1. Difficile immaginare un esempio altrettanto efficace del decreto-legge n. 48/2025 per spiegare come non andrebbe esercitato il potere di legiferare, soprattutto in materia penale: carente il presupposto costituzionalmente richiesto per bypassare il confronto parlamentare; inadeguato il drafting legislativo; insensato l’assemblaggio di temi, rationes e destinatari, così eterogenei da risultare espressione più di un fenomeno di incontinenza securitaria che di un organico disegno di riforma.
2. Il presupposto. Vistosamente assente il presupposto che legittima eccezionalmente l’Esecutivo a emettere provvedimenti aventi forza di legge: la necessità e l’urgenza. Carenza su cui, evidentemente, conveniva lo stesso Governo se aveva ritenuto inizialmente di intraprendere il percorso legislativo ordinario, sottoponendo in modo corretto il suo proposito riformistico allo scrutinio parlamentare. L’asperità del percorso, gli autorevoli giudizi critici ricevuti da Autorità europee, da esperti delle Nazioni unite, dal Quirinale, dall’ Accademia, dall’avvocatura e dalla magistratura, nonché la maldissimulata contrarietà di una parte della compagine governativa a ogni modifica del provvedimento in questione che ne mitigasse la drasticità punitiva e discriminatoria, hanno indotto a escogitare un imbarazzante espediente: quello di accorgersi improvvisamente della ineludibile impellenza di tutte le novità normative proposte. Così, succede di dover leggere nel preambolo giustificativo del disegno di legge che si ravvisa la necessità ed urgenza di prevedere che «nel caso in cui la persona sottoposta alla misura della custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri» tenti di evadere il giudice disponga nei suoi confronti la custodia cautelare in carcere e che di regola la persona venga condotta in istituto senza la prole; come pure, di prevedere «disposizioni in materia di vittime dell’usura»; come pure, di introdurre il reato di resistenza, anche passiva «all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ ordine e della sicurezza» in carcere.
È evidente quali siano nell’operazione le vere necessità e urgenze: la necessità di sottrarre alle crescenti critiche, anche sovrannazionali, la proposta normativa e l’urgenza di rassicurare un parte della maggioranza, insofferente alle modifiche che, anche a seguito dell’intervento del Presidente della Repubblica, si erano già rese necessarie e preoccupata delle altre che si andavano prospettando. Motivazione politicamente comprensibile, costituzionalmente e democraticamente inammissibile.
3. Il profilo tecnico. Dal punto di vista della tecnica normativa, il provvedimento de quo porta a livelli non più tollerabili una tendenza che già nelle legislature precedenti ha trovato manifestazioni non infrequenti. Una deprecabile prolissità analitica nella formulazione delle fattispecie e la tendenza ad assemblare maldestramente interventi eterogenei ed asistematici. Una regola fondamentale – e sempre più ignorata – che dovrebbe presiedere al drafting normativo è la rigorosa e nitida essenzialità. Nella proposizione normativa quod abundat vitiat (anche a voler ammettere che minuziosità precettive come, ad esempio, quelle di identico tenore contenute nel secondo comma degli artt.22 e 23 del Decreto abbiano senso logico e giuridico). Non solo perché induce disorientamenti interpretativi, prestandosi a comparazioni con fattispecie omologhe connotate da minori ridondanze descrittive; comparazioni, in forza delle quali l’argomento a contrario produce spesso esiti esegetici molto diversi. Ma anche perché, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, l’analiticità prescrittiva consegna non poche situazioni all’anomia, specie nel settore penale in cui alla mancata previsione non si può sopperire con l’analogia.
Gli interventi eterogenei ed estemporanei, poi, hanno finito per rendere il nostro sistema inguardabile e privo di quella che dovrebbe essere la sua prima qualità: la nitida organicità. Già più di un secolo fa, Luigi Lucchini ammoniva: «il guaio è che da certi ritocchi (stile ministeriale), da certi rimaneggiamenti a spizzico, da certe ricatapecchiature sarebbe folle ingenuità sperare di cavarne qualche costrutto».
4. Il contenuto. Salvo pochissime eccezioni (ad esempio, in materia di custodia cautelare e di lavoro durante l’esecuzione penale), il puzzle normativo del provvedimento in esame ha un denominatore teleologico comune: la tutela della sicurezza. Estrarre dal cilindro legislativo figure di reato di nuovo conio; inasprire le pene per quelle già esistenti; criminalizzare anche la protesta non violenta dei soggetti ristretti in condizioni disumane; introdurre ulteriori ipotesi di ostatività alla fruizione delle alternative al carcere; ipertutelare le forze dell’ordine, sono note diverse dello stesso spartito. Coerentemente con il demagogico mantra di questa maggioranza, che, complice una narrazione mediatica allarmistica e sensazionalistica, lucra elettoralmente sulle paure della gente, anche questo provvedimento per più profili illiberale e distonico rispetto a uno Stato di diritto usa il passepartout della tutela della sicurezza pubblica; locuzione «messa lì a fare da parafulmine» – per dirla con André Gide – e incollata sul provvedimento «come certe etichette con la scritta “sciroppo” o “gazzosa” sulle bottiglie di whisky durante il proibizionismo». Una sorta di pubblicità ingannevole, a cui in questa democrazia emotiva, percorsa da un pandemico senso di precarietà, di insicurezza e di pericolo sempre imminente, la collettività non mancherà di dar credito. Vale sempre quanto scriveva Christa Wolf nella Medea: «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci».
E che la risposta penale, e in particolare il carcere vissuto come rimedio in grado di rinchiudere tutti i pericoli entro fatiscenti ma invalicabili mura, sia populisticamente redditizia lo dimostrano la sciagurata propensione con cui ad essa ricorrono le forze politiche che hanno lo slogan “legge e ordine” nel loro DNA e la titubante, spesso omissiva, sempre flebile resistenza che a questa visione carcerocentrica oppongono quelle forze pur consapevoli che la sicurezza dipende da ben altre provvidenze sociali e culturali. Si ha ragione di ritenere che sia soltanto l’elevata redditività elettorale a spingere verso una politica panpenalistica, non certo la fiducia riposta nella sua efficacia. Del resto, poiché in questa sconcertante stagione dobbiamo quotidianamente gettare lo sguardo oltre oceano, basterebbe cogliere l’occasione per riflettere su un sistema come quello statunitense che, nonostante la popolazione penitenziaria più numerosa del mondo e l’accentuato armamentario repressivo, nel quale trova ancora barbaramente posto la pena di morte, registra uno dei più alti indici di criminalità.
Attribuire a una certa politica accanitamente securitaria un mero calcolo di natura elettorale, in fin dei conti, è un modo per non rassegnarsi al noto, duro lascito di Leonardo Sciascia secondo cui i fanatici della pena «godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza, sostanzialmente restando immobili nell’eterno fascismo italico. Lo Stato che il fascismo chiamava ‘etico’ (non si sa di quale eticità) è il loro sogno e anche la loro pratica. Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti» (A futura memoria, se la memoria ha un futuro, 1989).
5. La lenzuolata di novità normative ad alta illiberalità ed a bassa efficienza del decreto legge in conversione, come si diceva, fa più pensare ad una manifestazione di demagogico giustizialismo, che altro non è se non il cugino del populismo che ha studiato legge. Emblematico il modo di affrontare il drammatico problema del sovraffollamento delle nostre carceri, da cui con agghiacciante frequenza, si leva un esangue indice accusatore: “devi rispondere anche di questa mia morte, tu Stato, che invece di limitarti a punirmi, mi hai umanamente distrutto”.
Il Ministro della Giustizia Nordio chiarisce in Parlamento che il sovraffollamento e le sue conseguenze dipendono dal numero di coloro che commettono i reati. Spiegazione che oscillerebbe tra l’insensato e l’irridente, tanto più provenendo da una figura di qualificata esperienza, se non andasse letta unitamente alle provvidenze contenute al riguardo nel decreto in esame. Viene aumentato il numero dei reati e vengono aumentate le pene; innovazione, certo in stridente contrasto con l’affermazione di cui sopra, essendo destinata nel medio periodo ad aggravare la situazione penitenziaria. Ma, ed è questo l’elemento chiarificatore, come si pensa di gestire una situazione fatalmente sempre più ingestibile? Introducendo il reato di rivolta carceraria per punire anche la resistenza passiva. Così tutto torna, nel disegno politico: si esibisce alla insicura collettività il rigonfio bicipite della repressione penale; non si nega che questo rassicurante approccio aggraverà purtroppo la realtà carceraria: aumenteranno i suicidi, gli autolesionismi, i tentativi di rivolta, le aggressioni nei confronti degli agenti penitenziari, ma, se ne risente l’ordine intramurario, gli autori saranno ancora più puniti e più disumanamente stipati.
Non è una strategia politica eticamente accettabile, né costituzionalmente praticabile, ma sul piano del consenso è altamente pagante: la collettività si sentirà (ingannevolmente) rassicurata, pur con qualche rincrescimento di circostanza, nel vedere le personificazioni delle loro paure compresse in sicuri contenitori murari. E, quando ciò avrà prodotto l’auspicato lucro in termini di consenso, le forze politiche che ne avranno beneficiato avranno buon gioco a sostenere di essere state votate per proseguire nella medesima direzione.