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11 Giugno 2025


Il decreto-legge sicurezza (n. 48/2025): autoritratto involontario di una politica di oppressione


Roland Barthes sosteneva: “Dimmi come categorizzi e ti dirò chi sei”.

 

Per chi, come noi, nutre un certo piacere ad ordinare i libri per categorie, risulta piuttosto agevole notare l’impressionante frequenza con cui, governo dopo governo, di recente si sono susseguiti nel nostro paese i “decreti sicurezza”.

Appare inevitabile, tuttavia, notare come quest’ultimo decreto-legge porti con sé un tratto diverso rispetto ai precedenti, non commendevole e anzi allarmante.

Della aperta violazione dei principi di proporzionalità, offensività, ragionevolezza e tassatività, della visione carcerocentrica che permea l’intero decreto e dell’insostenibile abuso della decretazione d’urgenza in materia penale in tanti hanno già scritto.

Un aspetto meno considerato traspare in controluce tra le righe della “novella”, inducendo a una valutazione più severa.

La lettura del decreto-legge n. 48 del 2025 svela in modo inequivocabile il cambio di paradigma del rapporto, disegnato dalla nostra Costituzione, tra la persona, il potere esecutivo e più in generale le istituzioni, in base al quale la persona sta al centro ed il potere esecutivo intorno, idealmente al suo servizio. Nel testo normativo si osserva, infatti, una vera e propria inversione dei ruoli “figlia” dell’intento di questo governo di conferire sempre maggiore centralità al potere, in particolare esecutivo, il tranquillo esercizio del quale diventa, oggi, il bene giuridico più importante. La persona viene relegata, invece, in un ruolo marginale, ove le è precluso compromettere il disegno perseguito dall’esecutivo.

Preso atto di ciò, l’unico elemento da ravvisarsi come davvero positivo è il consenso generale nell’opposizione. D’altronde, davvero poche proposte si possono avanzare nel merito, se non quella di respingere e di rifiutare integralmente questo articolato e il disegno ideologico su cui si fonda e che lo sostiene. Ciò anche perché le disposizioni in esso contenute non si limiteranno ad avere un valore puramente simbolico o “di bandiera”, ma saranno probabilmente applicate davvero e di frequente, producendo conseguenze tanto concrete quanto drammatiche.  

Ad ogni modo, per non cadere in un vittimismo retorico e sovente vuoto di contenuti, analizziamo alcune disposizioni da cui emerge come un simile “arrocco” di ruoli sia l’elemento caratterizzante.

Abbiamo provato a suddividerle in tre gruppi che abbiamo definito: crudeltà inutili, eterogenesi dei fini e autoritratti involontari.

 

 

CRUDELTÀ INUTILI

Silvio Orlando in “Palombella Rossa” scherza con il campione ungherese Imre Budavari, stella della squadra avversaria, quasi implorandolo di evitare “crudeltà inutili”. La pallanuoto, uno sport di contatto, può più di altri trasformarsi in un esercizio di brutale violenza. Così, anche il diritto penale, nato come braccio armato dello Stato e già intrinsecamente e inevitabilmente connesso con la violenza, può, degenerando, diventare una gratuita oppressione e quindi un’inutile crudeltà.

Ecco alcuni esempi.

 

Art. 1 – Detenzione di materiale con finalità di terrorismo.

L’accanimento punitivo che permea tutto il testo del decreto è ravvisabile fin dalla prima disposizione che introduce l’art. 270-quiquies.3.

La nuova norma punisce con la reclusione da due a sei anni chiunque si procura o detiene materiale informativo sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici, armi da fuoco, sostanze nocive o batteriologiche, nonché ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o sabotaggio dei servizi pubblici essenziali con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.

È senza dubbio evidente l’anticipazione della soglia di punibilità in termini di tutela del bene giuridico, che, peraltro, non si comprende bene quale possa essere. Una strada, alla ricerca di maggiore chiarezza, è quella di volgere lo sguardo alla relazione del disegno di legge al Parlamento. Si rimane tuttavia, non troppo sorprendentemente, delusi nello scoprire che nessuna menzione del bene giuridico tutelato viene fatta per giustificare l’introduzione di un nuovo reato che arretra in modo così drastico la soglia di punibilità.

Preoccupante poi è il passaggio, sempre della relazione, in cui si ammette che, nella prassi operativa, i giudici penali fino ad oggi non hanno potuto fare a meno di assolvere coloro che detenevano documenti propedeutici alla realizzazione di attentati e sabotaggi, perché tali condotte non erano facilmente inquadrabili nei reati di apologia, istigazione o auto-addestramento. Ciò deve essere parso inammissibile al legislatore che ha deciso così di incriminare quella che ritiene una “[…] condotta di per sé allarmante e pericolosa, indipendentemente dalla effettiva realizzazione di atti terroristici”. Una simile presa di posizione pare però solo uno sfoggio di anelito punitivo né necessario, né adeguatamente motivato.

Il nuovo reato introdotto rientra anch’esso nella categoria dei reati di pericolo presunto; questa volta, però, si puniscono condotte solo astrattamente e ipoteticamente prodromiche al compimento di atti terroristici.

Ancora una volta l’esecutivo decide di punire di più, di incriminare qualsiasi condotta sentendosi apparentemente libero dal vincolo del principio di offensività.

 

Art. 10 – Occupazione arbitraria di immobili.

Per comprendere gli interventi normativi che celano un’oppressione gratuita e sproporzionata, si deve volgere lo sguardo all’art. 10 del decreto in materia di sicurezza urbana.

Il nuovo art. 634-bis c.p. punisce con la reclusione da due a sette anni l’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui mentre il comma 3 disciplina la procedura volta alla reintegrazione del possesso.

Due ordini di rilievi devono farsi nel merito.

In primo luogo, sulla necessità dell’introduzione di questo nuovo reato e della relativa procedura di reintegrazione.

L’occupazione arbitraria di immobili era già una condotta illecita, ai sensi dell’art 633 c.p., punita con la reclusione fino a tre anni. Quali sono le diverse esigenze di tutela che giustificano l’introduzione del nuovo reato rimangono tutt’ora da comprendere.

Ancora, il comma 3 disciplina la reintegrazione nel possesso, ma, anche in questo caso, il recupero dell’immobile era già possibile, con l’azione di reintegrazione nel possesso prevista dall’art. 1168 c.c., o con una richiesta di sequestro in sede penale e successiva istanza di restituzione dell’immobile al soggetto avente diritto, ovvero chi ne aveva il possesso legittimo.

Il secondo rilievo riguarda la sproporzione tra l’offensività della condotta illecita e la cornice edittale prevista, la reclusione da due a sette anni. E per comprenderlo forse basta ricordare alcuni reati per cui è prevista una pena simile: art. 591 comma 3 c.p. abbandono di minori da cui ne sia derivata una lesione grave (reclusione da 1 a 6 anni) o la morte (reclusione da 3 a 8 anni); art. 605 c.p. sequestro di persona (reclusione da 6 mesi a 8 anni); art. 612 bis c.p. atti persecutori (reclusione da 1 a 6 anni); art. 648 c.p. ricettazione (reclusione da 2 a 8 anni).

La “novella”, ancora una volta, sembra originata da un accanimento ingiustificato oltre che superfluo.

 

Art. 15 – Esecuzione della pena e misure cautelari per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno o a tre anni.

Prima della modifica apportata dal nuovo decreto sicurezza, dinanzi ad una donna incinta o madre con figli minori fino ad un anno il giudice aveva l’obbligo di disporre il rinvio della pena.

La scelta del legislatore rispondeva ad un bilanciamento di interessi contrapposti: da un lato l’esigenza di repressione del crimine e dall’altro la tutela del superiore interesse del minore.

Oggi, il differimento della pena diventa facoltativo ed è dunque rimesso alla discrezione del giudice, come accade nel caso di madri con prole di età da uno a tre anni. In caso di pericolo di eccezionale rilevanza di commissione di altri delitti, poi, la pena non viene differita e l’esecuzione avviene in un istituto a custodia attenuata per detenute madri.

È opportuno ricordare che di ICAM, istituti di detenzione per madri e figli che dovrebbero essere adattati alla presenza dei minori, ce ne sono solo quattro in Italia e precisamente a Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Lauro e Torino.

La visione carcerocentrica della pena a cui sembriamo ciclicamente ritornare, si scontra con una realtà ben diversa, in cui è lo stesso Stato a dimostrarsi incapace di garantire spazi opportuni e adeguati alla reclusione. Questa mancanza non riguarda solo gli istituti penitenziari ordinari, ma si estende anche all’assenza di un impegno concreto nel realizzare istituti che dovrebbero accogliere situazioni delicate come quelle delle madri detenute.

 

 

ETEROGENESI DEI FINI

Una seconda categoria di norme che rispecchiano efficacemente il ribaltamento dei ruoli tra persona e potere esecutivo può essere indicata sotto il nome di eterogenesi dei fini. Fenomeno per cui il legislatore dichiara di ottenere un obiettivo conseguendone, maldestramente, l’esatto opposto.

 

Art. 26 – Aggravante speciale per istigazione a disobbedire le leggi in carcere e nuovo reato di rivolta negli istituti penitenziari.

Una visione prettamente securitaria ispira altresì la modifica dell’art. 415 e l’introduzione del nuovo 415-bis del codice penale volte, si afferma, al rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.

Sicurezza perseguita per un verso con l’introduzione di un’aggravante speciale ad effetto comune per il caso di istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico ovvero all’odio fra le classi sociali all’interno di un istituto penitenziario, per altro verso, con il nuovo reato di rivolta all’interno delle carceri ai sensi dell’art. 415-bis.

Quest’ultimo appare fin da subito caratterizzato dalla singolare previsione di sanzionare, oltre agli atti di violenza e minaccia, anche la resistenza passiva, quindi sostanzialmente pacifica, da parte dei detenuti, che impedisca il compimento di atti dell’ufficio o turbi l’ordine e la sicurezza.

In cosa consista la resistenza passiva, è dato che appare francamente oscuro. Secondo la relazione, una definizione si troverebbe all’art. 41 dell’ordinamento penitenziario che giustifica l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti per vincere, tra le altre cose, la resistenza, anche passiva, all’esecuzione di ordini impartiti.

La disposizione richiamata, evidentemente, non chiarisce alcunché. Anzi, la dottrina proprio sul richiamo alla nozione di resistenza passiva ha da tempo lamentato il fatto che un richiamo a una nozione tanto poco tassativa rischia di «aprire la strada ad un uso ancora più discrezionale della violenza e della coercizione fisica, con l’aggravante che titolare di questo potere discrezionale finisce per essere il solo personale di custodia» (così Loi – Mazzacuva, in Aa.Vv., Il carcere riformato (a cura di F. Bricola, Bologna, 1977, p. 91).

La relazione rassicura sul fatto il reato non sarà integrato dalla resistenza a qualsiasi di tipo di ordine. È necessario che quest’ultimo sia impartito per ragioni di odine e sicurezza. Quelli attinenti alla pulizia e all’igiene personale sono esclusi. Insomma, non rifarsi il letto, non sarà un delitto. Rischia di esserlo, però, qualsiasi atto di disobbedienza, seppur non violenta, per mezzo del quale un detenuto lamenta, ad esempio, le umilianti e degradanti condizioni dell’istituto carcerario in cui è recluso.

Ancora una volta sembra sia ignorata l’insostenibile situazione di sovraffollamento delle carceri, il costante aumento dei suicidi tra i detenuti, le carenze strutturali e di organico e, da ultimo, il fallimento della funzione rieducativa della pena, almeno quella detentiva, dato l’alto tasso di recidiva.

Per di più, la cronaca degli ultimi anni ci riporta una situazione emergenziale nelle carceri, che, contrariamente da quanto si possa pensare con l’introduzione di questa norma, parla di violenza nei confronti dei reclusi, non da parte loro.

Ed allora, come anche affermato dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, invece di proiettare il carcere «come discarica nella quale abbandonare i detenuti al loro destino retributivo», il legislatore dovrebbe cercare strumenti volti coltivare fiducia e collaborazione in un mondo chiuso per antonomasia, qual è il carcere.

 

Art. 28 – Disposizioni in materia di licenza, porto e detenzione di armi per agenti di pubblica sicurezza.

Sempre nel solco della visione securitaria che permea l’intero decreto, l’art. 28 autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza le armi previste dall’art. 42 TULPS anche quando non sono in servizio.

La relazione sorprende ancora una volta quando sottolinea come gli agenti abbiano spesso evidenziato l’esigenza di poter acquistare, detenere e portare un’arma privata senza licenza anche quando non si è in servizio.

Dunque, lo stesso legislatore che, mosso dalle esigenze di sicurezza, introduce reati e pene fuori misura, allo stesso tempo sceglie di armare di più sul presupposto, smentito da chiunque abbia anche una minima dimestichezza sul tema, che più armi possano contribuire a garantirla.

 

 

AUTORITRATTI INVOLONTARI

L’ultima categoria di norme di cui vale la pena fare un commento può essere definita come autoritratti involontari (notoriamente i più riusciti). Si tratta, per l’appunto, di disposizioni solo apparentemente insensate ma che, osservate da vicino, svelano la natura di coloro che le hanno scritte.

 

Art. 11 – Modifiche in materia di circostanze aggravanti comuni e truffa.

L’art. 11 del decreto introduce una nuova circostanza aggravante comune per delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica, contro la libertà personale e contro il patrimonio per aver commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie, nelle metropolitane e nei convogli adibiti al trasporto dei passeggeri.

La relazione giustifica la nuova aggravante sul presupposto che tali condotte esprimano un maggior grado di offensività che giustifica quindi l’aumento della pena.

Quale sia, però, nello specifico, questa maggiore offensività, rispetto alle aggravanti già previste all’art. 61 c.p., non si riesce ancora una volta a comprendere, né ciò viene reso esplicito in qualche documento che costituisce l’iter di approvazione della disposizione.

Poiché la collocazione geografica della condotta in parola non sembra tale da meritare un aumento di pena, la ratio della circostanza rimane un quesito a cui è arduo dare risposta. Finché non sorge un dubbio: sono più “odiose” le condotte generali ed astratte previste dalla norma o sono più “odiati” (dal legislatore) i probabili autori, ovvero chi vive di espedienti (anche illeciti) nei pressi delle stazioni?

 

Art. 12 – Danneggiamento in occasione di manifestazioni.

Una temuta conferma a tale sospetto si trova nell’art. 12 del decreto, che, modificando l’art. 635 c.p., punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e la multa fino a 15.000 euro il danneggiamento in occasione di manifestazioni se commesso con violenza alla persona o con minaccia.

Interessante, a questo proposito, ripercorrere la storia del reato in questione. Nel 2016, con il d. lgs. n. 7, si era provveduto alla depenalizzazione del reato di danneggiamento semplice, trasformandolo in un illecito civile nell’ottica di alleggerimento del carico giudiziario penale. Rimaneva reato l’ipotesi aggravata nel caso di violenza, minaccia alle persone in occasione di manifestazioni, circostanza punita con la reclusione da sei mesi a tre anni. Nel 2019 si registrava un cambio di rotta con l’inserimento della fattispecie di danneggiamento durante manifestazioni nel comma 3 come aggravante autonoma caratterizzata da un consistente aumento di pena: reclusione da uno a cinque anni e multa fino a 10.000 euro.

Infine, l’ultimo decreto inserisce sempre al co. 3 l’aggravante di violenza o minaccia alle persone in occasione di una manifestazione. L’aumento di pena qui è minimo: da un anno e sei mesi a cinque anni e una multa fino a 15.000 euro. Come se il tratto che conferisce la maggiore offensività alla condotta sia (il danneggiamento compiuto durante) la partecipazione alla manifestazione e non la violenza o la minaccia alle persone. Questa circostanza, insieme alla tariffa penale assai elevata fa perdere qualunque corrispondenza tra la condotta e la sanzione. Sembra, infatti, che questa, con la sua eccezionale gravità, corrisponda più alla contrarietà ideologica dell’esecutivo nei confronti di chi usualmente manifesta.

 

Art. 16 – Modifiche in materia di accattonaggio.

Alla medesima logica è ispirato l’art. 16 del decreto che modifica l’art. 600-octies c.p., in materia di accattonaggio.

Con il nuovo decreto si alza da quattordici a sedici anni l’età della persona impiegata per mendicare e la pena, parimenti, si innalza con la previsione della reclusione da uno a cinque anni. Ancora una volta, sfuggono le ragioni in generale dell’intervento e in particolare di una tale severità nel punire la condotta.

La relazione sottolinea che sedici anni sia l’età fino alla quale vige l’obbligo scolastico. In verità, poiché il fatto può essere commesso anche con un singolo episodio, che quindi può non interferire con le lezioni o lo studio, resta oscuro quest’ultimo innalzamento dell’età.

Il decreto sostituisce il secondo comma, introducendo l’ipotesi di induzione all’accattonaggio, punito con la reclusione da due a sei anni; la pena è aumentata di un terzo se commessa nei confronti di un minore.

Qui è la proporzionalità della pena rispetto alla condotta e rispetto più in generale alle altre fattispecie, a stridere con la previsione normativa. Un solo esempio: l’induzione all’accattonaggio è punito più del reato di istigazione a delinquere, per cui è prevista la reclusione da uno a cinque anni. Se poi si pensa che tale induzione è sanzionata anche se commessa nei confronti di un maggiorenne, l’irragionevolezza delle modifiche apportate dal decreto emerge in tutta la sua chiarezza.

Tuttavia, ancora una volta queste previsioni trovano un senso se calate nella logica di penalizzare, sempre di più, non la condotta in sé ma, quasi sempre, alcuni tipi di autore, ovvero chi vive ai margini della “buona società” e lontano dalla “brava gente”.

 

Ecco perché, speriamo di essere riusciti a spiegarlo, questo decreto è ben peggiore dei suoi precedenti omonimi. Le disposizioni gemmano da un’ideologia che si nutre del populismo politico e penale, ma non si limitano ad avere un valore simbolico o di bandiera. Sono norme destinate ad essere applicate in concreto, modificando la realtà in una direzione opposta a quella indicata dall’architettura costituzionale che vede la persona, nel suo caleidoscopico sviluppo, al centro. Nelle disposizioni di questo decreto si erge al centro solo l’ossequio verso il potere e l’ordine, nel senso più deteriore del termine. Ai confini, invece, gli emarginati e i contestatori.

Quello che le novelle normative tendono a preparare, nell’ultima legislatura, non è solo un mondo brutto ma, per citare un titolo di un certo successo di recente, “un mondo al contrario”, rispetto a quello disegnato e proposto dai Costituenti come auspicabile.