Cass., Sez. III, sent. 16 ottobre 2019 (dep. 12 febbraio 2020), n. 5512, Pres. Izzo, Rel. Liberati
1. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione ha affermato che il consenso della persona offesa nel reato di violenza sessuale non può essere desunto dal fatto che la vittima si sia fatta riaccompagnare a casa in automobile dal violentatore in seguito all’atto sessuale; né tale circostanza, al pari dell’assenza di evidenti lesioni corporali, può rilevare ai fini della valutazione sull’attendibilità della sua testimonianza.
In particolare, la Suprema Corte ha affrontato due distinti ambiti di indagine: sotto un profilo sostanziale, si è correttamente posta in linea con il costante orientamento secondo il quale non è possibile desumere il consenso della persona offesa dai suoi comportamenti successivi alla violenza; sotto un profilo processuale, invece, ha perso l’occasione per affrontare lo spinoso tema del rapporto tra rinnovazione dibattimentale in appello e tutela della vittima vulnerabile nei casi di overturnig da assoluzione a condanna.
2. Per meglio analizzare le questioni giuridiche più rilevanti, occorre ripercorrere brevemente i fatti che hanno portato alla pronuncia in esame. In data 14 novembre 2013, il Tribunale di Lodi assolveva l’imputato dal reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p., ritenendo che le dichiarazioni della vittima non fossero pienamente attendibili, essendo il suo comportamento successivo alla violenza (ossia il farsi riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato) logicamente incompatibile con un rapporto non consensuale. Con sentenza del 22 gennaio 2019, la Corte di appello di Milano – valutando, invece, le dichiarazioni della persona offesa pienamente attendibili – riformava la sentenza di primo grado e condannava l’imputato.
Quest’ultimo proponeva ricorso in cassazione, lamentando ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett b) ed e) cod. proc. pen, la contraddittorietà della motivazione nella parte relativa alla valutazione delle prove. In particolare, denunciava la violazione dell’art. 192, commi 1, 2 e 3 cod. proc. pen. nel giudizio di attendibilità della persona offesa e riteneva inverosimile il difetto di consenso, logicamente incompatibile con la condotta serbata dalla vittima. Evidenziava, inoltre, come dall’assenza di lesioni sul suo corpo e dall’apparente, modesta entità del turbamento conseguito alla violenza si potesse desumere la configurabilità dell’ipotesi meno grave di violenza sessuale di cui al terzo comma dell’art. 609 bis cod. pen.
La Corte di legittimità, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, escludeva la sussistenza dei vizi motivazionali dedotti dal ricorrente, da un lato, evidenziando come la reazione della vittima fosse in realtà compatibile con la violenza subita; dall’altro, osservando che le dichiarazioni della persona offesa avevano trovato puntuale riscontro nell’esito della visita ginecologica e nelle testimonianze dei vicini di casa e della compagna, con i quali la vittima si era confidata.
3. Analizzando il profilo processuale, la Corte di cassazione ha condiviso l’iter motivazionale della Corte di appello, ritendendo che la stessa avesse correttamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima, superando, così, l’opposta valutazione compiuta dal Tribunale.
In particolare, la Corte ha affermato la legittimità della motivazione censurata dal ricorrente alla luce del consolidato orientamento secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono ritenersi veritiere e idonee ad essere valutate quale mezzo di prova, quando la loro attendibilità – pur se valutata solo intrinsecamente – risulti corroborata da elementi testimoniali e documentali[1]. Le regole dettate dall’art. 192, terzo comma, cod. proc. pen., infatti, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali, pertanto, possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, senza la necessaria presenza di riscontri esterni. Qualora, invece, si acquisiscano riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo ad escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione[2].
Non di rado nel reato di violenza sessuale l’imputato e la parte offesa sono gli unici depositari della vicenda, dipendendo così l’accertamento dei fatti dalla valutazione del contrasto delle loro opposte versioni: proprio per tale ragione, occorre vagliare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità intrinseca del suo racconto in modo più penetrante e rigoroso rispetto a quanto avviene per le dichiarazioni di qualsiasi testimone, dovendo l’esito del relativo giudizio essere sempre supportato da idonea motivazione[3].
La Corte ha del resto ribadito il principio per cui detto giudizio può svolgersi anche sulla base di valutazioni di carattere logico, di massime di esperienza o di fatti notori, i quali devono risultare indicati nella motivazione. Come noto, infatti, l’attività valutativa del giudice deve sempre esplicarsi, oltre che nel rispetto dei confini normativi, anche nel rispetto di confini razionali[4].
Nel caso di specie, la Suprema corte ha ripercorso, condividendoli, i rilievi sulla base dei quali il Giudice di seconde cure ha ritenuto attendibile la persona offesa. In particolare, ha evidenziato come le modalità della prima rivelazione dell’abuso (ai vicini di casa ed alla compagna) costituissero un indice di genuinità e come non fossero emerse ragioni plausibili per ritenere calunniose le accuse. Inoltre, la circostanza che, nell’immediatezza dell’episodio, la donna si fosse fatta riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato non poteva in alcun modo costituire un fatto idoneo a minarne la credibilità né un elemento utile da cui desumere il consenso di quest’ultima all’atto sessuale, rappresentando, al contrario, una reazione conseguente alla portata traumatica dell’episodio.
Pertanto, nel caso in esame, la Corte ha ritenuto pienamente «compatibile con la violenza appena subita il fatto che la vittima si fece riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato», sottolineando come la motivazione della Corte di appello fosse «caratterizzata dal necessario confronto critico con la motivazione della sentenza assolutoria di primo grado e immune da vizi logici, […] fondata su una corretta e approfondita analisi delle dichiarazioni della persona offesa».
3.1. Sebbene quanto affermato dalla Corte di cassazione rappresenti indubbiamente un utile principio che, ponendosi in linea con la giurisprudenza precedente, contribuisce a valorizzare il ruolo della vittima di reato, sarebbe stato possibile cogliere l’occasione per affrontare l’importante tematica delle dichiarazioni rese dalle vittime vulnerabili in caso di rinnovazione del dibattimento in appello[5].
Come noto, il codice di rito ai sensi dell’art. 190 bis, comma 1 bis prevede particolari cautele nell’esame di persone offese particolarmente vulnerabili, volte a ridurne quanto più possibile l’assunzione dell’esame testimoniale[6]. Allo stesso tempo, l’art. 603, comma 3 bis[7] cod. proc. pen. impone la rinnovazione dell’istruttoria in sede di gravame nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.
Ebbene, il rapporto tra dette previsioni non appare del tutto lineare, tanto più in virtù della recente giurisprudenza sul punto, la quale, sulla scia delle celebri sentenze Dasgupta e Patalano, parrebbe richiedere, in caso di overturning dal proscioglimento alla condanna, la rinnovazione dell’esame della vittima[8]. In tali frangenti, risulta problematico coniugare l’esigenza di immediatezza e di oralità con la protezione delle vittime vulnerabili. Invero, vengono in rilievo due interessi primari, rispondenti, il primo, al valore garantistico della presunzione di innocenza ed alla connessa esigenza di oralità nel giudizio di secondo grado che si risolva in una modifica in peius della sentenza; ed il secondo, all’esigenza di assistenza e protezione della persona offesa, in conformità con quanto stabilito dalla direttiva 2012/29/UE e dal codice di rito all’art. 190 bis, comma 1bis.[9]. Occorre assicurare che siano ridotte al minimo le occasioni di necessaria partecipazione al processo, che rappresentano un momento di ulteriore sofferenza per la parte lesa, la quale è costretta a rievocare fatti difficili nel contesto particolarmente conflittuale del dibattimento. In tal senso, deve essere letta la previsione dell’art. 20, lett b) della direttiva 2012/29 laddove prevede che «il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo e le audizioni abbiano luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale».
Allo stesso tempo, è la medesima direttiva che nel considerando numero 12 precisa che i diritti enunciati «fanno salvi i diritti dell’autore del reato», e, in particolare «fa salva la presunzione di innocenza». Pertanto, l’attenuazione del contraddittorio necessaria alla protezione della parte offesa deve comunque confrontarsi con i principi di oralità ed immediatezza, alla stregua dei quali il giudice è tenuto a percepire direttamente la prova nel momento stesso della sua formazione, così da coglierne tutti i connotati espressivi, utili nel giudizio di attendibilità.
A tal riguardo, peraltro, coerentemente con quanto più volte ribadito dalla giurisprudenza della corte di Strasburgo, si è affermato che il giudice di appello, per riformare in peius una sentenza assolutoria deve assumere direttamente la testimonianza della persona offesa, ritenuta inattendibile in primo grado, al fine di valutarne la credibilità sotto il profilo oggettivo e soggettivo, pena altresì la violazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, tra i quali il diritto dell’imputato a interrogare e far interrogare i testimoni a suo carico[10].
La soluzione prospettata finora in giurisprudenza, legata ad una interpretazione strettamente letterale dell’art. 603 cod. proc. pen., non convince, in quanto – incurante delle prioritarie esigenze di tutela della persona offesa delineate dalla direttiva 2012/29/UE – impone al giudice del gravame di riascoltare la parte lesa, pena un vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen[11].
Se si vuole assicurare una protezione effettiva alla vittima vulnerabile – per evitare che il processo si trasformi in una reiterazione dell’esperienza traumatica – le misure di attenuazione del contradditorio dovrebbero operare anche e soprattutto in sede di gravame, per non vanificare i meccanismi di garanzia che, nel giudizio di primo grado, impediscono la formazione in dibattimento della prova testimoniale quando le dichiarazioni del soggetto vulnerabile siano già state acquisite nel corso delle indagini[12]. A tal fine, la legge dovrebbe fornire parametri il più possibile chiari e precisi, partendo, ad esempio, dalla possibilità di prevedere l’utilizzo della registrazione audiovisiva dell’esame testimoniale anche in appello, così da trarne i necessari elementi di valutazione senza dover reiterare l’escussione della vittima [13].
4. Così analizzati gli aspetti procedurali, la sentenza in commento contiene altresì importanti spunti di carattere sostanziale circa la nozione di consenso nel reato di violenza sessuale. Come noto, la fattispecie di cui all’art. 609 bis cod. pen. si caratterizza per essere il soggetto passivo costretto a compiere o a subire l’atto sessuale, ove la nozione di costrizione esprime la necessaria mancanza di un libero consenso all’atto sessuale. Il consenso, pertanto, deve essere espresso e perdurare per l’intera durata del rapporto, non potendosi desumere dalla mera mancanza di reazioni esteriori oppositive delle vittime. Al contrario, non è necessario che il dissenso sia manifestato dal soggetto passivo durante tutto il rapporto sessuale: anzi, agli effetti dell’art. 609 bis, è irrilevante che, nel corso della violenza, la persona offesa non abbia reagito in alcun modo all’atto sessuale o vi abbia persino apparentemente consentito per il solo timore di ulteriori ritorsioni[14].
A questo proposito, si deve ritenere ormai superata tanto l’impostazione anacronistica della vis grata puellis[15], quanto l’idea del costante onere di resistenza della donna stuprata, secondo il quale per aversi «violenza carnale deve la resistenza della donna essere seria e costante. Seria, che è quanto dire non affettata per simulare onestà, ma realmente espressiva di un volere decisamente contrario. Costante, che è quanto dire mantenuta fino all’ultimo momento; non incominciata dapprima e poscia abbandonata per far luogo ad un concorso nel mutuo godimento»[16].
In particolare, il consenso non può in alcun modo essere dedotto in via diretta dal fatto che la vittima non abbia opposto un’efficace resistenza all'aggressore: devono ritenersi prive di rilevanza tanto l’assenza di lesioni personali sul corpo della persona offesa, quanto un comportamento remissivo, anche successivo all’abuso, in considerazione dello stato di paura in cui versa la stessa[17]. Nel caso di specie, infatti, lo stato di paura in cui la vittima era venuta a trovarsi e la maggior prestanza fisica dell’imputato (il quale l’aveva sollevata, portata su un lettino posto nello spogliatoio della palestra, ove entrambi lavoravano, e bloccata con il peso del proprio corpo) le avevano materialmente impedito una concreta opposizione.
4.1. Parimenti, la previsione codicistica della violenza, minaccia o abuso di autorità quale elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. non può dare adito a interpretazioni pericolose, in forza delle quali desumere la sussistenza del consenso ogniqualvolta la costrizione derivi da condotte difformi rispetto a quelle descritte dalla norma[18]. In questa prospettiva, il giudice sarebbe tenuto ad accertare non una generica mancanza di consenso, ma altresì la presenza di una condotta violenta, di una minaccia o di un abuso di autorità, come sostenuto da alcuni autori inclini a ritenere tale specificazione opportuna sul piano della determinatezza, potendo la violenza e la minaccia costituire utili referenti in grado di conferire un «minimum di obiettiva riconoscibilità ed un certo grado di disvalore»[19].
Tuttavia, nella prassi applicativa, una simile interpretazione ha fortunatamente trovato poco spazio.
In primo luogo, un tale risultato darebbe vita al paradosso per il quale in reati meno gravi – come, ad esempio, la violazione di domicilio di cui dall’art. 614 cod. pen. – sarebbe sufficiente il mero dissenso del titolare del diritto, mentre la configurabilità di delitti gravi, come la violenza sessuale, richiederebbe elementi ulteriori. Invero, ai sensi dell’art. 614 cod. pen., il reato di violazione di domicilio viene commesso da chiunque si introduce o si trattiene nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Le condotte penalmente rilevanti, quindi, consistono alternativamente nell’introdursi o nel trattenersi nell’altrui abitazione invito domino (ossia contro la volontà di chiunque abbia il potere di esclusione), mentre l’utilizzo della violenza costituisce solo un’aggravante.
In secondo luogo, come evidenziato da gran parte della dottrina e dalla giurisprudenza, si creerebbe un contrasto con la ratio stessa dell’art. 609 bis cod. pen. Quest’ultima rischierebbe, infatti, di essere frustrata ove si ritenesse necessario, ai fini della configurabilità di un delitto contro la libertà sessuale, l’uso di mezzi coercitivi qualificati e non la mera volontà contraria della vittima. Se, infatti, la norma mira a tutelare e valorizzare la persona offesa, appare arduo comprendere la ragione per cui il baricentro dell’incriminazione non dovrebbe consistere nel dissenso della stessa[20].
Sul punto, al fine di superare la rigidità della norma, che parrebbe configurare il reato di violenza sessuale come un reato a forma vincolata, la giurisprudenza ha progressivamente fornito interpretazioni sempre più ampie delle condotte tipizzate, tanto da privarle di una effettiva portata selettiva[21]. Tale evoluzione, sebbene indubbiamente conforme alla ratio della disposizione, risulta, tuttavia, un rimedio insufficiente al quale dovrebbe sopperire il legislatore.
A tal riguardo, risultano emblematici i moniti espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia “M.C. v. Bulgaria” del 4 dicembre 2003[22] . I giudici di Strasburgo hanno ricordato che, storicamente, la prova di una condotta violenta da parte del molestatore, così come di una resistenza da parte della vittima, sono stati a lungo considerati requisiti tipici del reato di violenza sessuale in molti paesi, ma, ad oggi, gli stessi non possono più essere considerati tali dagli Stati Membri, cosicché ogni riferimento alla forza fisica dovrebbe essere rimosso dal diritto positivo.
Secondo la Corte, contrariamente a quanto si registra negli ordinamenti di alcuni paesi ove la nozione di violenza sessuale continua a contenere riferimenti alla violenza o alla minaccia usata dall’agente, è la mancanza di consenso e non la presenza di violenza a dover caratterizzare tale reato.
Più nello specifico, la Corte ha evidenziato che solo mediante la criminalizzazione di tutti gli atti sessuali non consensuali – indipendentemente dalla resistenza espressa dalla persona offesa – è possibile garantire un’effettiva tutela per le donne vittime di violenza e, in tal senso, tutte le legislazioni nazionali dovrebbero, quindi, implementare le proprie previsioni interne.
Inoltre, come emerso da un’analisi svolta dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nel diritto internazionale ogni atto sessuale posto in essere senza il consenso della vittima viene qualificato come violenza sessuale, a riprova di una tendenza globale che identifica nella mancanza di consenso l’elemento essenziale del reato. Del resto, le vittime di abusi sessuali spesso non riescono a reagire attivamente per un ampio ordine di motivi, sia fisici che psicologici.
Pertanto, gli Stati membri – in virtù di quanto previsto dall’art. 3 e dall’art. 8 della CEDU – dovrebbero garantire l’effettiva criminalizzazione di ogni atto sessuale non consensuale, anche qualora la persona offesa non resista all’abuso. Laddove la disciplina positiva non lo consenta, prevedendo condotte tipicamente vincolate, l’interpretazione delle stesse dovrà essere di tale ampiezza da ricomprendervi tutti gli atti sessuali compiuti invito domino[23].
5. In conclusione, con la pronuncia esaminata, la Corte di cassazione ha dato seguito ad un orientamento che, per quanto oggi possa apparire scontato, non ha sempre riscosso favore in passato. Infatti, non sono mancate, anche recentemente, decisioni fondate su di una considerazione riduttiva della deposizione della persona offesa, che sarebbe caratterizzata da una minore valenza probatoria[24].
In particolare, è ancora diffusa l’equazione testimone vulnerabile – testimone meno credibile, pur in assenza di un fondamento positivo o giurisprudenziale che consenta di qualificare tale testimonianza come debole. Sebbene non possa negarsi che le dichiarazioni della vittima vulnerabile contengano delle specificità, queste non portano, tuttavia, a una minore valenza probatoria della dichiarazione o ad un aprioristico giudizio di inaffidabilità della stessa, ma impongono, piuttosto, particolari cautele nelle modalità di raccolta della prova, le quali devono essere idonee a garantirne la genuinità e ad evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria[25]. A tal riguardo, si auspica un intervento volto a chiarire come le stesse cautele debbano essere presenti altresì nella rinnovazione del dibattimento in appello, ove la protezione della vittima vulnerabile non può essere tout court sacrificata in nome del principio di immediatezza.
5.1. Parimenti, maggiore chiarezza dovrebbe essere fatta sul concetto di consenso. Sebbene con il termine consenso si intenda la presenza di una espressa volontà affermativa, talvolta esso viene ancora erroneamente ritenuto un complemento necessario di altra condizione, esterna al consenso stesso ed indipendente da questo. In particolare, a venire in rilievo sono elementi ulteriori, alla presenza dei quali si deduce altresì necessariamente il consenso, secondo l’inferenza logica del “se A, allora B”, dove A è sempre una condotta della vittima – come, ad esempio, quella di accettare di recarsi nell’abitazione di un soggetto, accettare di baciarlo o, come nel caso in esame, accettare di farsi riaccompagnare a casa dopo la violenza – e B è, appunto, il consenso.
Fortunatamente, tale tendenza risulta sempre più contrastata dalla recente giurisprudenza, che più volte ha precisato come l'elemento oggettivo del delitto in esame possa dirsi integrato non solo se la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui sia realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso da parte della vittima, ma anche qualora l’atto sessuale venga posto in essere in mancanza di un consenso della persona offesa, non espresso neppure tacitamente.
Si è altresì affermato che il consenso della vittima al compimento di atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto, potendo quindi venir meno il consenso inizialmente prestato a causa di un successivo ripensamento ovvero per la non condivisione delle forme e delle modalità di consumazione del rapporto[26]. Viceversa, è stato chiarito come non sia necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi anche solo all'inizio della condotta antigiuridica[27] .
Ebbene, se risulta ormai pacifico che il consenso della vittima non possa essere dedotto da elementi diversi dal consenso stesso, il quale deve essere libero di formarsi ed esprimersi chiaramente, appare auspicabile una riforma dell’art. 609 bis cod. pen., volta ad inserire nella disposizione stessa la locuzione «contro il consenso della persona offesa», al fine di fugare ogni ulteriore margine di dubbio circa la sua interpretazione[28].
[2] Da ultimo, ex multis, Cass. Pen. Sez. V., 26 marzo 2019, n.21135, C.E.D. Cass., rv. 275312.
[3] Sulla testimonianza della vittima come facoltà e dovere si veda anche G. Illuminati, La vittima come testimone, in L. Luparia (a cura di), Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, Cedam, 2015, pp. 65 e ss.
[4] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 8 luglio 2019, n. 29648, in C.E.D. Cass., rv. 27701802.
[5] Per la nozione di vulnerabilità si veda l’art. 90 quater cod. proc. pen., ai sensi del quale «Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall'età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del reato.». La vulnerabilità può quindi dipendere dal tipo di reato (ad esempio, delitti di criminalità organizzata o delitti contro la libertà sessuale) o dalle condizioni di debolezza soggettive della vittima stessa (ad esempio, l’infermità mentale o la minore età).
[6] Al primo comma, l’art. 190-bis cod. proc. pen. stabilisce che nell’ambito di procedimenti di criminalità organizzata, l’esame dei testimoni o degli imputati ex art. 210 c.p.p. che abbiano già reso dichiarazioni è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze. Il comma 1-bis stabilisce che la stessa disciplina si applica anche nei procedimenti relativi ad alcuni delitti contro la persona (tra cui quelli di violenza sessuale) qualora l’esame richiesto riguardi un testimone minore degli anni sedici o una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità.
[7] Comma inserito dall’art. 1, comma 58, della L. 23 giugno 2017, n.103, a decorrere dal 3 agosto 2017.
[8] Sul punto, le Sezioni unite Dasgupta avevano stabilito che «per quanto riguarda, in particolare, la figura del soggetto vulnerabile (come per i minori, soprattutto se vittime di reati) non sussistono valide ragioni per ritenere inapplicabile la preclusione di un ribaltamento ex actis del giudizio assolutorio. Peraltro, in questa speciale situazione è rimessa al giudice la valutazione circa l'indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell'impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria.». Cfr. Cass., Sez. Un., 28.4.2016, n 27620 in C.E.D. Cass. rv. 267488. Per un’analisi approfondita dell’evoluzione giurisprudenziale si vedano H. Belluta – L. Luparia, La parabola ascendente dell’istruttoria in appello nell’esegesi “formante” delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2017, pp. 151 e ss;
[9] La direttiva 2012/29 esige una valutazione individuale, per la quale si deve tener conto delle caratteristiche personali della parte lesa, della natura, del tipo e delle circostanze del reato, richiedendo, in ogni caso, particolare attenzione per le vittime che hanno subito un notevole danno a causa della gravità del reato. In particolare, circa le modalità della testimonianza, la direttiva prevede, all’art. 23, che, durante il procedimento giudiziario, le vittime vulnerabili possano avvalersi di «a) misure per evitare il contatto visivo fra le vittime e gli autori dei reati, anche durante le deposizioni, ricorrendo a mezzi adeguati fra cui l’uso delle tecnologie di comunicazione; b) misure per consentire alla vittima di essere sentita in aula senza essere fisicamente presente, in particolare ricorrendo ad appropriate tecnologie di comunicazione; c) misure per evitare domande non necessarie sulla vita privata della vittima senza rapporto con il reato; e d) misure che permettano di svolgere l’udienza a porte chiuse». Sul punto si veda G. Illuminati, La vittima come testimone, op.cit., pp. 68 e ss. Più in generale, sulla portata della Direttiva, recepita in Italia dal D. Lgs. 212/2015, e considerata un vero e proprio statuto dei diritti minimi della vittima, si vedano M. Bargis, H. Belluta, La direttiva 2012/29/UE: diritti minimi della vittima nel processo penale, in Eid. (a cura di), Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri., Giappichelli Editore, Torino, 2017, e H. Belluta, Il processo penale di fronte alla vittima particolarmente vulnerabile: aspirazioni (comunitarie) e aporie nazionali, in www.lalegislazionepenale.eu, 4.7.2016, pp. 20 e ss., nonché A. Diamante, La direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Origini, ratio, principi e contenuti della Direttiva recepita dal D.Lgs. 212/2015, in Giur.Pen. 2016.
[10] Cfr. Cass., Sez. II, 20 giugno 2017, n. 41571 con nota di H. Belluta, Oltre Dasgupta o contro Dasgupta? Alle Sezioni Unite decidere se la rinnovazione è obbligatoria anche in caso di overturnig da condanna a proscioglimento in Dir. pen. cont., fasc. 10/2017, pp. 295 e ss.
[11] In particolare, tra le ultime, si veda Cass. Pen., Sez. III, 25 giugno 2019, n. 50774, inedita, nella cui motivazione si legge «in definitiva, il giudice d’appello non può pervenire ad una sentenza di condanna senza sentire la vittima, sia pure con tutte le cautele del caso».
[12] Si pensi, ad esempio, alla disclosure integrale degli atti di indagine in caso di incidente probatorio.
[13] Sul punto, è stato correttamente affermato che «il riconoscimento dello stato di vulnerabilità e della correlata incapacità del vulnerabile di fornire contributi probatori affidabili, ove sia escusso reiteratamente e con modalità ordinarie, costituisce un significativo riconoscimento della testimonianza come “evento”, che dipende dalle condizioni soggettive del dichiarante, dall’ambiente in cui si svolge l’esame, oltre che dalle interazioni tra intervistato ed intervistatore […] Le norme che consentono l’attivazione di speciali modalità di protezione non sono poste solo a tutela degli interessi del dichiarante, ma della stessa genuinità della prova: le modalità di assunzione della testimonianza incidono infatti sui processi di riedizione del ricordo ed, in definitiva, sull'attendibilità della prova testimoniale, sicché l'audizione in ambiente non tutelante, e con modalità non adeguate, potrebbe avere importanti conseguenze non solo sulla lesione di diritti del dichiarante, ma sulla stessa affidabilità della prova. […] Occorre, inoltre, considerare che la rinuncia all’oralità è ampiamente bilanciata dalla videoregistrazione. Il supporto documentale audiovisivo consente infatti di “rinnovare” la percezione diretta della testimonianza durante ogni fase processuale, dal dibattimento all’appello. […] L’imposizione di un obbligo di rinnovazione rischia di destrutturare il sistema in quanto contrasta la riconosciuta idoneità probatoria permanente della videoregistrazione, idonea a surrogare la valutazione diretta della testimonianza/evento». Cfr. S. Recchione, La vittima cambia il volto del processo penale: le tre parti eventuali, la testimonianza dell’offeso vulnerabile, la mutazione del principio di oralità, in Dir. pen. cont., fasc. 1/2017, pp. 69 ss. Si veda altresì, H. Belluta – L. Luparia, La parabola ascendente dell’istruttoria in appello nell’esegesi “formante” delle Sezioni Unite, op. cit. p. 161.
[14] In tal senso, G. Cazzetta, Colpevole col consentire. Dallo stupro alla violenza sessuale nella penalistica dell’Ottocento, in RIDPP, 1997, 460, nt.103. Per un’analisi dell’evoluzione legislativa sulle norme a tutela delle donne vittime di violenza si vedano F. Basile, La tutela delle donne dalla violenza dell’uomo: dal Codice Rocco… al Codice Rosso, in Diritto Penale e Uomo, fasc. 11/2019, pp. 78 e ss; B. Romano, Le modifiche agli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-septies e 609-octies del codice penale (art. 13, l. 19 luglio 2019, n. 69), in Romano-Marandola (a cura di), Codice Rosso. Commento alla l. 19 luglio 2019, n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, Pacini editore,Pisa, 2020.
[15] Trattasi di un antico principio comune negli insegnamenti dei giureconsulti pratici, i quali esigevano “in colei che si asseriva violentata quattro esternalità: le grida contemporanee alla violenza, i capelli disciolti, le vesti scompigliate e il racconto immediato dell’accaduto”, (in tal senso, censurando una pellicola cinematografica che forniva una lettura evolutiva, M. Finzi, Il film “Art. 519 Codice Penale” nelle riflessioni di un penalista, in Giust. Pen., 1953, I, 434.
[16] Cfr. F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Giusti, 1868, pp. 292-293.
[17] Cass. Pen., Sez. III, 21 febbraio 2000, n. 1911, inedita.
[18] Il riferimento è alla nota Cass. Sez. III, 6 novembre 1998, n. 3355, la quale ha suscitato particolare scalpore a causa dell'affermazione per cui, con riferimento alle modalità della condotta tipica del reato di violenza sessuale, i blue-jeans non potrebbero essere sfilati senza il consenso della vittima, escludendo di conseguenza la sussistenza del reato. In particolare, la Corte si era espressa nei seguenti termini «In tema di violenza sessuale, è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica.». Sulla suddetta decisione la maggioranza della dottrina si è pronunciata in senso critico, tra i quali F.M. Iacoviello, Toghe e jeans. Per una difesa (improbabile) di una sentenza indifendibile, in Cass. Pen., 1999, 2204 e P. Renon, Ancora in tema di sindacato sulla logicità della motivazione (a proposito del caso dei blue jeans di fronte alla Corte di cassazione), in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 1497.
[19] Cfr. G. Balbi, voce Violenza sessuale, EGT, Vol. XXXVII, Roma, 1998.
[20] T. Padovani, Violenza carnale e tutela della libertà, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, secondo il quale la necessità della violenza è figlia di una concezione dei rapporti sessuali ancora basata sull’idea della conquista della c.d. preda sessuale che, se non reagisce attivamente alle iniziative, si dimostra per ciò solo in re ipsa disponibile a cedere all’altrui volontà. Si veda anche, dello stesso autore, sub art. 2, Cadoppi, Comm (2002). Per un interessante approfondimento sulla violenza di genere, si veda F. Filice, Diritto Penale e genere in Diritto Penale e Uomo, fasc. 9/2019, pp. 11 ss.
[21] In tal senso e per un approfondimento in merito si vedano AA.VV., I delitti contro la persona – Volume X, Cedam, Padova, 2015, pp. 79 e ss.; B. Romano, Delitti contro la sfera sessuale della persona, Giuffrè, Milano, 2016.
[22] Nel caso di specie, La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Bulgaria per la violazione degli artt. 3 e 8 della CEDU: l’art. 152 del codice penale bulgaro prevede, infatti, come specifiche modalità del reato di violenza sessuale, la minaccia e la violenza, quest’ultima interpretata dalla giurisprudenza nazionale come fondante un onere di resistenza in capo alla vittima. Più in particolare, nel caso sottoposto alla Corte di Strasburgo, un giudice bulgaro aveva assolto l’imputato perché non era stata raggiunta la prova della resistenza fisica della vittima minorenne, la quale, dopo un iniziale tentativo di respingere l’aggressore, si era limitata a subire passivamente il rapporto sessuale. Per il testo integrale della sentenza M.C. v. Bulgaria, 4 dicembre 2003 (dep. 4 marzo 2004) si veda il sito ufficiale della Corte europea dei diritti dell’uomo, disponibile al seguente link.
[23] Sul punto, si veda anche F. Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1, 42.
[24] Si veda, tra gli esempi più recenti, la sentenza della Corte di appello di Ancora del 23 novembre 2017, nelle cui motivazioni si legge un forte giudizio negativo sull’attendibilità della persona offesa, fondato non tanto su riscontri esterni ed oggettivi, quanto su valutazioni personali ancor troppo legate all’antica concezione già richiamata della vis grata puellis. In particolare, la Corte assolveva due imputati condannati in primo grado per aver concorso nel delitto di violenza sessuale di gruppo ai danni di una giovane donna, motivando così l’iter decisionale: «In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio N. a organizzare la nottata "goliardica", trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare M. (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di "N. Vikingo", con allusione a una personalità tutt'altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida». La pronuncia, poi annullata con rinvio dalla corte Cassazione con sentenza n.15683/2019, denota come ancora molte decisioni di merito, pur essendo apparentemente fondate su massime di esperienza, celino in realtà la valorizzazione di un mero convincimento soggettivo dell’organo giudicante.
[25] In tal senso, si veda il report dell’incontro di studio sul tema “I reati con vittima vulnerabile: indagini e giudizio”, tenutosi dall’Ufficio per gli Incontri di Studio del CSM a Roma, 31 gennaio – 2 febbraio 2011. Con riferimento al concetto di vittimizzazione secondaria, si ricorda come questo comprenda tutti i pregiudizi derivanti dall’incontro della vittima con il sistema giudiziario. In particolare, non sono rari i casi in cui le vittime di violenza sessuale subiscano ulteriori pregiudizi in seguito al contatto con le autorità giudiziarie, essendo costrette a raccontare numerose volte le esperienze subite o a vedere sminuita la propria credibilità.
[26] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 5 aprile 2019, n. 15010, in C.E.D. Cass., rv. 275393.
[27] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 29 gennaio 2008, n. 4532, inedita.
[28] D’altronde, già nello Schema di legge delega per la riforma del codice penale del 1992 si definiva il delitto di «stupro» come il «fatto di chi, contro la volontà di una persona, si congiunge sessualmente con essa, o compie atti di identico significato offensivo» (art. 71 comma 1 lett. a), qualificando come mera aggravante la «violenza sulla persona o la minaccia» (art. 71 comma 2 lett. aa). Per osservazioni critiche sull’iter di approvazione della riforma del 1996 si veda F. Del Corso, l. 15 febbraio 1996, n. 66 – Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione penale, 1996, 3-4, 423.