronavirus, tentando di mettere ordine in un quadro normativo stratificato, frammentato in fonti diverse.

Precedentemente, infatti, il d.l. n. 6/2020 non aveva chiaramente distinto e distribuito le competenze in tema di emergenza sanitaria tra Governo (tramite DPCM, ordinanze del Ministero della salute), regioni e comuni (tramite, rispettivamente, ordinanze dei Presidenti di regione e ordinanze sindacali, entrambe contingibili e urgenti) e Capo della protezione civile.

Si è così assistito al fiorire di provvedimenti non o mal coordinati, vigenti nello stesso periodo sul territorio nazionale o su parti di esso; provvedimenti spesso non coincidenti, con i quali misure di contenimento più o meno restrittive convivevano disorientando il cittadino tenuto ad osservarle, a pena, tra l’altro, di sanzione penale (l’art. 4, co. 3 del d.l. n. 6/2020 richiamava quoad poenam l’art. 650 per le violazioni di tutti i provvedimenti, statali, regionali o comunali) [1].

Alla notevole gamma di autorità competenti ad adottare le misure di contenimento del rischio sanitario si aggiungeva l’estrema vaghezza delle misure, indicate nel d.l. n. 6/2020 solo in via esemplificativa, con la facoltà, per le autorità competenti, di adottare “misure ulteriori”, con gli unici pseudo paletti del criterio finalistico (di contenimento del rischio epidemiologico) e dei vaghissimi parametri della adeguatezza e proporzione delle misure di contenimento, ovvero nulla di contenutisticamente vincolante.

Nonostante (o più probabilmente proprio in ragione del) la vaghezza delle misure e della pluralità delle autorità competenti ad adottarle, in poche settimane di vigenza 115.000 persone sono state denunciate[2] per il reato sopra indicato.

In estrema sintesi, l’impianto complessivo del d.l. n. 6/2020 era stato criticato perché finiva con il rinviare in bianco a fonti secondarie (in particolare ai DPCM e alle ordinanze regionali), aspetti non certo di dettaglio, e tra questi anche la tipologia di misure di contenimento da adottare, misure tutte incidenti su diritti di libertà (circolazione, riunione, associazione, di impresa ecc.), in violazione della riserva di legge[3].

 

2. Il nuovo potere regionale di ordinanza: contenuto e limiti. – A fronte del quadro normativo sopra sintetizzato, il Governo è intervenuto con d.l. n. 19/2020[4], la cui base legale è espressamente individuata, nel preambolo, nell’art. 16 della Costituzione.

L’art. 1, per la prima volta da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza per il virus COVID-19, crea un catalogo chiuso delle misure di contenimento (co. 2).

Si tratta di 29 tipologie di misure, le quali toccano non solo la libertà di circolazione (come da preambolo), bensì anche la libertà personale più strettamente intesa (obbligo di quarantena precauzionale nonché divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte a quarantena in quanto risultate positive al virus), la libertà di impresa (obblighi di chiusura per varie attività commerciali)[5], ed altre libertà (di riunione[6], di associazione ecc.).

L’art. 1, co. 3 prevede poi, a talune condizioni, obblighi di svolgimento di determinate imprese o attività[7], la cui inosservanza, per altro, a differenza delle violazioni di cui al co. 2 (punite con sanzioni amministrative, e, in un caso, con sanzione penale), non pare sanzionata.

Venendo al tema specifico oggetto di trattazione, l’art. 2 “centralizza” – salvo le eccezioni di cui si dirà, e che costituiscono il punctum dolens della disciplina – l’attuazione delle misure di contenimento previste dall’art. 1 in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con appositi DPMC, su iniziativa del Ministro della Salute o dei Presidenti delle regioni coinvolte, sentiti vari Ministri e, “di norma” il comitato scientifico insediato presso il Dipartimento della Protezione civile, limitatamente alla valutazione di adeguatezza e proporzione delle suddette misure.

Eccezioni all’attuazione delle misure di contenimento tramite DPCM sono previste, nelle more della loro adozione, vuoi a favore del Ministro della salute[8] (tramite ordinanza ex art. 32 l. 833/1978) nei casi di “estrema necessità e urgenza”, vuoi a favore delle regioni[9] (tramite ordinanza contingibile e urgente), per misure di carattere regionale o infraregionale, comunque rientranti nell’articolo 1, co. 2, ovvero nel citato catalogo chiuso statale, “in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso …esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione sulle attività produttive e su quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale” (art. 3, co. 1).

Si è voluto in questo modo contemperare le esigenze di uniformità delle misure con eventuali specificità e criticità territoriali: all’interno delle misure tipizzate le regioni possono adottare solo misure più restrittive (non meno restrittive).

Si tratta di un modello cooperativo già seguito, dalla giurisprudenza costituzionale, nella “materia” ambiente, rispetto alla quale le regioni possono introdurre livelli di tutela più elevati rispetto alle normative statali e agli standard ivi fissati.

D’altro canto il potere di ordinanza dei Sindaci, pur non inibito, è ingessato entro limiti assai stretti: essi non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1 (art. 3, co. 2).

Parrebbe quindi che le ordinanze sindacali potranno al più specificare dettagli delle misure rientranti nell’elenco chiuso dell’art. 1 del decreto legge in commento, senza innovare in alcun modo.

L’art. 3 co. 3 prevede infine che le disposizioni sopra indicate  “si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”: si tratta in particolare dell’art 32 della l. n. 833/1978, dell’art. 117 del d.lgs. n. 112/1998 e del d.lgs. n. 1/2018, normative più generali che non possono essere invocate dalle regioni per eludere i limiti al potere di ordinanza regionale in tema di contrasto al coronavirus così come fissati dal decreto in esame.

L’ultima disposizione citata dovrebbe togliere ogni dubbio circa la non praticabilità in materia epidemiologica di poteri residuali (ulteriori cioè a quelli specificamente previsti dal d.l. n. 19/2020) in capo a regioni e comuni, tutt’altro che peregrino in vigenza del d.l. n. 6/2020[10].

La leale collaborazione tra Stato e regioni viene assicurata attraverso uno schema agile, nel senso che i provvedimenti destinati a disciplinare di regola la materia (ovvero i DPCM) sono adottati “sentiti” i Presidenti di regione coinvolti o il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, o su loro proposta, senza ovviamente intese formalizzate che sarebbero incompatibili con le tempistiche necessarie in tempi di emergenza.

La scelta di non comprimere totalmente le competenze di regioni e comuni[11] può forse spiegarsi con il mancato ricorso all’art. 120, co. 2 Cost., il quale consente al Governo, a determinate condizioni – verosimilmente ricorrenti nella tragica situazione attuale (ad es. in caso di pericolo grave per l’incolumità pubblica, o quando lo richiede la tenuta dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) – di sostituirsi a regioni e comuni nelle funzioni amministrative e nelle correlate competenze legislative.

Escluso il ricorso all’art. 120 Cost., la scelta di mantenere un potere residuale alle regioni è dunque in qualche misura necessitata, per consentire un minimo margine operativo alle competenze regionali su sanità e protezione civile, entrambe materie di competenza legislativa concorrente e sulle correlate competenze amministrative, anche ai sensi dell’art. 118 Cost.

La regola di riparto delle competenze poggia su quattro requisiti.

Le regioni, in via residuale rispetto al Governo possono:

a) nell’ambito delle attività di loro competenza

b) adottare misure più restrittive tra quelle elencate nell’art. 1, co. 2 del d.l.,  

a) per specifiche situazioni di aggravamento del rischio sanitario (rispetto a quello già considerato dai DPCM),

c) senza incidere sulle attività produttive e su quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale.

Il primo punto merita qualche precisazione.

Cosa si intende per attività rientranti nell’ambito di competenza regionale?

Non, evidentemente, tutte (e sole) quelle afferenti la materia della sanità, perché in tal caso il richiamo sarebbe del tutto superfluo: l’intero decreto legge ha inteso regolare il riparto di competenze sanitarie, e l’art. 3 delinea appunto i confini di operatività del potere di ordinanza regionale.

Le attività menzionate nell’art. 3 sono allora le più disparate, ad es. le attività ludiche, ricreative, sportive e motorie svolte all’aperto o in luoghi aperti al pubblico (lett. n), le attività di trasporto in ambito regionale (lett o), le attività commerciali di vendita al dettaglio (lett. u) ecc., e più in generale tutte le attività riconducibili a competenze delle regioni nelle più svariate materie loro attribuite dall’art. 117 o in base all’art. 118 Cost., compresa naturalmente la sanità.

Insomma, il potere regionale residuale di ordinanza, dato per ragioni di sanità pubblica nei ristretti limiti dell’art. 3, co. 1, deve avere ad oggetto – come ovvio –  attività rientranti negli ambiti di competenza regionale.

 

3. Un primo test: analisi di alcune nuove ordinanze regionali. – Lo scopo perseguito dal Governo di placare l’interventismo regionale non sembra reggere alla prova dei fatti (normativi).

A pochi giorni dalla pubblicazione del d.l. n. 19/2020 molti Presidenti di regione hanno emanato ordinanze, in larga parte riproduttive dei divieti già contenuti in loro precedenti provvedimenti o in DPCM di identico contenuto, ma talora e almeno in parte contenenti nuove misure, non previste dai DPCM, e non esplicitamente riconducibili all’elenco rigido dell’art. 1, co. 2 del d.l. n. 19/2020.

Ci limitiamo a menzionarne alcune, tra l’altro seguite (o in procinto di essere replicate) da Presidenti di altre regioni.

Il Presidente della regione Lombardia, con ordinanza n. 521 del 4 aprile 2020[12], ha imposto una serie di misure ulteriormente restrittive rispetto a quelle governative.

Dopo aver dato atto di avere proposto al Presidente del Consiglio dei Ministri, l’adozione di tali misure ex art. 2, co. 1, e in attesa della loro (eventuale) emanazione tramite DPCM, il Presidente Fontana ha ritenuto di emanare l’ormai celeberrimo provvedimento, con il quale, tra l’altro, seppure con tecnica normativa e linguaggio non impeccabile[13], ordina che “A Ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione, vanno adottare tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso [sic] e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca, contestualmente ad una puntuale disinfezione delle mani. … B) ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e temperatura corporea superiore a 37,5 C è fatto obbligo di rimanere presso l’abitazione in cui ha [sic] la propria dimora, residenza o domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante”;

L’ordinanza del Presidente della Regione Veneto del 3 aprile appare interessante non solo e non tanto per il contenuto, che verrà analizzato a breve, quanto per il preambolo, nel quale, forse come excusatio non petita, si motiva diffusamente sulla legittimità del potere di ordinanza regionale, nonostante l’entrata in vigore del d.l. n. 19/2020.

Vale la pena di riportarlo: “…Ritenuto che il ricordato Decreto Legge n. 19 del 25.3.2020 non abbia né abrogato né interdetto l'operatività del potere di ordinanza regionale, in specie ai fini dell'adozione di misure più restrittive di quelle statali e quindi rigorosamente funzionali alla tutela non solo del bene salute ma anche e soprattutto del bene vita e che permanga, pur a fronte del dettato dell'art. 3, comma 1, del decreto legge n. 19 del 25.3.2020 e a seguito dell'adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° aprile 2020, primo decreto attuativo del decreto legge medesimo, il potere di ordinanza regionale fondato sugli artt. 32 l. 833/78, 117 d.lgs. 112/98, 50, comma 5, d.lgs. 267/00, anche considerato che il comma 2 dell'art. 3 del decreto legge, disponendo che "I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l'emergenza in contrasto con le misure statali", conserva chiaramente il potere di ordinanza in capo ai sindaci pur dopo l'adozione di misure statali attuative del decreto legge, il che comporta necessariamente, per simmetria, analoga permanenza del potere regionale, purché non in contrasto con le misure statali e quindi purché più restrittive di queste ultime;Ritenuto che sia in particolare pienamente compatibile con il quadro normativo in essere il potere delle Regioni di adottare misure più restrittive finalizzate alla più incisiva tutela della salute e della vita, materia di competenza concorrente agli effetti dell'art. 117 Cost….Ritenuto che la normativa speciale in materia di emergenza epidemiologica Covid-19 si esponga a dubbi di costituzionalità rispetto all'art. 3 e 32 Cost. laddove interpretata come preclusiva dell'utilizzo dei poteri previsti da norme vigenti in funzione ulteriormente cautelativa rispetto a norme statali nei limiti già evidenziati…”;

Si dà poi atto di avere proposto (il giorno precedente) l’adozione di misure più restrittive, peraltro “non accolte” dal Presidente del Consiglio.

Nel merito la situazione specifica di aggravamento viene argomentata in relazione alla grave situazione epidemiologica presente nelle case di cura.

Una motivazione non irresistibile, nella misura in cui le misure restrittive adottate con la citata ordinanza del 3 aprile riguardano in larga parte ambienti e soggetti estranei a tale contesto, mentre, per altro verso, la situazione generale, si dice in altro passaggio del preambolo, è sostanzialmente stabile[14].

Tra le misure ulteriormente restrittive quella più interessante ai nostri fini è rappresentata dall’“obbligo per tutti gli esercizi commerciali, anche all'aperto, di ammettere e fare circolare solo soggetti con mascherine e guanti, verificando la copertura di naso e bocca, di perimetrazione dell'area, di mantenimento di un unico accesso e di ogni strumento per evitare gli assembramenti”.

Si tratta dunque di obblighi posti a capo sia dei consumatori che degli esercenti, i quali ultimi sono investiti di doveri di controllo e di eventuale impedimento all’ingresso.

Il Presidente della Regione Campania, con ordinanza del 3 aprile 2020, ha adottate alcune nuove misure, e ha prorogato la vigenza, fino al 13 aprile 2020, di numerose precedenti ordinanze, compresa la n. 15 del 13 marzo 2020,  la quale, tra le altre misure, in conseguenza della violazione del divieto di uscire dalla propria abitazione se non per comprovate ragioni di lavoro o di salute, disponeva “…l’obbligo immediato per il trasgressore di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario, mantenendo lo stato di isolamento per 14 giorni, con divieto di contatti sociali e [l’obbligo] di rimanere raggiungibile per ogni eventuale attività di sorveglianza”.

Prescindiamo dal merito delle misure contenute nelle tre ordinanze citate, che fissando standard più cautelativi potrebbero anche risultare più funzionali al contenimento del rischio rispetto a quelle fin qui previste dal Governo (o meglio dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro della salute).

Si tratta infatti di scelte di politica sanitaria improntate a maggiore o minore prudenza (o per certi versi precauzione), sui quali ognuno ha le proprie convinzioni.

Su taluni aspetti (ad es. sulla efficacia delle mascherine, nelle svariate tipologie sul mercato, o delle sciarpe) si pronunceranno gli esperti (virologi ed epidemiologi), peraltro facenti parte di organismi di consultazione sia del Governo che delle regioni[15].

Interessa qui verificare la legittimità del potere di ordinanza regionale rispetto al punto di equilibrio disegnato – a torto o a ragione – dal legislatore statale con il d.l. n. 19/2020.

Ebbene, chiariti quali siano le attività di competenza delle regioni, e tralasciata la questione (di puro fatto) se nei casi specifici vi fosse un reale aggravamento, territorialmente circoscritto, della situazione epidemiologica, resta da verificare un dato: le misure ulteriormente restrittive adottate dalle regioni rientrano o meno nell’elenco tassativo dell’art. 1, co. 2 d.l. n. 19/2020, secondo quanto richiesto dall’art. 3 del medesimo testo normativo?

L’obbligo di mascherina (“alla lombarda”, ossia per tutti) non rientra, almeno esplicitamente, in nessuna delle 29 tipologie di misure di contenimento descritte nell’art. 1, co. 2 del d.l. n. 19/2020.

Forse, con qualche sforzo, si potrebbe ricondurlo alle misure di “limitazione delle circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza o domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio motivati da esigenze lavorative…da motivi di salute o da altre specifiche ragioni” (lett. a).

Tale formula, riferendosi solo in via esemplificativa (“anche”) all’an della uscita (e dunque simmetricamente consentendo divieti di allontanamento per le ragioni ivi indicate), potrebbe latamente intesa comprendere anche il quomodo, e cioè le modalità di uscita (con determinate protezioni).

Problematico è d’altra parte ricondurre  l’obbligo di mascherina alla misura sub art. 1, co. 2 lett. ee) (“adozione di misure di informazione e di prevenzione rispetto al rischio epidemiologico”), che paiono più pensate su campagne informative e su misure educative che non su obblighi comportamentali.

Meno problematico appare l’obbligo “alla veneta” di indossare mascherine per i soli acquirenti e lavoratori all’interno di esercizi commerciali.

L’art. 1, co. 2 lett gg), infatti, consente, per i servizi di pubblica necessità (gli unici ad oggi autorizzati alla apertura), ove non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale, di adottare “protocolli di sicurezza anticontagio con adozione di strumenti di protezione individuale”.

D’altra parte la adeguatezza (con qualche dubbio per sciarpe e foulard) e la proporzione delle citate misure regionali lombarda e veneta sembra rispettata.

Quanto alla ordinanza del Presidente della regione Campania n. 15/2020, l’obbligo di autoisolamento con permanenza domiciliare per chi abbia violato l’obbligo di uscita dalla propria abitazione o dimora senza giustificato motivo appare di dubbia legittimità.

È vero che l’art. 1, co. 2 lett. a) consente (anche alle regioni) la limitazione della circolazione delle persone, ma pur sempre, come specificato nel co. 2, “secondo principi di adeguatezza e proporzione al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio…”.

Ebbene, nel caso specifico viene disposta la quarantena per un soggetto che non è (necessariamente) contagiato (anche perché in tal caso l’obbligo deriverebbe da altre disposizioni più generali e comunque da disposizioni statali), né necessariamente è entrato in contatto con soggetti effettivamente o potenzialmente contagiati.

D’altra parte l’art. 1, co. 2 lett. d) limita la quarantena precauzionale ai soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che rientrano da aree ubicate al di fuori del territorio italiano, e la quarantena più severa (divieto assoluto di allontanamento) è circoscritta dall’art. 1, co. 2 lett e) ai soli soggetti positivi al virus.

In definitiva la misura adottata del Presidente De Luca, nella sola parte in cui prevede la sanzione accessoria dell’obbligo di permanenza domiciliare in autoisolamento per 14 giorni, pare di dubbia proporzione, ove abbia come destinatari soggetti non positivi al virus né entrati in contatto con altri soggetti potenzialmente contagiati.

Tra l’altro l’eventuale illegittimità dell’ordinanza in questione, per la parte segnalata, potrebbe inficiare la legittimità della diffida, penalmente sanzionabile ai sensi dell’art. 650 c.p., in quanto provvedimento individuale a destinatario determinato[16].

 

4. Cosa ci aspetta – Trascorsa una decina di giorni dalla pubblicazione del d.l. n. 19/2020 il tentativo del Governo di contenere il potere di ordinanza regionale non sembra avere dato i frutti sperati.

Fin tanto che il Governo non attiverà i poteri sostitutivi previsti dall’art. 120, co. 2 Cost., la convivenza con il protagonismo dei Presidenti regionali non è destinata a trovare pace.

Nella odierna drammatica situazione, certo complessa e non facile per qualsiasi legislatore, il potere regionale di ordinanza, pur residuale e quasi interstiziale, esiste e resiste, e l’art. 3 del d.l. non sembra in grado di arginarlo più che tanto.

La vaghezza di alcune misure, pur tipizzate, e la clausola spesso ricorrente della “limitazione o sospensione” di questa o quella attività, finiscono per incentivare modulazioni differenziate su base territoriale.

D’altra parte, se da un lato il principio della riserva di legge esige un elevato grado di precisione e specificazione delle misure che comprimono le libertà per ragioni di tutela della sanità pubblica, è altrettanto vero che le caratteristiche in parte inedite del nuovo virus e le scarse conoscenze scientifiche oggi disponibili rendono quelle misure rapidamente obsolescenti, e dunque esigono un continuo monitoraggio e, se del caso, una pronta sostituzione, ottenibile o con una frenetica decretazione d’urgenza, o con formule sufficientemente (e pericolosamente) elastiche.

C’è da scommettere che i Presidenti di regione, anche nel prossimo futuro, in forza dal potere derivante loro dal meccanismo di elezione diretta, e per varie ragioni anche di protagonismo, continueranno, ove lo ritengano utile, ad alzare l’asticella delle misure, sfruttando l’art. 3 e la ricordata vaghezza di alcune tipologie di misure di contenimento del rischio sanitario.

D’altra parte non può escludersi che il Governo, o il Presidente del Consiglio, o il Ministro della salute adottino a loro volta, come già accaduto, le misure avanguardistiche di questa o quella regione.

La risposta sanzionatoria alla violazione delle misure di contenimento del rischio epidemiologico, ora quasi esclusivamente amministrativa, non deve fare abbassare la guardia al penalista.

Non solo perché si tratta pur sempre di illeciti amministrativi punitivi, che incidono anche pesantemente su libertà fondamentali; ma anche perché colui che violi tali disposizioni, di carattere normativo e a soggetto indeterminato, risulterà destinatario in taluni casi di misure “individuali” (diffide, chiusura di esercizio commerciale o di attività), con il rischio, in caso di ulteriore violazione, di incriminazione “secondaria” ai sensi dell’art. 650 c.p.

Un rischio che dovrebbe essere scongiurato dalla previsione, all’art. 4, co. 5, di raddoppio della sanzione amministrativa in caso di reiterata violazione della medesima disposizione, da intendersi come medesima misura di contenimento[17], anche in base alla consolidata giurisprudenza sull’art. 650 c.p., che ne esclude l’applicazione in presenza di altre sanzioni specifiche, comprese quelle di natura non penale e addirittura processuale[18].

Più in generale, la vicenda in commento mostra una tendenza non nuova: qualunque potere prova a legittimarsi e ad autoalimentarsi anche attraverso l’esercizio del potere punitivo, il più plateale agli occhi del pubblico, sia esso penale o (in misura minore) amministrativo, rientri o meno tale potere negli esatti spazi delegati o riconosciuti da altri poteri superiori o concorrenti.

Pur nella eterogeneità delle vicende e dei rapporti tra istituzioni, e molto semplificando, è successo con l’Unione europea con l’adozione di direttive contenenti obblighi espressi di incriminazione in capo agli Stati membri; è successo nelle ricorrenti stagioni delle ordinanze sindacali, con la minaccia (infondata) di applicazione dell’art. 650 c.p. in caso di loro violazione; è successo con le ordinanze regionali, la cui violazione è stata per circa un mese assistita, quoad poenam, dalle sanzione ancora una volta assicurata del redivivo art. 650 c.p. (art. 4, co. 3 d.l. n. 6/2020); succede oggi con la previsione di sanzioni amministrative, pecuniarie e talora interdittive, per la violazione (anche) delle ordinanze regionali che prevedono misure di contenimento del rischio epidemiologico.

Una pluralità di fonti tipica di ordinamenti giuridici reticolari e multilivello, in cui il rischio concreto, sul piano sanzionatorio, è che ciascun “ente” si prenda una porzione di potere punitivo o approfitti di deleghe altrui per accrescere quello assegnatogli, in una spirale poco rassicurante per gli spazi di libertà individuale, quand’anche in ipotesi funzionale alla tutela del bene della salute pubblica.

 

 

[1] Si vedano i commenti di G.L. Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in questa Rivista, 16 marzo 2020; G. Pighi, La trasgressione delle misure per contrastare il coronavirus: tra problema grave e norma penale simbolica, in Legislazione penale, 20.3.2020; B. Romano, Il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità al tempo del Coronavirus, in www.ilpenalista.it, 16 marzo 2020; C. Ruga Riva, La violazione delle ordinanze regionali e sindacali in materia di corona virus: profili penali, in questa Rivista, n. 3/2020, 231 ss.

[2] Cfr. Coronavirus, per i centomila denunciati il reato cambia: pagheranno 200 euro al posto della denuncia, in www.lastampa.it del 26 marzo 2020, ove si riporta il dato (fonte Ministero dell’Interno), di 115.138 denunciati a fronte di 2.675.113 controllati.

[3] Si vedano ad es. i contributi pubblicati in federalismi.it di L. Cuocolo (a cura di), I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata; M. Cavino, Covid-19. Una prima lettura dei provvedimenti adottati dal Governo; L.A. Mazzarolli, “Riserva di legge” e “principio di legalità” in tempo di emergenza nazionale, nonché quello di  F. Filice-G.M. Locati, Lo stato democratico di diritto alla prova del contagio, in Questione giustizia, 27 marzo 2020.

[4] Per i primi commenti a tale decreto legge v. C. Cupelli, Emergenza Covid-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in questa Rivista, 30 marzo 2020; G.L. Gatta, Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza COVID-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci e ombre nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19, in questa Rivista, 26 marzo 2020; A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie, in Questione giustizia, 28 marzo 2020.

[5] Cfr. art. 1, co. 2, lett. u), v), z ) e aa).

[6] Cfr. art. 1, co. 2, lett. f) e lett. i).

[7] Art. 1, co. 3: “Per la durata dell’emergenza di cui al comma 1, può essere imposto lo svolgimento delle attività non oggetto di sospensione in conseguenza dell’applicazione di misure di cui al presente articolo, ove ciò sia assolutamente necessario per assicurarne l’effettività e la pubblica utilità, con provvedimento del prefetto assunto dopo avere sentito, senza formalità, le parti sociali interessate”.

[8] V. art. 2, co 2.

[9] Cfr. art. 3.

[10] Cfr. sul punto C. Ruga Riva, La violazione delle ordinanze regionali, cit., 235 ss.

[11] Sottolinea come  l’art. 118 Cost. non consenta di “tagliare fuori” le competenze della autorità locali U. Allegretti, Una normativa più definitiva sulla lotta all’epidemia del coronovirus?, in Forum di Quaderni costituzionali, 28 marzo 2020, 4.

[12] Recante “Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica e dell’art. 3 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19”.

[13] Il divieto non è infatti imposto in termini imperativi; l’obbligo di mascherina in realtà non è tale, potendo essere surrogato da sciarpe e foulard (precisazione che ad essere maliziosi può salvaguardare i dirigenti delle aziende sanitarie lombarde che, ad oggi, non hanno ancora fornito di mascherine i medici di base); il riferimento alle misure “precauzionale consentite e adeguate” non è chiaro, ove fosse inteso a misure diverse da quelle ivi indicate (mascherine o sciarpe, pulizia delle mani).

[14] Si legge infatti “…che il raffronto temporale dei dati evidenziano una situazione sostanzialmente stabile alla quale deve corrispondere, allo stato, una stabilità di misure ed anzi un rafforzamento delle stesse, dovendo essere promosso il contenimento dei soggetti isolati e di suscettibile ricovero”.

[15] Si veda ad es. l’articolo di A. Montanari e A. Ziniti, in La Repubblica, Mascherine obbligatorie la stretta di Fontana Borrelli: “Io non le uso”, del 5 aprile 2020, p. 9, ove si dà conto dell’opinione del Presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, secondo cui non vi sarebbero “evidenze fortissime” circa l’opportunità di usare le mascherine, e delle dichiarazioni del Capo della Protezione civile, il quale continuerebbe a non usare la mascherina.

[16] Sul punto si rinvia a C. Ruga Riva, La violazione delle ordinanze regionali, cit., 241 ss.

[17] G.L. Gatta, Un rinnovato assetto , cit., 10.

[18] Si veda ad es., tra le molte, Cass. 11.12.2009, Parisi, CED 245635.