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08 Settembre 2025


Un intervento rivoluzionario ma troppo affrettato sul trattamento sanzionatorio dei reati in tema di rifiuti nel codice dell’ambiente


La riforma delle cornici edittali e, in molti casi, della stessa natura di illecito (da contravvenzione a delitto) dei reati ambientali in tema di rifiuti, di cui al recente decreto-legge n. 116 del 2025, entrato in vigore il 9 agosto 2025, è la plastica dimostrazione di quanto possa essere azzardata una rivisitazione normativa, per certi versi auspicabile, ma attuata con eccessiva fretta e senza una debita e rigorosa meditazione.

 

1. Profili di incoerenza sistematica delle nuove cornici edittali in comparazione con gli ecodelitti. – In primo luogo, si registra la probabile incoerenza delle nuove cornici edittali prescritte per le originali fattispecie contravvenzionali, quasi tutte tramutate in delitto nel codice dell’ambiente (D. Lgs. 152/2006)[1], con quelle dei cosiddetti ‘ecoreati’, iscritti nel Titolo VI bis del codice penale. Basti guardare alla nuova aggravante di cui al comma 1-bis ultimo periodo dell’art. 256 D. Lgs. 152/2006.[2] Essa prevede una pena da due anni a sei anni e sei mesi laddove l’attività di gestione non autorizzata abbia ad oggetto rifiuti pericolosi e la stessa abbia determinato pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone ovvero pericolo di compromissione o deterioramento: 1) delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo, 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna, ovvero ancora laddove detta gestione non autorizzata sia commessa in siti contaminati, potenzialmente contaminati o sulle strade di accesso (o pertinenza) di tali siti.

Ebbene, il delitto di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452 bis del codice penale, al comma primo, prescrive una pena da due a sei anni quando quella stessa compromissione o deterioramento, menzionati a titolo di pericolo nella nuova circostanza aggravante di cui all’art. 256 del codice dell’ambiente, si verifica! Dunque, un delitto di pericolo contempla oggi una pena nel massimo addirittura più elevata rispetto al corrispondente delitto di danno! Vero è che il primo inquadra un pericolo di compromissione o deterioramento (delle matrici ambientali ovvero della flora/fauna/biodiversità, ovvero ancora della vita ed incolumità personale) cagionato da una attività illecita di gestione di rifiuti pericolosi, mentre l’art. 452 bis descrive una condotta generica e libera (“chiunque cagiona…”) e senza vincolo descrittivo. Dunque, vi sarebbe in questo senso un quid pluris nell’art. 256 comma 1 bis ultima parte codice ambiente. Tuttavia, tale elemento specializzante, per specificazione, non pare in grado di bilanciare l’assenza di un effettivo danno per l’ambiente, che di per sé legittima ontologicamente una sanzione penale più elevata. Lo stesso è a dirsi per il pericolo per la vita o l’incolumità personale (o la circostanza che il fatto sia avvenuto in siti contaminati o potenzialmente contaminati), elementi specializzanti assenti nella fattispecie dell’inquinamento ambientale[3], ma che comunque costituiscono, nella nuova versione dell’art. 256 comma 1-bis sempre una premessa eziologica di un pericolo e non di un danno, caratteristico invece dell’art. 452 bis del codice penale. In definitiva, de iure condendo, delle due l’una: o vengono aumentati i parametri edittali del delitto di inquinamento o vengono diminuiti quelli della nuova circostanza aggravante del modificato art. 256, pena una possibile affermazione di illegittimità costituzionale per violazione irragionevole del principio di proporzionalità.

Medesima considerazione può compiersi in ordine all’aggravante di cui al novello comma 3-bis dell’art. 256 bis (pena da tre a sei anni quando si tratta di rifiuti non pericolosi, da tre anni e sei mesi a sette anni quando si tratta di rifiuti pericolosi, nel caso di combustione da cui derivano i medesimi pericoli di cui all’art. 256 comma 1-bis). Entrambe le cornici edittali, stigmatizzando condotte che cagionano un pericolo, appaiono sproporzionate, a fronte di un delitto, quale l’inquinamento ambientale, a condotta libera e non vincolata, ma che punisce un autentico danno.

Stessa probabile illogicità si registra anche con il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452 quaterdecies del codice penale. Vero è che, nella disposizione, è stata introdotta la medesima circostanza aggravante (ad effetto speciale) di cui all’art 256 comma 1-bis codice dell’ambiente[4], aumentando la pena di cui alla fattispecie base sino alla metà. Tuttavia, quivi il confronto deve esser compiuto proprio con la fattispecie base. Le attività organizzate possono riguardare indifferentemente rifiuti pericolosi o non pericolosi, sempre importando una pena da uno a sei anni. Non è prevista pena più grave quando si discorra di rifiuti pericolosi, ma solo di rifiuti ad alta radioattività di cui al comma secondo dell’art. 452 quaterdecies c.p. Ebbene, pare irragionevole che una fattispecie (ontologicamente non necessariamente plurisoggettiva, come è noto, ma comunque) implicante, per definizione, una ripetizione di atti illeciti di gestione, peraltro caratterizzati dagli elementi della organizzazione, del dolo specifico di profitto e dell’indispensabile allestimento di mezzi, radichi la medesima pena (nel minimo addirittura più bassa) del corrispondente delitto aggravato di gestione, potenzialmente contestabile a fronte di un’unica operazione illecita. Anche qui, dunque, pare a prima lettura non proporzionata la cornice edittale della nuova circostanza aggravante di cui all’art. 256 comma 1-bis ultimo periodo del codice dell’ambiente, laddove specialmente inerente ad un’unica operazione di gestione illecita di rifiuti pericolosi che cagioni i pericoli menzionati, se comparata con il corrispondente delitto di (plurime) attività organizzate, continuative e implicanti allestimenti di mezzi, a titolo di profitto, dalla spiccata offensività, tanto da essere assegnato sul versante processuale alla cognizione della direzione distrettuale antimafia, seppur senza l’elemento ulteriore della causazione dei rischi menzionati all’ambiente o all’incolumità ovvero della circostanza di fatti posti in essere in siti contaminati o potenzialmente contaminati. Sarebbe forse stato il caso di elevare la cornice edittale del delitto di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., d’altronde inspiegabilmente già più bassa di analoghe fattispecie previste nella cognizione della direzione distrettuale antimafia (si guardi ad esempio all’art. 12 t.u. immigrazione).[5]

La riforma avrebbe potuto poi costituire l’occasione per modificare quel secondo comma dell’art. 452 quinquies del codice penale, che parrebbe descrivere i delitti di pericolo di inquinamento e disastro ambientali, ma che è stata redatta in termini particolarmente ostici e difficili ad interpretarsi, laddove la comprensibilità e l’accessibilità devono, come è noto, rappresentare requisiti connaturali alle norme incriminatrici.[6] Se a quella disposizione venisse, come pare da più parti opinato, conferito il significato di punire i fatti di pericolo di inquinamento o di disastro, la pena ivi prevista (abbattuta di un terzo rispetto a quella in tema di inquinamento o disastro colposi, di cui al primo comma, a sua volta più bassa, da un terzo a due terzi, rispetto alle cornici dei corrispondenti delitti di danno, di cui all’art. 452 bis e 452-quater c.p.) risulterebbe eccessivamente sproporzionata per difetto a fronte, ancora una volta, della novella circostanza aggravante di pericolo del delitto di cui all’art. 256 comma 1 bis ultimo periodo. In definitiva, effettuato il complicato (ed auspicabilmente emendabile) calcolo, si sarebbe dinanzi ad una pena più che raddoppiata (nel massimo si transiterebbe da anni 2 mesi 8, per il pericolo di inquinamento ambientale, ad anni 6 nella ipotesi aggravante di cui alla nuova disposizione del codice ambiente)!

 

2. La discutibile pretermissione del meccanismo estintivo delle ‘prescrizioni ambientali’. – Ciò che poi desta stupore è il fatto che il legislatore, con questa recente riforma, sembri aver del tutto dimenticato l’esistenza del meccanismo fortemente deflattivo del dibattimento, recuperatorio per lo Stato e ripristinatorio per l’ambiente, delle prescrizioni ambientali ex artt. 318 bis e ss. del D. Lgs. 152/2006, introdotto dalla Legge 68/2015, che ha come ambito di applicazione solo le contravvenzioni del codice dell’ambiente punite con pena pecuniaria (sola, congiunta o alternativa a quella detentiva). Invece di potenziarne gli ottimi effetti risarcitori per la collettività e di riassettarne gli elementi forieri di dubbi interpretativi, viene, con questo decreto, tacitamente abrogata l’estensione di questo sistema di oblazione, con restitutio in integrum del bene giuridico offeso, almeno per la materia dei rifiuti. Le originarie fattispecie con pena pecuniaria contravvenzionale sono infatti oggi sostituite (salvo che per l’art. 255, per l’art. 261-bis e per alcune marginali fattispecie dell’art. 256)[7] con fattispecie ad esclusiva pena detentiva delittuosa, il che elimina in radice ogni possibilità di attivare quello che è forse definibile come il più efficace meccanismo di ‘risarcimento ambientale’ per fattispecie ‘minori’ concepito nella materia ambientale. Trattavasi di un meccanismo che andava perfezionato invece che de facto abolito nel campo dei rifiuti.

In definitiva, si costringe sul piano concreto processuale, peraltro contemporaneamente prevedendo l’impossibilità di procedere alla archiviazione per tenuità del fatto per alcune fattispecie di nuovo conio[8], anche a seguito di ripristino ambientale o di conseguente dotazione delle necessarie autorizzazioni richieste dalla normativa di settore in capo al trasgressore, sempre e comunque il magistrato inquirente ad esercitare l’azione penale, pure a fronte di casi davvero bagatellari.[9]

Le norme di cui agli artt. 318 bis, anche per la materia dei rifiuti, erano concepite per violazioni minime, che meritavano una risposta sanzionatoria immediata, senza la necessaria predisposizione di tutte le garanzie, i tempi, le energie lavorative, gli uomini, i gradi di giudizio, in una parola le risorse, già scarse, tipiche del processo penale, che a seguito della riforma, nei casi menzionati, dovranno inevitabilmente applicarsi.

 

3. L’arresto in flagranza, anche differita. – Sul versante processuale, appare teoricamente coerente la scelta dell’arresto in flagranza differita, ex art. 382 bis c.p.p., quando si tratti di taluni ecodelitti (inquinamento e disastro ambientale, morte o lesioni come conseguenza dell’inquinamento, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti)[10] e di alcuni delitti, come riformati, nel codice dell’ambiente (abbandono ed attività di gestione illecita di rifiuti non pericolosi nelle ipotesi aggravate, abbandono ed attività di gestione illecite di rifiuti pericolosi, discarica abusiva, combustione illecita e spedizione illecita costituente traffico internazionale).[11]

Naturalmente, le novelle cornici edittali dei menzionati reati, superando la soglia delittuosa dei tre anni nel massimo, consentono anche l’arresto (facoltativo)[12] in flagranza diretta. Del pari, le stesse fattispecie consentono l’applicazione di misure cautelari di natura detentiva. E’ dunque oggi assicurato, nelle mani degli organi inquirenti e di giustizia penale, un potente strumento di reazione ai menzionati reati ambientali, in ottica precautelare e cautelare. 

Tuttavia, calandosi nel dato concreto e prasseologico, appare di difficile, se non impossibile, concepimento un arresto in flagranza (anche differita), non solo per le ipotesi di inquinamento, disastro ambientale ed attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, ma anche per alcune di quelle (recentemente riformate) di cui al codice dell’ambiente. Molte di esse, difatti, richiedono una attenta e capillare attività di indagine, tesa a documentare la ripetitività degli atteggiamenti stigmatizzati (richiesti per il reato ex art. 452 quatercies c.p.) ovvero l’avvenuta compromissione di matrici ambientali o della biodiversità, la concretizzazione delle situazioni di pericolo di cui alle novelle aggravanti dei delitti del D. Lgs. 152/2006, i requisiti dimensionali propri di una ‘discarica abusiva’. Si tratta, dunque, in tali ipotesi, di accertamenti di lunga durata, che appaiono ontologicamente incompatibili con una condotta di immediata percezione da parte degli operanti di polizia giudiziaria, giustificante un arresto in flagranza, anche differita. Seppure, come in quest’ultimo caso, il margine temporale dalla consumazione del fatto è esteso a 48 ore, e seppure viene consentito il ricorso a strumenti (che però devono restituire una prova inequivoca di quanto commesso a carico dell’arrestato) video-fotografici o telematici, in definitiva la possibilità di attivare la misura pre-cautelare appare limitata alle condotte di immediata osservazione e di indiscussa decifrazione, senza il ricorso a complesse metodiche di indagini (quali consulenze tecniche, intercettazioni, ripetuti appostamenti). Sul punto, la riforma potrà senz’altro applicarsi alle ipotesi di abbandono o di gestione non autorizzata più evidenti (quali il commercio, la raccolta, il trasporto, la combustione o la spedizione che costituisce traffico internazionale di rifiuti) più che alle fattispecie, di assai più difficile decriptazione investigativa, quali l’inquinamento, il disastro o le attività organizzate per il traffico. In definitiva, trattasi di una novità, in punto di arresto, che appare di maggior pregnanza pratica proprio per quelle fattispecie che sono state oggetto di recente intervento legislativo nel codice dell’ambiente. Anche per molte di queste, tuttavia, le forze di polizia, specie quelle non specializzate, prima di procedere ad un eventuale arresto, dovranno spesso ricorrere all’indispensabile subitaneo aiuto degli organi tecnici (quali le agenzie regionali per la protezione dell’ambiente). Si pensi alla necessità di distinguere la natura (spesso frutto di una elaborazione estremamente tecnica e di non immediata percepibilità) pericolosa o non pericolosa di un rifiuto, ovvero a quella di comprendere la titolarità o meno di un atto autorizzativo o di una comunicazione o di una iscrizione, elementi da cui discende la stessa natura di illecito penale del fatto.

 

4. Conclusioni. – La sanzione amministrativa per le ipotesi minime, magari potenziata e razionalizzata, poteva costituire uno strumento deterrente, molto più forte ed incisivo, almeno per l’abbandono di rifiuti da parte di soggetti non esercenti attività di impresa, rispetto alla penalizzazione delle relative condotte. Invece si è deciso di criminalizzare sostanzialmente tutto, nell’illusione classica che ciò determini un effetto di self-restraint da parte dei contravventori.

Anche in quest’ultima ipotesi, tale pancriminalizzazione non è stata accompagnata dalla previsione di meccanismi di accertamento della responsabilità nel processo e da scansioni procedimentali più snelli e meno complessi del tradizionale rito accusatorio. Il calderone del processo penale, già obeso e fortemente incagliato, dovrà ora digerire anche questi processi, che spesso venivano evitati proprio grazie al virtuoso meccanismo delle ‘prescrizioni ambientali’[13], un meccanismo nel quale in definitiva ‘vincevano’ tutti, con l’ottenimento del risultato migliore e con il minimo sforzo: il contravventore otteneva l’estinzione del reato, lo Stato recuperava senz’altro un cospicuo esborso economico, l’ambiente violato veniva ripristinato, uno stato di illegittimità veniva ricondotto alla legalità mediante il controllo delle autorità delegate. Oggi invece si induce gli organi di giustizia al necessario esercizio dell’azione penale.

Senz’altro era auspicabile l’introduzione di fattispecie delittuose, anche con cornici edittali gravi, all’interno del codice dell’ambiente. Si pensi al reato di discarica abusiva: la magnitudine offensiva del fatto di chi crea, di chi gestisce o di chi incrementa un sito di dimensioni e capacità considerevoli, illecitamente adibito a discarica, meritava una considerazione tassonomica più attenta e pregnante della mera riduzione a contravvenzione. Lo stesso è a dirsi per la spedizione costituente traffico illecito ex art. 259 del codice dell’ambiente.

Trasformando però tutto in delitto (persino l’abbandono del sacco di immondizia sul selciato da parte del privato, quando si tratti di rifiuti pericolosi), si rischia di ricadere nell’effetto opposto rispetto a quello auspicato. Si rischiano in definitiva lunghissimi tempi di accertamento processuale delle responsabilità penali, con la scure sempre incombente della prescrizione come meccanismo di tacitazione finale, senza alcun autentico incentivo al ripristino dello stato ambientale violato da parte del trasgressore, senza la possibilità del recupero di danaro da parte dello Stato, considerazione quest’ultima di non poco momento atteso che la corresponsione della sanzione pecuniaria (nel minor tempo possibile dall’accertamento del fatto) rappresentava forse il meccanismo di resipiscenza e di special-prevenzione più efficace di tutti, specie a fronte di reati commessi tradizionalmente da imprenditori.

Sarebbe probabilmente il caso di ragionare sulla ri-trasformazione della ipotesi di abbandono occasionale di rifiuti da parte di privati in mero illecito amministrativo, anche con sanzioni pecuniarie elevate e meccanismi di apprensione più immediati. Del pari, bisognerebbe almeno considerare di affiancare a queste nuove pene detentive corrispondenti pene pecuniarie che consentano il recupero del meccanismo deflattivo/risarcitorio delle prescrizioni ambientali (allargate ovviamente ai casi di delitti). Ancora, occorre, come già menzionato, ricondurre a razionalità il sistema edittale a fronte di quello degli ecodelitti del codice penale, pena un definitivo scolorimento degli stessi, senz’altro dotati di una maggiore offensività.

Ciò che infine andrebbe realmente e urgentemente ripensato è il rito processuale penale. Eccezioni alla tradizionale procedura accusatoria non rappresentano più una aporia insopportabile, dinanzi a fatti di immediata percepibilità e di istantaneo accertamento. Potrebbe prevedersi, ad esempio, che, alla opposizione al decreto penale di condanna, non si preveda il tradizionale rito ordinario accusatorio, ma un rito più snello, con immediata conoscibilità degli atti da parte del giudice di cognizione, salvo approfondimenti richiesti dalla difesa e considerati indispensabili dal giudicante, e fermo restando la intangibilità della libertà personale (venendo in gioco solo le pene di carattere pecuniario richieste e comminate con il decreto penale, magari aggravate a seguito dell’opposizione, e salvo il loro mancato pagamento, con conseguente trasformazione in pene detentive).

Intervenendo invece unicamente sulle cornici edittali e sulla tassonomia dei reati si rischia di produrre una enorme mole di processi, con un sistema già fortemente saturo per la incosciente onnipresenza di accertamenti accusatori, per loro natura lentissimi, e per l’evidentissimo (quanto negletto) fallimento dei riti alternativi proprio per le fattispecie ‘minori’ (per intendersi, quelli della cognizione propria del giudice monocratico), che più di tutte avrebbero bisogno di procedimenti acceleratori, pena una stigmatizzazione di atteggiamenti sbagliati e incivili che rimane solo sulla carta e che non si traduce in speciale e general-prevenzione.

 

[1] L’art. 255 prevede ancora un illecito penale contravvenzionale, che punisce l’abbandono e il deposito (non controllato per le aziende) di rifiuti non pericolosi da parte di soggetti generici ovvero da parte di titolari di impresa e responsabili di enti, con pena solo pecuniaria nel primo caso e con pena alternativa nel secondo. Laddove invece l’abbandono o il deposito assumano i connotati di cui al nuovo art. 255-bis, con l’aggravante ivi prevista, ovvero si tratti di abbandono o deposito di rifiuti pericolosi (nuovo art. 255-ter), l’illecito si tramuta da contravvenzionale a delittuoso, con pene anche elevate: da sei mesi a cinque anni nel primo caso (abbandono di rifiuti non pericolosi aggravato - art. 255 bis) laddove si tratti di soggetto generico e da nove mesi a cinque anni e sei mesi laddove si tratti di titolare di impresa; da uno a cinque anni (che divengono ‘un anno e sei mesi - sei anni’ nel caso di aggravante) nel secondo caso (abbandono di rifiuti pericolosi - art. 255 ter) laddove si tratti di soggetto generico e da un anno a cinque anni e sei mesi (che divengono ‘due anni - sei anni e sei mesi’ nell’ipotesi aggravata) laddove si tratti di titolare di impresa.

Un primo elemento di dubbia proporzionalità può ravvisarsi nel fatto che, quanto alla modifica della natura dei reati previsti dal codice dell’ambiente, è rimasto intonso l’art. 261-bis del medesimo decreto legislativo, norma introdotta nel 2014 che prevede una serie di reati contravvenzionali ed illeciti amministrativi per le condotte illecite poste in essere nel contesto degli impianti di incenerimento o coincenerimento di rifiuti, fatti che, quantomeno in nome della elevata specializzazione del soggetto agente (titolare o gestore appunto di un inceneritore), paiono più gravi di quelli di cui all’art. 255 ed, in talune ipotesi, di cui agli artt. 256 e 256-bis del codice dell’ambiente.

[2] L’art. 256 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), che prima prevedeva solo illeciti contravvenzionali o amministrativi, oggi include delitti, ai commi da 1 a 4, puniti con pene anche gravi: da sei mesi a tre anni (che divengono uno - cinque anni nella ipotesi aggravata) in caso di gestione di rifiuti non pericolosi e da sei mesi a cinque anni (che divengono due anni - sei anni e sei mesi nella ipotesi aggravata) nel caso di rifiuti pericolosi. Nel caso di realizzazione o gestione di discarica abusiva, l’illecito è divenuto delittuoso e la pena prevede la reclusione da uno a cinque anni, che si eleva da un anno e sei mesi a cinque anni e sei mesi quando la discarica a destinata ad ospitare, anche in parte rifiuti pericolosi; mentre la reclusione diviene ‘due - sei anni’ (per i rifiuti non pericolosi) e ‘due anni e sei mesi - sette anni’ (per i rifiuti, anche in parte, pericolosi) nella corrispondente ipotesi aggravata. L’eliminazione del comma secondo dell’art. 256 è giustificata dal fatto che, con la riforma, l’abbandono o il deposito in modo incontrollato di rifiuti da parte dei titolari di impresa e responsabili di enti sono oggi puniti nelle nuove disposizioni di cui agli artt. 255, 255 bis e 255 ter. 

[3] E’ da segnalare sul punto che il corrispondente delitto (di inquinamento ambientale) aggravato dall’evento morte o lesioni personali è descritto all’art. 452 ter del codice penale, con cornici edittali proporzionalmente sempre più gravi dall’ipotesi di lesioni lievi a quella di morte, ma trattasi comunque, appunto, di un delitto di evento e non di pericolo. Non esiste una corrispondente fattispecie per il disastro ambientale. Le uniche fattispecie di pericolo (sempre, però, pericolo di inquinamento o disastro ambientale, non alla vita o alla incolumità personale) nel codice penale sono quelle di cui all’art. 452 quinquies secondo comma, del codice penale, di cui infra nel testo. 

[4] La circostanza aggravante della causazione di un pericolo per la vita, l’incolumità personale, la compromissione delle matrici ambientali o la biodiversità, ovvero del fatto di reato posto in essere in siti contaminati o potenzialmente contaminati (nonché sulle strade di accesso o nelle pertinenze di questi), è stata introdotta in quasi tutte le fattispecie penali del codice dell’ambiente che hanno ad oggetto rifiuti (nelle ipotesi di abbandono o deposito, di gestione non autorizzata e discarica, di combustione illecita, oltre che nel delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti).

[5] Già nel primo comma dell’art. 12 del D. Lgs. 286/1998, ad esempio, la pena appare più elevata nel minimo (due anni a fronte di uno) rispetto all’art. 452 quaterdecies c.p. La pena diviene però consistentemente più alta nelle ipotesi (assai frequenti nella prassi) di cui al comma terzo dell’art. 12 (ad esempio quando i promotori, organizzatori, finanziatori o esecutori del trasporto o ingresso illegale di stranieri sono più di tre, hanno utilizzato documenti contraffatti, ovvero le persone trasportate sono cinque o più). In questo caso la pena è elevata addirittura da sei a sedici anni. Non esiste proporzione in aggravamento per la corrispondente fattispecie di cui all’art. 452-quaterdecies, non prescrivendo la stessa alcun aumento quando ad esempio siano utilizzati documenti di accompagnamento dei rifiuti contraffatti (o assenti) ovvero quando le attività organizzate siano compiute da tre o più soggetti in concorso ovvero ancora quando si superi un determinato quantitativo di rifiuti illecitamente gestiti.

[6] Art. 452 quinquies del codice penale: “Delitti colposi contro l'ambiente. Se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi. Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo.” Sono quattro dunque le possibili interpretazioni del comma secondo: 1) si puniscono autonomamente i pericoli di inquinamento e disastro colposi; 2) si puniscono solo i pericoli di inquinamento e disastro dolosi che seguono ad eventi di inquinamento o disastro cagionati per colpa; 3) si puniscono gli ulteriori pericoli di inquinamento o disastro dolosi che seguano ad eventi già consumati di inquinamento o disastro, anch’essi consumati dolosamente; 4) come patrocinato nel testo, si puniscono autonomamente i reati di pericolo di inquinamento o disastro cagionati dolosamente. A fronte di una tale incertezza, anzitutto causata dalla scelta legislativa di inserire in una norma incriminatrice sia delitti colposi di evento che delitti di pericolo, è fortemente auspicabile una riscrittura normativa.

[7] Anche il reato di cui all’art. 257 (omessa bonifica) resta la previsione di un illecito contravvenzionale, ma non si ritiene che i fatti in esso stigmatizzati possano essere oggetto della procedura estintiva delle ‘prescrizioni ambientali’, anzitutto perché l’omessa bonifica (o l’omessa denunzia del potenziale inquinamento di un sito alle autorità competenti) richiede ontologicamente come presupposto quel pericolo o quel danno delle matrici ambientali che, per statuto, nell’art. 318 bis, escludono l’accessibilità al meccanismo estintivo. Inoltre, è già contemplata una condizione di non punibilità, al comma 4 dell’art. 257, che entra in gioco nella ipotesi della osservanza dei progetti approvati, dunque, in ciò impedendo in radice l’applicazione di un meccanismo che prevede proprio l’adempimento di prescrizioni tese a ripristinare lo stato ambientale e la legalità amministrativa violata (quivi, come detto, determinante una causa di esclusione della punizione ad hoc).

[8] Si tratta dell’abbandono o del deposito illecito di rifiuti pericolosi, dell’attività aggravata di gestione di rifiuti, della discarica abusiva, della combustione illecita e della spedizione illecita costituente traffico internazionale. Curiosamente non può archiviarsi per tenuità del fatto, pure a fronte di un completo ripristino ambientale, l’ipotesi di abbandono o deposito illegale di rifiuti pericolosi, mentre tecnicamente tale definizione del procedimento è possibile nel caso di attività di gestione illecita (non aggravata) di rifiuti, anche pericolosi.     

[9] Si pensi all’occasionale abbandono di un sacco di immondizia contenente rifiuti pericolosi, poi successivamente e prontamente rimosso e correttamente smaltito.

[10] Artt. 452 bis, 452 ter, 452 quater, 452 sexies, 452 quaterdecies c.p.

[11] Artt. 255-bis, 255 ter, 256 comma primo secondo periodo, 256 comma primo-bis, 256 comma terzo e terzo-bis, 256-bis e 259 del D. Lgs. 152/2006.

[12] Proprio la natura ‘facoltativa’ dell’arresto, anche in flagranza differita, deve indurre a una motivazione rafforzata circa l’effettivo ricorso alla misura pre-cautelare, necessaria a fronte di fatti evidentemente gravi, quali la ripetizione di gesti da parte di soggetti già segnalati per condotte simili.

[13] Sistema assai simile a quello della cosiddetta ‘archiviazione meritata’, di matrice tedesca.