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  Opinioni  
01 Maggio 2025


Decreto sicurezza e questione carceraria


1. Riforme attese e attese deluse - Anche chi non si occupa professionalmente di giustizia penale ha compreso che uno dei nodi centrali del “pianeta giustizia” italiano è costituito dal problema carcerario. Ormai, quali che siano le convinzioni da ciascuno coltivate, non c’è giorno che gli organi di comunicazione, specializzati e di massa, non riportino notizie – solitamente infauste – relative al mondo carcerario: dalla quotidiana e lugubre contabilità dei suicidi in carcere all’ultima condanna della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia per trattamenti inumani, fino alla visita pasquale che Papa Francesco ha effettuato a Regina Coeli quando ormai era prossimo a lasciare questa Terra, dopo aver fatto del carcere uno dei temi più ricorrenti ed accorati del suo magistero.

Logico, dunque, aspettarsi che un provvedimento legislativo che si fregia dell’iniziativa governativa condivisa addirittura dal Presidente del Consiglio dei Ministri insieme ai titolari dei ministeri più pesanti della compagine governativa (interno, giustizia, difesa, economia), s’impegnasse sul fronte carcerario più di quanto è stato fatto finora col d.l. 4 luglio 2024, n. 92 (conv. con modificazioni dalla legge 8 agosto 2024, n.112) in materia di liberazione anticipata. Ed in effetti, affogate in un groviglio di norme disparate e per la maggior parte destinate a introdurre nuove fattispecie incriminatrici o aggravanti relative a fenomeni di criminalità marginale o inequivocabilmente minore (occupazione di immobili, blocchi stradali o ferroviari, induzione all’accattonaggio minorile) o destinate a rafforzare la tutela penale delle forze dell’ordine, hanno fatto la loro comparsa nel d.l. 11 aprile 2025, n. 48 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario) alcune disposizioni concernenti l’universo carcerario. Ma invero si tratta di disposizioni che, più che tradire le aspettative, suscitano una reazione di stupore o di incredulità per le finalità cui paiono ispirate. E allora vediamole queste disposizioni, seppure in rapidissima sintesi.

A parte l’ovvia constatazione che la gragnuola di inasprimenti sanzionatori cui indulge il decreto legge soprattutto nel Capo II dedicato alla “sicurezza urbana” recherà un ulteriore incremento della popolazione carceraria, le norme che qui interessano sono classificabili in due gruppi. Da un lato, vi è il gruppo di disposizioni propriamente di ordinamento penitenziario (contenute nel Capo V; artt. 34-37). Dall’altro, vi sono quelle disposizioni che, pur contenute nel grande calderone delle disposizioni sulla “sicurezza urbana” (Capo II), concernono più precisamente il mondo penitenziario e quello consimile dei centri di permanenza e rimpatrio degli immigrati irregolari (artt. 26 e 27): si tratta, infatti, di disposizioni che prevedono nuove fattispecie incriminatrici o aggravanti caratterizzate dall’“ambientazione” carceraria. Norma per così dire di raccordo tra i due gruppi è quella che inserisce le nuove fattispecie di ambientazione carceraria tra quelle ostative ai benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4 bis ord. penit.

 

2. Le innovazioni in tema di lavoro penitenziario - Il primo gruppo di disposizioni, quelle propriamente di ordinamento penitenziario, concerne più specificamente il tema del lavoro dei detenuti e degli internati. E qui il cuore si apre alla speranza, essendo notorio che il lavoro costituisce uno dei più efficaci antidoti al degrado e allo sfacelo prodotto dalla vita detentiva, come hanno avuto modo di dichiarare pubblicamente in più occasioni sia il presidente del consiglio che taluni dei ministri proponenti. A loro volta, le disposizioni di questo gruppo possono essere suddivise in due categorie: quelle che prevedono l’estensione di alcune specifiche facilitazioni al lavoro (artt. 35 e 36) e quelle che prevedono una più generale revisione dell’organizzazione del lavoro di detenuti ed internati (art. 37).

Le innovazioni di cui all’art. 35 consistono nell’estensione delle agevolazioni già previste per le aziende pubbliche e private che organizzino attività produttive o di servizi, all’interno degli istituti penitenziari, con l’impiego di persone detenute o internate, anche alle attività svolte dalle stesse aziende all’esterno del circuito carcerario, impiegando persone ammesse al lavoro all’esterno. L’art. 36 estende la possibilità di assumere in apprendistato professionalizzante anche i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 dell’ord. penit. In sostanza, le agevolazioni previste da queste due disposizioni riguardano esclusivamente il lavoro all’esterno, ampliando le possibilità lavorative mediante forme di incentivazione alle aziende pubbliche e private. Certamente, non si tratta di un’innovazione del tutto trascurabile anche perché, come noto, spesso la possibilità di fruire di misure in libertà è di fatto subordinata alla possibilità per il detenuto o internato di avere un’occupazione lavorativa. Ma è chiaro che il buon successo di queste agevolazioni è sostanzialmente rimesso alla disponibilità delle aziende di offrire soluzioni lavorative e, comunque, le innovazioni legislative non riguardano affatto l’altro più complesso versante costituito dalla massa dei detenuti e internati che non possono accedere ai benefici extra moenia e che, dunque, potrebbero esercitare un’attività lavorativa solo se organizzata all’interno della struttura penitenziaria.

A questo secondo, più impegnativo e più urgente, versante del lavoro carcerario è dedicato l’art. 37 del decreto. Il quale, però, non prevede niente di concreto né di immediato (sconfessando così per tabulas il requisito di urgenza che dovrebbe giustificare il ricorso al decreto legge). Infatti, il citato art. 37 contiene una delega al governo, da esercitare entro un anno, al fine di apportare le modifiche al regolamento penitenziario di cui al d.P.R. n. 230/2000 secondo una serie di principi direttivi che, in sé indubbiamente apprezzabili, possono correre il rischio di impaginare il classico libro dei sogni. Tra gli altri, dovranno costituire obiettivi della riforma regolamentare (muovendosi, dunque, sul piano delle fonti secondarie): la valorizzazione del «principio di sussidiarietà orizzontale attuando iniziative di promozione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario e incoraggiando l’interazione con l’iniziativa economica privata»; la semplificazione delle relazioni tra le imprese e le strutture carcerarie al fine, ove possibile, di favorire l’interazione tra datori di lavoro privati e la direzione carceraria; la possibilità per l’amministrazione penitenziaria di apprestare, in attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, modelli organizzativi di cogestione, privi di rapporti sinallagmatici. In sostanza, quanto al lavoro intramurario da attuare all’interno del trattamento penitenziario, tutto viene rimandato ad un futuro prossimo venturo, contando sulle virtù della normativa regolamentare che dovrà, anche in questo caso, contare essenzialmente sulla buona volontà di soggetti privati o pubblici esterni all’amministrazione penitenziaria: un orizzonte insomma di buone intenzioni, da parte ovviamente delle aziende che vorranno aderire alle iniziative di promozione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, ma ancor prima da parte della stessa amministrazione penitenziaria che dovrà non solo “incoraggiare l’iniziativa economica privata” ma soprattutto rendere le proprie strutture e la propria organizzazione interna permeabili – per così dire – all’inserimento in carcere delle opportunità lavorative.

In conclusione, sullo strategico tema del lavoro dei detenuti ed internati si può sintetizzare il contenuto del decreto dicendo un po’ brutalmente che, rispetto al lavoro extra moenia, ci si limita al potenziamento di un paio di agevolazioni per le imprese; mentre, rispetto al lavoro intra moenia, ci si affida all’enunciazione di principi generici, da attuare in futuro facendo assegnamento sulla buona volontà dell’amministrazione penitenziaria e dei soggetti esterni.   

 

3. Ordine e sicurezza in carcere - Il secondo gruppo di disposizioni relative al mondo penitenziario è costituito da quelle previsioni finalizzate a rafforzare la tutela della sicurezza degli istituti penitenziari (art. 26). Si tratta più precisamente di due disposizioni: a) la nuova aggravante speciale ad efficacia comune per il delitto di istigazione a disobbedire alle leggi (art. 415 c.p.), qualora sia «commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute»; b) la nuova fattispecie incriminatrice di rivolta all’interno di un istituto penitenziario (art. 415 bis c.p.). Il nucleo di quest’ultima è costituita da due elementi cumulativi: la partecipazione ad una “rivolta” da parte di almeno tre persone riunite e il compimento di atti di violenza, minaccia o resistenza al compimento di atti d’ufficio o di servizio necessari per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza nell’istituto penitenziario. Si precisa, poi, che la resistenza può essere anche passiva quando, tenuto conto del numero delle persone coinvolte e del contesto, viene impedito il compimento di quegli atti.

Non è un caso che queste nuove disposizioni, al di là della loro fattura tecnica, abbiano sollevato forti riserve per le motivazioni profonde che sembrano ispirarle, sebbene non siano mai state esplicitate con chiarezza. Di fronte ad un diffuso e grave disagio carcerario, che ha le sue cause nel sovraffollamento e più in generale nelle condizioni deteriori di vita carceraria e che può indubbiamente essere all’origine di episodi di protese più o meno violente all’interno degli istituti, si reagisce non tanto sulle cause originarie quanto sul piano repressivo, elevando l’ordine e sicurezza carceraria a valore preminente dell’istituzione penitenziaria. Sembra quasi una beffa, o uno schiaffo, nei confronti di tutto quel movimento che si batte per l’umanizzazione dei nostri istituti penitenziari in attuazione del precetto costituzionale e convenzionale che vieta pene inumane e degradanti.

Non si può certo dire che l’ordine e la sicurezza carceraria non ricevessero tutela anche prima delle modifiche apportate col recente decreto legge. A parte l’istigazione a disobbedire alle leggi (applicabile ovviamente anche all’interno del carcere), gli atti di violenza, minaccia e resistenza attiva erano sanzionati dalle rispettive norme comuni sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (artt. 336 e 337 c.p.). Quanto poi alla resistenza passiva, il principio generale per cui essa non è punita trovava già una sua speciale modulazione in ambito penitenziario, ove l’art.  41 ord. penit. individua le condizioni per l’esercizio della facoltà d’impiego della forza fisica. Quest’ultima disposizione stabilisce, attraverso un’apprezzabile formulazione in negativo, che «non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti». Stando così le cose, l’innovazione legislativa viene ad assumere il significato di una tutela speciale dell’ordine e sicurezza carceraria che si pone come un bene prevalente e maggiore rispetto all’ordinario buon andamento ed efficacia dell’azione amministrativa. E’ allora lecito interrogarsi su quali possano essere le ragioni sostanziali che stanno al fondo di questa esigenza di tutela privilegiata dell’ordine e sicurezza in carcere.

Si potrebbe pensare, in primo luogo, che la ragione di questa tutela speciale dell’ordine e sicurezza carceraria risieda nel fatto che l’istituto penitenziario è un naturale focolaio di potenziale violenza. E ciò non solo a causa della concentrazione in uno stesso spazio ristretto di uomini inclini alla violenza, ma anche e soprattutto a causa della stessa condizione di cattività in cui si trovano a vivere i reclusi, in condizioni di vita che conducono fatalmente o verso atteggiamenti di passività e annientamento della personalità oppure verso l’esasperazione dell’insofferenza, della sopraffazione e della violenza verso i propri simili. Una ratio giustificatrice, questa del focolaio di violenza presente in carcere, che potrebbe trovare un suo speciale rafforzamento in situazioni contingenti di esasperazione dell’effetto criminogeno del carcere in quanto particolarmente degradate, come sono attualmente. E’ chiaro, però, che una simile giustificazione non sarebbe né eticamente ineccepibile né – soprattutto – empiricamente e funzionalmente sostenibile. Reagire al potenziale violento del carcere con l’inasprimento della violenza istituzionale della repressione penale significherebbe alimentare quel circuito e, soprattutto, precludersi deliberatamente l’unica strada dotata di qualche possibile efficacia, che è quella di agire sulle cause di quel potenziale di violenza e cioè sulle condizioni della vita carceraria. Sotto questo profilo, particolarmente infelice e rivelatrice di una volontà politica di esasperato repressivismo della violenza in carcere è l’inserimento delle nuove fattispecie tra i reati ostativi ex art. 4 bis ord. penit. Oltre tutto, si può presumere che la loro ostatività sia difficile da superare, posto che i reati di rivolta carceraria o di istigazione a disobbedire alle leggi ben potranno essere commessi da soggetti privi di qualsiasi collegamento con la criminalità organizzata: così che non sarà facile ipotizzare quella condizione di insussistenza di collegamenti criminosi richiesta per essere ammessi ai benefici penitenziari.

Una seconda possibile ratio giustificatrice dell’esasperato rafforzamento dell’ordine e sicurezza negli istituti penitenziari potrebbe essere vista in un atteggiamento ideologico nutrito dal legislatore nei confronti dell’universo carcerario. La tutela speciale dell’ordine e sicurezza, al di là di quanto il diritto comune tutela la vita e l’incolumità personale nonché il buon funzionamento dell’istituzione amministrativa, potrebbe essere motivata da una ipervalutazione di quei beni proprio in quanto interni e propri dell’istituzione penitenziaria. Nel senso, cioè, che tra i diversi valori in essa in gioco e confliggenti – diritti della persona, funzioni della pena, ordine e sicurezza – questi ultimi assumono un ruolo e un significato preponderante. Nel bilanciamento dei valori, ordine e sicurezza prevalgono in quanto vengano concepiti come quelli connotativi del carcere quale luogo di rigore correzionale fisico e morale, cui possono essere sottoordinati sia quello della finalità della pena che quello dei diritti individuali. Si tratterebbe, come è ovvio, di una concezione del carcere lontana anni luce da quella delineata dalla Costituzione e anche da quella affiorante dal vigente ordinamento penitenziario. In definitiva, saremmo in presenza di un salto all’indietro di molti decenni, verso il vecchio Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena di antica memoria. Si tornerebbe così alla concezione dell’istituzione penitenziaria come un ordinamento “sezionale” autonomo da quello generale e ispirato invece ai principi ordinamentali delle istituzioni totali, in quanto tali sottratte alla disciplina comune.

Una visione, questa, che consumerebbe un vero tradimento sostanziale della Costituzione, al di là di puntuali e specifici vizi di incostituzionalità di norme determinate. Ed è ben noto che sono proprio queste forme di insidioso logoramento dello spirito costituzionale ad essere più pericolose dei plateali contrasti sui quali la Corte costituzionale ha più agio di intervenire. Le ordinanze di remissione alla Consulta, peraltro, cominciano già a fioccare e la Corte è venuta dotandosi nel tempo di strumenti di penetrante controllo. Ma non sarebbe meglio prevenire la creazione di tensioni nel sistema istituzionale, ascoltando le tante voci critiche che si sono levate durante l’iter legislativo di questo provvedimento, di cui si avvantaggerà sicuramente poco il pianeta della giustizia penale?