Piccoli semi per una ricerca. A partire da un intervento al plenum del CSM sul “”decreto sicurezza” (D.L. n. 48/2025)
Pubblichiamo di seguito il testo, con modifiche e integrazioni, dell’intervento formulato dal Prof. Michele Papa al Plenum del CSM del 14 maggio 2025, in occasione del dibattito sul Parere elaborato dalla Sesta Commissione in merito al decreto sicurezza (D.L. n. 48/2025). Il Parere è stato approvato nella medesima seduta.
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Nel Parere sul Decreto Sicurezza (D.L. n. 48/2025), la Sesta Commissione del CSM è riuscita a combinare l’analisi puntuale della nuova “legislazione penale” con una serie di costruttive considerazioni critiche. È un lavoro difficile, che è stato condotto con equilibrio attraverso una comprensibile mediazione tra varie sensibilità e posizioni ideologiche e cercando di riscuotere largo consenso, così da guadagnare l’approvazione del Plenum.
Come Consigliere singolo, come laico di nomina parlamentare e come professore di diritto penale, ho la fortuna di poter prescindere da simili preoccupazioni: mi esprimo quindi con maggiore franchezza, anche se il poco tempo disponibile nella sede di discussione plenaria impedisce di sviluppare un’analisi puntuale delle novità contenute nel decreto-legge sicurezza. Poco male, perché molte delle osservazioni che intenderei proporre sono contenute in un importante documento agevolmente disponibile: il Comunicato dell'Associazione italiana dei professori, rilasciato, a cura del suo Direttivo, il 9 aprile 2025 e consultabile sia nel sito dell’Associazione. Il Comunicato esprime in forma quasi ufficiale, stante l’ampia rappresentatività del Direttivo, l’opinione dei professori italiani di diritto penale, formulando critiche incisive soprattutto in merito all’uso della decretazione d’urgenza e ai rinnovati segnali di panpenalismo che questo decreto-legge esprime.
Desidero evidenziare in questa sede come le politiche di iper-criminalizzazione, frutto di incontinente panpenalismo, si accompagnino, sempre più spesso, ad una progressiva degenerazione dello strumento giuridico: il diritto finisce per confondersi nella mera comunicazione mediatica. Il fenomeno non è nuovo e lo conosciamo da decenni: governo e classe politica (ma anche il legislatore, che ad essi sovente si adegua) avvertono l’opportunità di indirizzare messaggi rassicuranti ad una opinione pubblica sempre più allarmata per la criminalità dilagante. Fin qui nulla di male, perché si tratta di una premura comprensibile. Il problema è, tuttavia, che la massiva e logorroica produzione di norme penali finisce per essere spesso l’unica, velleitaria, risposta all’allarme sociale. È una strada sbagliata.
Il diritto è un raffinatissimo strumento di mediazione sociale: ha una tradizione millenaria e ha funzionato per secoli grazie alla sua elaborata complessità tecnica. Nel diritto penale, in particolare, la produzione normativa si avvale di una forma espressiva estremamente sofisticata: la fattispecie incriminatrice. La fattispecie è un capolavoro di scienza semiotica: è infatti capace di produrre e comunicare, con un solo enunciato, sia regole di condotta per i cittadini, sia regole di giudizio per chi deve applicare il diritto (polizia, pubblici ministeri, giudici). Per funzionare davvero, tuttavia, la fattispecie incriminatrice deve essere costruita come vera norma giuridica: deve descrivere un fatto significativo, realmente lesivo di un bene giuridico e postulare, come conseguenza della sua violazione, l’applicazione della pena.
Come sappiamo bene, la pena è uno strumento ad altissima incidenza afflittiva. Quando il diritto penale perde la sua “giuridicità”, sciogliendosi nel vociare di un megafono mediatico, si determina un preoccupante sganciamento tra la proclamazione di ciò che merita una pena e la sua concreta inflizione. Se la fattispecie incriminatrice non è pensata e costruita secondo i canoni sopra indicati, ma assume la veste di mero messaggio mediatico, il diritto si eclissa e il reato cessa di essere un ente giuridico: non rimane che un truce proclama, gridato urbi et orbi, sperando che qualcuno si spaventi e che i più si rassicurino. Insomma, tutto cambia e molto in peggio.
Le disfunzionalità, gli “effetti collaterali”, del panpenalismo simbolico andrebbero puntualmente e diffusamente spiegati all'opinione pubblica. A questo proposito mi sia consentito fare riferimento a un altro documento agevolmente reperibile in internet, in particolare nel sito della rivista “Sistema penale”: si tratta di un saggio del professor Giovanni Fiandaca, illustre accademico e acuto osservatore del mondo giudiziario, da lui conosciuto anche nella passata veste di Consigliere CSM. Il saggio è efficacemente intitolato “La bulimia punitiva aumenterà il consenso ma non serve a niente”. Invito a leggere l’articolo del professor Fiandaca proprio perché evidenzia molto lucidamente i rischi di un diritto penale simbolico, tanto gratuitamente arcigno quanto inefficace.
Da tempo mi chiedo se anche con riferimento al diritto penale non risulti pertinente, mutatis mutandis, una celebre provocazione di Friedrich Nietzsche espressa, con folgoranti cadenze, nel V capitolo del “Crepuscolo degli idoli” [1].
Nietzsche prova a spiegare la “storia di un errore”: Come il mondo vero finì per diventare una favola. Allude al sofferto e mistificante rapporto tra la realtà (bruta), immanente, dell’essere e la variegata serie di mondi immaginari costruiti, nel corso della storia, per narrare versioni parallele e metafisiche della realtà, versioni da lui etichettate, appunto, come favolistiche. Sono le favole che parlano di mondi che non esistono ma che dovremmo considerare come gli unici “veri”; a dispetto della verità di quello ove ha luogo la vita. Alcuni esempi per tutti: il mondo (pseudo)“vero”, promesso, secondo Platone e i suoi epigoni, al sapiente; il mondo (pseudo) “vero” promesso al pio, al virtuoso; il mondo (pseudo) “vero” costruito dalla morale deontologica kantiana e così via.
Non intendiamo ovviamente seguire, sul piano filosofico, un pensatore così problematico e inquietante. Ma, raccogliendo la provocazione antimetafisica, possiamo chiederci: c’è il rischio che anche il diritto penale finisca per diventare una favola? Una favola lugubre e triste, che sempre più spesso trasfigura, sublimandola sul piano di una narrazione simbolico espressiva, la realtà dell’esperienza giuridica, la sofferenza di migliaia di vittime e di migliaia di condannati. Una bruta realtà fatta di dolore e sofferenza, ambiguamente narrata come favola: sono diventate favole le norme incriminatrici, che mirano a terrorizzare i criminali e a rassicurare i cittadini, tutti immaginati come bambini; sono favole le norme processuali, che descrivono la meccanica di un mondo ideale, con cui ha poco a che fare ciò che accade concretamente nei tribunali; sono favole le norme che parlano delle sanzioni, della pena carceraria e della rieducazione del condannato, capaci solo di mascherare l’inferno del carcere.
Insomma, alla bruta realtà del mondo dei delitti e delle pene si sostituisce il “discorso”: un discorso sempre più simbolico, letterario, ideologico, mediatico, propagandistico, che parla fiabescamente dei presupposti della responsabilità, descrivendo illeciti inafferrabili, che traccia una macchinosa disciplina processuale destinata ad essere sostituita da prassi e scelte discrezionali. Una favola a cui si reagisce spesso con altre favole, perché tali sono tutte le critiche che contestano il racconto ufficiale mantenendosi sul solo piano linguistico, discorsivo, ideologico, come se si trattasse in fondo di commentare delle notizie giornalistiche o appunto dei puri messaggi di carattere sociologico, mediatico, politico. Un mondo di favole che rinunciano a rompere il velo della finzione, aprendosi al mondo come è.
Sono considerazioni che, in questa sede, possono essere solo abbozzate. Sono piccoli semi per una ricerca che vorrei sviluppare, quando avrò tempo per farlo.
Concludo sottolineando una insidia che il buon cittadino potrebbe scoprire, suo malgrado, quando ormai è troppo tardi. La trasformazione del diritto in messaggio mediatico può anche risultare rassicurante, sedando l’ansia generata dal crescente allarme sociale; lo strumento mediatico potrà anche funzionare per esprimere giudizi di generico disvalore e stigmatizzazione. Ma lo scenario cambia completamente quando, nella esperienza concreta del quotidiano, si passa dalla proclamazione simbolica delle iniziative di penalizzazione alla loro implementazione e applicazione. Quando quelle “norme” (rectius: proclami), che norme giuridiche non sono, giungono nelle mani della polizia, dei pubblici ministeri, dei giudici, ecco che il cittadino può risvegliarsi bruscamente e scoprire che l’iper-penalizzazione che l'aveva tanto rassicurato nel momento in cui ascoltava il telegiornale, diventa, nel rapporto concreto con l’autorità, un’ambigua e confusa melassa del tutto incapace di soddisfare elementari esigenze di garanzia.
[1] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, (1888), Cap. V., Milano, Adelphi, 1994.