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17 Marzo 2025


Le Sezioni Unite civili sul caso Diciotti: una decisione di grande importanza anche in sede penale

Cass. civ., Sezioni Unite, 18.2.2025 (dep. 6.3.2025), n. 17687/24



*Contributo pubblicato nel fascicolo 3/2025. 

 

1. L’ordinanza in commento ha ad oggetto gli aspetti civilistici di una vicenda, quella dei migranti trattenuti sulla nave militare Diciotti dal 16 al 25 luglio 2018, che già era stata oggetto di attenzione in sede penale. Come si ricorderà, in relazione alla medesima vicenda oggetto della decisione qui in commento nel gennaio 2019 il Tribunale dei ministri di Catania, nonostante il parere difforme della Procura, aveva chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere per il reato di sequestro di persona nei confronti dell’allora Ministro dell’interno Salvini; autorizzazione che era stata negata dal Senato, che con deliberazione del 20 marzo 2019 aveva approvato la richiesta della Giunta per le autorizzazioni di respingere la richiesta del giudici catanesi[1].

Uno dei soggetti trattenuti sulla nave Diciotti, di cittadinanza eritrea come la maggior parte dei trattenuti, aveva chiesto in sede civile il risarcimento ex art. 2043 c.c. del danno morale patito in seguito alla (ritenuta) illecita detenzione cui era stato sottoposto. Domanda che era stata respinta prima dal Tribunale di Roma, che con ordinanza del 9 luglio 2019 aveva dichiarato l’assoluta carenza di giurisdizione, ritenendo che i comportamenti censurati avessero la natura di atti politici; e poi dalla Corte d’appello che – pur ritenendo sussistente la giurisdizione ordinaria, in quanto il danno lamentato era riferibile non ad un atto politico, ma ad un atto ammnistrativo, pienamente sindacabile – aveva respinto nel merito la domanda “in difetto della colpa della pubblica amministrazione e, comunque, in mancanza di allegazione e prova del danno conseguenza”.

La Cassazione annulla la decisione di secondo grado, ritenendo sussistenti tutti gli estremi per accogliere la domanda risarcitoria. Mentre alcuni dei principi di diritto affermati nell’ordinanza sono di stretta pertinenza civilistica, altri invece, per la loro portata generale, sono di sicuro interesse anche in prospettiva penalistica, tanto più che, come vedremo meglio oltre, è in corso presso gli uffici giudiziari di Palermo un procedimento relativo ad una vicenda pressoché identica nei suoi tratti essenziali a quella ora decisa dalla Cassazione civile (il riferimento è ovviamente al procedimento in corso a Palermo, che ha visto in primo grado l’assoluzione del Ministro Salvini nel cd. caso Open Arms).

 

2. La Cassazione è chiamata a decidere due ricorsi: quello in via principale, con cui il ricorrente chiede la riforma della decisione di secondo grado, e il riconoscimento della pretesa risarcitoria; e quello incidentale proposto dall’Avvocatura dello Stato, con cui si chiede la dichiarazione dell’assenza assoluta di giurisdizione in ragione della natura di atto politico della condotta da cui sarebbe derivato il danno.

L’ordinanza prende le mosse proprio da tale questione logicamente preliminare (e che costituisce la ragione dell’attribuzione del ricorso alle Sezioni unite). Si tratta di uno degli aspetti a nostro avviso più significativi della decisione, e per questo ci pare utile riprendere da vicino il percorso argomentativo della Cassazione.

L’ordinanza inizia con il richiamare il proprio precedente del 2023, sempre a Sezioni unite, da cui si ricava che: “la nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità.

Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana. L’impugnabilità dell'atto è la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l'azione della pubblica amministrazione”.

L’atto politico insindacabile è limitato ai soli ambiti di estrinsecazione del potere di governo non disciplinati dalla legge, perché, quando l’azione amministrativa è definita da fonti normative, il loro rispetto può e deve essere verificato dall’autorità giudiziaria. “La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione. (…) L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l'esercizio dell'azione di governo. La giustiziabilità dell'atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l'atto è suscettibile di sindacato”. Tra i vincoli che limitano la discrezionalità dell’azione di governo vanno collocati, prosegue l’ordinanza, “il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona. L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.

Posto questo chiarissimo principio di diritto, l’ordinanza non può che concludere che “va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. (…) Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo”.

 

3. Ritenuta sussistente la giurisdizione, l’ordinanza passa a confutare gli argomenti addotti dalla Corte d’appello per negare il requisito della colpa in capo all’amministrazione, che avrebbe agito in “un quadro di forte incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo”, incertezza tale da non fare apparire “comunque sussistente, in termini di certezza, un obbligo giuridico in capo allo Stato di rilasciare il POS (Place of Safety) ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità”.

La Cassazione ricorda come “l’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali (…) e come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. La Corte ricorda i principi contenuti nelle principali convenzioni internazionali in materia (vengono citate in particolare la cd Convenzione SOLAS del 1974, la cd. Convenzione SAR del 1980 e la cd. Convenzione UNCLOS del 1982), per concludere che “non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.

Più ancora che la violazione della normativa internazionale in tema di individuazione del POS, ad essere decisive, nella prospettiva risarcitoria, risultano le violazioni delle disposizioni (interne ed internazionali) poste a tutela della libertà personale, ed in particolare l’art. 13 Cost., e l’art. 5 CEDU. L’ordinanza ricorda come la Grande camera della Corte EDU, con la sentenza Khlaifia – relativa al trattenimento di alcuni cittadini tunisini nel 2011 prima nell’hotspot di Lampedusa e poi su una nave ormeggiata nel porto di Palermo – abbia chiarito come ogni forma di privazione della libertà, anche degli stranieri irregolari, debba avere una chiara base legale, e debba consentire al trattenuto un ricorso effettivo di fronte all’autorità giudiziaria. “Analogamente nel caso in esame, l’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale”.

Tanto la normativa in materia di soccorso in mare ed individuazione del POS, quanto quella in tema di privazione della libertà personale, sono dunque tutt’altro che incerte od oscure, come aveva invece ritenuto la Corte d’appello. “Le considerazioni sopra svolte restituiscono un quadro giuridico di tale chiarezza e cogenza da rendere insostenibile l’assunto della insussistenza di elementi sufficienti per affermare la colpa delle amministrazioni resistenti”. ad escludere la colpa può essere invocata la sussistenza di un errore scusabile circa la legittimità della detenzione a bordo della nave Diciotti, poso che “non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l’incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l’ordinamento costituzionale e sovranazionale”.

 

4. La Cassazione prende poi in esame la questione se il rifiuto dell’autorizzazione a procedere pronunciato dal Senato abbia rilievo anche in sede civile, o in altri termini “se la insindacabilità della condotta che esso determina sul piano penale si riverberi anche sulla configurabilità dell’illecito civile, nel senso di escluderla”. La conclusione è di segno negativo: “se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale”.

 

5. L’ultima questione oggetto di analisi riguarda l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui non sarebbe stata fornita dal ricorrente la necessaria prova del danno-conseguenza subito. La Cassazione ribadisce il tradizionale principio per cui “ad essere risarcibile non è la lesione dell’interesse giuridicamente protetto (danno-evento o evento di danno) ma il danno-conseguenza, vale a dire i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica dalla lesione stessa, da allegare e provare da parte del danneggiato”. Tuttavia, continua la Corte, “tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti. In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato”.

***

 

6. L’ordinanza appena sintetizzata contiene alcuni principi importanti, che rilevano ben oltre l’ambito della responsabilità civile rispetto ai quali sono stati formulati.

In primo luogo, viene fugato ogni dubbio circa la sindacabilità in ogni sede (civile e penale) delle condotte poste in essere dai più alti vertici politici, quando esse vanno ad intervenire in una materia disciplinata da fonti normative interne e/o internazionali, e soprattutto quando esse hanno provocato la lesione di un diritto fondamentale, non importa se di un cittadino o di uno straniero (regolare o irregolare).

In realtà, in ambito penale tale principio è da contemperare con la peculiare disciplina della responsabilità penale dei ministri, che senza arrivare a dichiarare insindacabili le condotte ad esse ascrivibili, attribuisce al Parlamento la possibilità di negare alla magistratura l’autorizzazione a procedere quando, come recita l’art. 9 co. 3 l. cost. n. 1/1989, “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. In altra sede abbiamo sviluppato le ragioni per cui riteniamo che il potere del Parlamento di negare l’autorizzazione a procedere trovi comunque un limite ordinamentale nell’illegittimità della delibera che garantisse l’impunità a condotte dei ministri integranti gli estremi di crimini internazionali o comunque di reati che ledono diritti fondamentali, la cui tutela in sede penale è imposta da obblighi internazionali dello Stato[2].

Ovviamente la Cassazione non si occupa direttamente della responsabilità penale dei ministri, trattandosi di un procedimento civile per il risarcimento del danno nei confronti dello Stato. Tuttavia, l’affermazione (nuova, se non vediamo male, nella giurisprudenza di legittimità) per cui il diniego dell’autorizzazione a procedere non ha rilievo in sede civile – posto il principio cardine della giustiziabilità di ogni atto lesivo di un diritto fondamentale – fornisce indicazioni importanti rispetto al tema, quanto mai controverso, della qualificazione giuridica della mancata autorizzazione, che la legge definisce quale condizione di procedibilità, ma che secondo parte della dottrina deve essere considerata una causa di giustificazione[3]. La decisione della Cassazione di ritenere la mancata autorizzazione parlamentare irrilevante in sede civile costituisce una autorevole conferma della tesi che ne esclude la natura di causa di giustificazione, preferendone la qualificazione come causa di improcedibilità (sui generis) o come particolare forma di immunità[4].

Al di là poi di tali profili dogmatici, la chiara limitazione da parte delle Sezioni unite della categoria dell’atto politico insindacabile a condotte dei pubblici poteri che non ledono i diritti fondamentali eviterà in futuro che tale categoria venga impropriamente evocata anche nei processi penali, relativi a fatti per i quali è stata concessa l’autorizzazione a procedere.

 

7. Il secondo elemento di grande interesse della pronuncia è quello relativo alla ricostruzione del quadro normativo che regola i soccorsi in mare e l’individuazione del luogo di sbarco, e la privazione della libertà dello straniero privo di titolo per l’ingresso.

Quanto al primo aspetto, la Cassazione afferma senza incertezze il dovere per lo Stato, qualora i suoi mezzi abbiano proceduto ad un soccorso, di individuare “nel più breve tempo ragionevolmente possibile” un luogo sicuro (POS) ove sbarcare, per tale non potendosi intendere la nave dei soccorritori. Si tratta di un’affermazione che con tale chiarezza non era mai stata pronunciata in sede di legittimità, e che potrebbe mettere in discussione la legittimità dell’individuazione di POS molto lontani dai luoghi del soccorso, come avviene abitualmente per le navi delle ONG che operano soccorsi in acque internazionali.

Il passaggio di maggiore interesse per il penalista è tuttavia quello relativo alla libertà personale, ove la Corte, richiamando anche un importante precedente della Grande camera della Corte EDU, ricorda come sia illegittima ogni forma di privazione della libertà dello straniero irregolare, quando essa avvenga fuori dei casi e dei modi espressamente previsti dalla legge; con la conseguenza di affermare l’illegittimità del trattenimento dei naufraghi sulla nave Diciotti disposto dal Ministro Salvini per finalità politiche e in mancanza dei requisiti di legittimità fissati dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU. L’affermazione è particolarmente importante, perché, come già accennato sopra, si è appena concluso in primo grado presso il Tribunale di Palermo un procedimento per fatti molto simili a quelli decisi con l’ordinanza in commento, posto che, nel caso discusso a Palermo, l’imputazione per sequestro di persona aggravato e per rifiuto d’atti d’ufficio nei confronti del Ministro Salvini derivava proprio dall’avere trattenuto per diversi giorni su una nave ormeggiata in acque italiane (nel caso palermitano la nave di una ONG, la Open Arms, e non una nave militare come nel caso Diciotti) alcune decine di stranieri soccorsi in acque internazionali. Certo ogni vicenda processuale fa storia a sé, e vi è ovviamente una grande differenza tra l’affermare l’illegittimità civilistica della privazione di libertà e la colpa dell’amministrazione al riguardo, e l’accertare la responsabilità penale per reati dolosi del Ministro che ha dato l’ordine di procedere all’illegittima privazione di libertà. Ciò non toglie che le considerazioni delle Sezioni unite riguardo alla mancanza di base legale della privazione di libertà sono sicuramente pertinenti anche rispetto alla vicenda della Open Arms. Ora bisognerà leggere le motivazioni (non ancora pubblicate) dell’assoluzione pronunciata a Palermo, per comprendere il ragionamento giuridico che ne sta a fondamento; ma sicuramente gli argomenti della Cassazione non potranno essere ignorati dalla Procura palermitana quando si tratterà di decidere se impugnare la pronuncia del Tribunale.

 

8. Ci sia consentito infine un brevissimo cenno alle reazioni scomposte che la decisione in commento ha provocato da parte della Presidente del consiglio e di diversi esponenti della maggioranza; reazioni che hanno condotto la Prima Presidente della Corte di cassazione ad emettere un lapidario comunicato stampa, ove si afferma che “le decisioni della Corte di cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”.

Ancora una volta, un provvedimento giudiziario adottato in materia di immigrazione e dal contenuto sgradito al Governo ha provocato un attacco durissimo nei confronti della magistratura: con la peculiarità che questa volta ad essere insultati non sono dei giudici di merito, ma addirittura le Sezioni unite della Cassazione. Ogni volta che la magistratura ricorda che l’azione di governo deve muoversi entro i limiti tracciati dal diritto (interno ed internazionale) e dal rispetto dei diritti fondamentali, le reazioni dei più autorevoli esponenti del Governo giungono puntuali ad attaccare con veemenza i magistrati accusati di fare politica. L’opinione pubblica si sta purtroppo ormai assuefacendo a questi attacchi, ma il più alto magistrato del nostro Paese in maniera ineccepibile ci ricorda quanto essi siano pericolosi, minando alle fondamenta i principi della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura, senza i quali una democrazia costituzionale non può dirsi tale.

 

 

 

[1] Per una ricostruzione di tali vicende, e per i relativi riferimenti in dottrina, sia consentito rinviare a Masera, Immunità della politica e diritti fondamentali – I limiti all’irresponsabilità penale dei ministri, Torino, 2020.

[2] E’ la tesi sviluppata in Masera, Immunità, cit.

[3] Per i riferimenti di tale dibattito, cfr. Masera, Immunità, cit., p. 72 ss.

[4] In questo senso Masera, Immunità, cit., p. 170 s.: “Al fine precipuo di garantire alle vittime almeno il diritto al risarcimento del danno, ci pare preferibile escludere la qualificazione dell’esimente come causa di giustificazione, che condurrebbe a ritenere il fatto compiuto dal ministro come lecito ai sensi dell’intero ordinamento giuridico. Di fronte, come visto sopra, ad un quadro normativo non univoco, in cui comunque prevalgono gli elementi testuali a favore della qualificazione come condizione di procedibilità, proprio l’argomento dell’importanza di riconoscere alle vittime la possibilità di fare azione in sede civile anche di fronte ad una delibera parlamentare che neghi l’autorizzazione a procedere ci pare in grado di orientare l’interprete verso l’esclusione della qualificazione che tale possibilità conduce a negare. Che poi si tratti di una vera e propria condizione di procedibilità, sia pure sui generis per le inedite peculiarità normative che la contraddistinguono rispetto alla disciplina ordinaria di tale istituto, o sia invece preferibile collocarla nel vasto contenitore delle immunità, ci pare questione in buona sostanza classificatoria, che poco incide sulla sostanza dei problemi, una volta chiarita la rilevanza dell’esimente nel solo ambito del processo penale”.