Trib. Palermo, ud. 20 dicembre 2024, dep. 18 giugno 2025, imp. Salvini
*Contributo pubblicato nel fascicolo 7-8/2025.
1. Con la sentenza depositata il 18 giugno 2025 il Tribunale di Palermo ha assolto il Sen. Matteo Salvini dalle accuse di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti d’ufficio “perché il fatto non sussiste”. Il procedimento trae origine da una vicenda risalente all’estate 2019, quando l’imputato, all’epoca Ministro dell’Interno del primo Governo Conte, non concedeva un Place of Safety (d’ora in avanti, PoS) in un porto italiano a decine di migranti tratti in salvo in acque internazionali dall’imbarcazione Open Arms.
Allargando rapidamente lo sguardo al contesto storico in cui si colloca l’accaduto, giova ricordare come il caso Open Arms rappresenti il terzo, dopo i casi Diciotti e Gregoretti, in cui l’allora Ministro Salvini è stato accusato di sequestro di persona in relazione alla mancata o tardiva concessione di un PoS per lo sbarco di migranti; alla conta si potrebbe inoltre aggiungere il caso Alan Kurdi, nel quale tuttavia erano venuti in rilievo i soli reati di omissione di atti d’ufficio e di omissione di soccorso in mare[1]. Nel complesso, si tratta di vicende collegate dal medesimo e controverso approccio nei confronti dell’attività di search and rescue svolta dalle ONG, teso a considerarla, più o meno esplicitamente, una minaccia per l’integrità delle frontiere marittime italiane; approccio peraltro coltivato anche durante i Governi successivi, da ultimo attraverso il c.d. decreto Piantedosi (sul quale si è recentemente pronunciata la Consulta, con una sentenza interpretativa di rigetto che ne ha significativamente ristretto l’ambito di applicazione[2]).
2. Questi, in estrema sintesi, i fatti all’origine della vicenda (per una più dettagliata ricostruzione si rinvia alle pp. 141-156 della motivazione).
Tra l’1 e il 9 agosto 2019 la nave Open Arms, al servizio dell’ONG Proactiva Open Arms, effettuava tre operazioni di soccorso di migranti trovati in distress nel Mediterraneo centrale, traendo in salvo in totale 163 persone, inclusi bambini e donne in stato di gravidanza. Tutte le operazioni avvenivano in acque internazionali, nel primo caso ricadenti nella zona di search and rescue (d’ora in avanti, SAR) sotto la responsabilità libica, nel secondo e nel terzo caso nella zona SAR maltese. Il comandante della Open Arms chiedeva l’assegnazione di un PoS per lo sbarco dei naufraghi, dapprima alle autorità maltesi, quindi anche alle autorità italiane, senza tuttavia ottenerlo. Nello stesso giorno in cui veniva portato a termine il primo soccorso, il Ministro dell’Interno italiano esercitava i poteri di interdizione navale di cui all’art. 11, comma 1-ter t.u. imm. (introdotto poche settimane prima dal c.d. decreto sicurezza-bis)[3], emanando un decreto con il quale vietava alla Open Arms l’ingresso, il transito o la sosta nelle acque territoriali italiane.
Nei giorni successivi, al netto di alcune evacuazioni mediche di casi urgenti, invano veniva reiterata la richiesta di PoS, accompagnata dall’invito a tutti gli Stati coinvolti, inclusa la Spagna in quanto Stato di bandiera della Open Arms, a trovare urgentemente la soluzione per la tutela dei naufraghi. Quando, il 14 agosto, il Presidente del TAR Lazio sospendeva l’efficacia del decreto interministeriale recante il divieto di ingresso nelle acque italiane, la Open Arms faceva rotta verso Lampedusa, chiedendo al Comando generale delle capitanerie di porto l’autorizzazione a ripararsi dal maltempo nei pressi dell’isola; richiesta che veniva accolta il 15 agosto, ma con la precisazione che restava fermo il divieto di sbarco.
Malgrado Open Arms si trovasse ormai a soli 800 m dalla costa italiana, la vicenda entrava in una situazione di stallo, durante la quale si assisteva a un progressivo deterioramento delle condizioni psico-fisiche delle persone a bordo (alcune delle quali si gettavano in mare nel disperato tentativo di raggiungere la terraferma), certificato da rapporti medici e psicologici redatti nel corso di ispezioni della nave.
Il 17 agosto, anche a seguito delle sollecitazioni del Presidente del Consiglio, venivano fatti sbarcare i soli minorenni. Nei giorni seguenti falliva una trattativa finalizzata a re-indirizzare Open Arms verso porti spagnoli. La situazione si sbloccava definitivamente solo il 20 agosto, quando la Procura della Repubblica di Agrigento disponeva il sequestro preventivo in via d’urgenza della nave, nell’ambito di procedimento a carico di ignoti per il reato di rifiuto di atti d’ufficio, con conseguente sbarco dei migranti rimasti a bordo, diciotto giorni dopo il primo salvataggio.
3. In relazione all’arco temporale compreso tra il 14 e il 20 agosto 2019, nel novembre dello stesso anno venivano formulate nei confronti del sen. Salvini (il quale nel frattempo non rivestiva più la carica di Ministro dell’Interno, essendo cambiata la maggioranza al Governo) le accuse di sequestro di persona aggravato (art. 605, commi 1, 2 n. 3, e 3 c.p.: fatto commesso dal pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni; vittime minorenni) e rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, co. 1 c.p.). Il Collegio per i reati ministeriali, espletate le indagini, rimetteva gli atti al Senato ai sensi degli artt. 8 e 9 della legge costituzionale n. 1/1989, ottenendo l’autorizzazione a procedere il 30 luglio 2020.
4. Veniamo, dunque, alle motivazioni della sentenza di assoluzione. In via preliminare il Tribunale esclude che la scelta di non concedere il PoS fosse inquadrabile nella categoria degli “atti politici” non sindacabili, limitandosi sul punto a richiamare la posizione espressa dal collegio per i reati ministeriali, che aveva ricondotto quella scelta all’esercizio di un potere provvedimentale, come tale soggetto al sindacato giurisdizionale al pari di ogni altro atto amministrativo.
Nel merito, la sentenza perviene all’assoluzione dell’imputato sulla scorta di argomenti di carattere essenzialmente giuridico, e in particolare all’esito di un articolato ragionamento teso nel suo insieme a dimostrare che, nel caso di specie, il Ministro dell’Interno pro tempore, divenuto in via generale competente per l’assegnazione di PoS in materia SAR proprio a partire dal 2019[4], non fosse gravato dall’obbligo di concedere un PoS alla nave Open Arms. È infatti alla luce di tale conclusione che viene negata la sussistenza di un’omissione giuridicamente rilevante tanto sub specie di rifiuto di atto d’ufficio, quanto sub specie di mancata autorizzazione allo sbarco a sua volta produttrice di un’illegittima privazione della libertà personale dei naufraghi rimasti a bordo.
Sullo sfondo di tale conclusione, il collegio palermitano ribadisce a più riprese la propria convinzione che il quadro normativo vigente non offra risposte soddisfacenti per la gestione di situazioni come quella di specie, e ciò in quanto composto da norme consuetudinarie e pattizie non concepite per il contesto venutosi a creare nel Mediterraneo centrale durante l’ultimo decennio, con l’intensificarsi dei flussi irregolari e delle attività soccorritrici delle ONG. Su questa premessa viene formulato l’auspicio di un intervento normativo che riorganizzi la materia tenendo conto delle sopravvenute esigenze di carattere organizzativo e umanitario. A proposito di queste considerazioni, a nostro avviso discutibili, si tornerà nelle conclusioni, mentre adesso occorre soffermarsi sugli argomenti alla luce dei quali la pronuncia scarta le ricostruzioni normative formulate dal pubblico ministero a sostegno della sussistenza dell’obbligo di concedere un PoS in capo al Ministro dell’Interno pro tempore.
4.1. La tesi dello Stato di primo contatto. Essendo pacifico che nessuno dei tre interventi di soccorso era avvenuto in zona SAR italiana – circostanza che, ai sensi della Convenzione di Amburgo (nota anche come Convenzione SAR)[5] – avrebbe radicato la responsabilità primaria del coordinamento e dello sbarco su Roma, ad avviso del P.M. l’Italia era nondimeno gravata dell’obbligo di concedere un PoS in quanto Stato di “primo contatto” con la nave soccorritrice. Tanto in virtù delle Linee guida dell’International Maritime Organisation sul trattamento delle persone salvate in mare (d’ora in avanti, Linee guida IMO), dalle quali si evincerebbe, sempre secondo l’accusa, che la responsabilità del coordinamento rimane in capo allo Stato di primo contatto finché non viene assunta dallo Stato titolare della zona SAR dove è avvenuto il soccorso, o da altro Stato[6].
Il Tribunale, oltre a mostrarsi scettico in ordine all’interpretazione delle Linee guida nel senso prospettato dall’accusa[7], ritiene comunque assorbente la considerazione secondo cui l’Italia non poteva considerarsi Stato “di primo contatto”: né con riferimento al primo soccorso, che era stato comunicato alla Libia e poi a seguire a Spagna e Malta; né con riferimento agli altri due, comunicati in prima battuta soltanto a Malta e Spagna. A proposito del primo intervento, e alla circostanza che l’Italia risultasse in copia conoscenza alla e-mail inviata alla Libia, il Tribunale ritiene che il “primo contatto” consiste non già in una “mera notizia” delle operazioni in corso, bensì in una “manifesta istanza di assistenza”, e tale non può essere la mera trasmissione in copia di un messaggio indirizzato ad altri.
I giudici palermitani aggiungono che la prima domanda di PoS all’Italia arrivava nella tarda sera del 2 agosto, dopo il rifiuto di Malta di coordinare il secondo soccorso (sull’assunto che lo stesso non si fosse in realtà svolto nella sua zona SAR); e osservano altresì che tale prima richiesta “poggiava soltanto sulla vicinanza geografica dell’isola italiana di Lampedusa rispetto alla posizione della nave, cioè su una circostanza di fatto inidonea a ribaltare l’ordine di responsabilità tracciato dalle Convenzioni”. Alla luce di tale ricostruzione in punto di fatto e di diritto, la sentenza conclude nel senso che la qualifica di Stato di “primo contatto” doveva riconoscersi, piuttosto, in capo alla Spagna, conclusione ritenuta suffragata dalla risposta positiva di Madrid alla richiesta di un PoS, sia pur dopo diversi giorni; e, successivamente, dalla manifestata disponibilità a inviare una propria nave militare per recuperare i naufraghi.
4.2. La tesi del quarto evento SAR. Secondo l’impostazione del P.M., successivamente alle tre operazioni di soccorso si sarebbe verificato un quarto evento SAR, allorché il peggioramento della condizioni metereologiche aveva costretto Open Arms, che oltretutto si trovava in condizioni di sovraccarico, a chiedere riparo nei pressi di Lampedusa, allo scopo di fronteggiare una situazione di oggettivo pericolo, esplicitamente riconosciuta anche dalla Guardia costiera italiana. In questo frangente temporale, sempre secondo l’accusa, si sarebbe indubbiamente radicata la responsabilità italiana del soccorso di tutti i passeggeri della Open Arms, in quanto Stato titolare della corrispondente zona SAR.
Ad avviso del collegio, tuttavia, la descritta situazione non configurava un’ipotesi di distress, bensì “una comune situazione di maltempo, che non aveva cagionato nessun concreto pericolo di vita dei passeggeri” (p. 215); senza contare che il peggioramento delle condizioni era avvenuto quando Open Arms si trovava ancora in zona SAR maltese e che la richiesta di ridosso a Lampedusa era giunto solo a fronte del diniego di Malta di concederlo nei pressi della propria costa.
4.3. La tesi della spontanea assunzione di responsabilità. Il Tribunale nega altresì che lo Stato italiano avesse “spontaneamente” assunto la responsabilità del soccorso mediante l’effettuazione di diverse evacuazioni mediche di naufraghi in pericolo di vita (“Medevac”), e/o mediante la concessione del provvisorio riparo dal maltempo. Il riferimento normativo di tale ricostruzione accusatoria alternativa era costituito, nuovamente, dalle Linee guida IMO, nella parte in cui riconoscono che la responsabilità può essere assunta, in via residuale, da “altro Stato” (punto n. 6.7.)
Quanto alle evacuazioni mediche, si tratta ad avviso del collegio palermitano di operazioni aventi finalità e presupposti diversi dalle operazioni SAR, deliberate ed eseguite senza interferenze ministeriali proprio perché fondate su ragioni esclusivamente mediche. Diversamente opinando, ossia ritenendo che l’esecuzione delle Medevac possa comportare un automatico radicamento della responsabilità SAR, vi sarebbe il pericolo di “burocratizzare” l’intervento dei sanitari, rendendolo perciò meno tempestivo ed efficace.
Quanto, poi, alla concessione del riparo in acque interne, la sentenza ricorda che il Centro di coordinamento italiano aveva espressamente chiarito che restava fermo il divieto di entrare nel porto di Lampedusa, e afferma che tanto bastasse per ribadire inequivocabilmente l’assenza di volontà, in capo alle autorità italiane, di assumersi la responsabilità del soccorso. A diverse conclusioni – chiosa infine il collegio –non si potrebbe nemmeno pervenire, contrariamente a quanto sostenuto dall’accusa, alla luce del disposto di cui all’art. 10-ter, co. 1 t.u. imm., che prescrive l’accompagnamento nei centri “hotspot” degli stranieri giunti nel territorio nazionale a seguito di operazioni di soccorso in mare, trattandosi di disposizione che “non si occupa della procedura di concessione del place of safety”, bensì di “fornire una (così Cass. civ., sez. I, sent. n. 5797/2023) ‘base legale’ alla forma di restrizione della libertà personale patita dai migranti appena sbarcati in Italia all’interno dei ‘punti di crisi’” (p. 222).
4.4. La tesi del principio di cooperazione tra Stati. L’accusa aveva altresì valorizzato la duplice circostanza che lo Stato italiano fosse tra quelli comunque contattati da Open Arms, e che al contempo gli Stati sui quali incombeva, in via primaria, l’obbligo di concedere un PoS, fossero rimasti inerti: in queste condizioni, sarebbe stato il principio generale di cooperazione che innerva il diritto internazionale del mare, avente fondamento normativo nella Convenzione SAR e nelle Linee guida IMO, a radicare (anche) in capo all’Italia l’obbligo di garantire lo sbarco dei naufraghi in tempi ragionevoli.
Il Tribunale scarta questa ricostruzione osservando che “il suddetto principio di solidarietà, per quanto sicuramente apprezzabile in chiave umanitaria, non risulta adeguatamente traslato nelle disposizioni delle convenzioni internazionali, non ricavandosi dalle stesse precisi obblighi di cooperazione tra gli stati, quanto piuttosto mere esortazioni a raggiungere un sistema di cooperazione e di coordinazione che possa garantire il salvataggio delle persone in pericolo in mare e mettere i capitani delle navi in condizioni di assicurarlo, sgravandoli il prima possibile dal ‘carico’” (p. 226). A sostegno di tale conclusione il collegio riporta una serie di disposizioni rinvenibili nelle Linee guida IMO, sottolineando la loro formulazione mediante il modale “should”, anziché “shall”, scelta alla quale ricollega la conclusione che le stesse configurino mere raccomandazioni, come tali prive dell’efficacia vincolante dell’obbligo giuridico, e in ogni caso inidonee a soddisfare le esigenze di tassatività e precisione richieste dal principio di legalità di cui all’art. 25 Cost.
4.5. L’obbligo di disporre lo sbarco dei minori non accompagnati. Escluso, per le ragioni sin qui riassunte, che sull’imputato gravasse l’obbligo di concedere un PoS alla Open Arms, il Tribunale riconosce, per converso, che, a partire dal momento in cui la nave soccorritrice era entrata in acque nazionali, il 15 agosto, sussisteva a carico della autorità l’obbligo di accogliere i minori non accompagnati in strutture idonee, ai sensi della legge n. 47/2017 (c.d. legge Zampa), e del d.lgs. 142/2015, attuativo della c.d. direttiva accoglienza. L’adempimento di tale obbligo comportava che, indipendentemente dalla concessione del PoS, le autorità fossero chiamate a disporre lo sbarco dei minori non accompagnati in tempi ragionevoli.
Il collegio nega, tuttavia, che da queste premesse possa pervenirsi all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Ciò, anzitutto, in ragione del quadro normativo incerto in ordine alla sussistenza di una specifica competenza in capo al Ministro dell’Interno ad autorizzare lo sbarco e l’accoglienza dei minori sul suolo italiano (tanto è vero che, nel caso di specie, non era stato nemmeno possibile ricostruire con certezza quale autorità l’avesse concretamente disposto il 17 agosto). D’altra parte, in secondo luogo, non vi erano prove che l’imputato avesse posto in essere condotte tese ad ostacolare lo sbarco dei minori soccorsi dalla Open Arms. Infine, ad avviso del collegio lo sbarco dei minori era avvenuto in tempi ragionevoli, ancorché non immediati, ossia nelle 24 ore successive al momento in cui la Open Arms aveva trasmesso alle autorità italiane l’elenco recante i nomi dei minori presenti a bordo.
5. Per mere ragioni di completezza, stante il carattere assorbente esplicitamente riconosciuto dal collegio alle motivazioni sin qui richiamate, la sentenza prende in esame, nelle ultime pagine, alcune ulteriori questioni emerse nel corso del procedimento. Sul versante degli argomenti difensivi vengono affrontati: la possibilità, esclusa dal collegio, di considerare la Open Arms alla stregua di PoS temporaneo (p. 254 ss.); la giustificabilità, parimenti esclusa, del ritardo dello sbarco con l’esigenza di provvedere alla preventiva distribuzione dei naufraghi-migranti tra gli Stati europei (p. 258 s.); la legittimità del decreto interministeriale dell’1 agosto recante il divieto di ingresso nelle acque nazionali, anch’essa giudicata quanto meno discutibile in ragione dell’automatismo con cui il Ministero aveva assegnato carattere “non inoffensivo” al passaggio di un’imbarcazione straniera (p. 261-266). Sul versante degli argomenti accusatori, infine, viene esclusa la possibilità di far discendere l’obbligo di concessione del PoS dal divieto di refoulement (p. 259 s.).
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6. Le motivazioni rese dal collegio palermitano prestano al fianco ad alcune considerazioni critiche.
Qualche anno fa, in un breve contributo scritto insieme a un’autorevole studiosa di diritto internazionale a proposito del caso Alan Kurdi[8] avevamo avuto occasione di evidenziare che il quadro normativo internazionale sui soccorsi in mare è molto meno lacunoso di quanto possa apparire a prima lettura; e che dallo stesso si possono ricavare, attraverso gli ordinari criteri ermeneutici, indicazioni vincolanti per le autorità statali anche rispetto alle situazioni caratterizzate da maggiore complessità. Rinviando a quel contributo per ulteriori dettagli, nel prosieguo ci limiteremo a richiamarne i passaggi che riteniamo più significativi nella prospettiva di offrire alcuni spunti di riflessione sulla sentenza qui annotata.
7. Giova prendere le mosse dalla suggestiva affermazione, che affiora in diversi passaggi delle motivazioni, secondo cui il diritto internazionale dei soccorsi in mare è stato concepito e si è sviluppato per disciplinare situazioni diverse da quelle venutesi a creare nel Mediterraneo centrale nell’ultimo decennio, da quando cioè alcune organizzazioni umanitarie svolgono stabilmente attività di ricerca e soccorso di persone migranti che affrontano la traversata in condizioni di altissimo rischio. È invero sullo sfondo di tale constatazione che il Tribunale sviluppa un percorso argomentativo il cui sbocco – come visto – è la negazione dell’obbligo di concedere un PoS in capo al Ministro dell’Interno italiano. Al riguardo, tuttavia, si possono svolgere alcune considerazioni suscettibili di condurre a conclusioni di segno diverso.
È chiaro, e per certi aspetti scontato, che consuetudini e fonti pattizie centenarie, come quelle in materia di search and rescue, non sono state concepite avendo in mente l’attuale contesto delle migrazioni via mare verso l’Europa. Basti pensare, a titolo d’esempio, che la prima Convenzione SOLAS fu adottata oltre un secolo fa, nel 1914, in risposta al naufragio del Titanic. Occorre tuttavia ricordare che, come ogni testo normativo, anche le convenzioni in esame devono essere interpretate in chiave teleologica, dimodoché le loro finalità – ossia la salvaguardia della vita in mare, che notoriamente include lo sbarco di naufraghi in tempi ragionevoli – possano essere soddisfatte anche all’interno di una mutata cornice fattuale.
Inoltre, e soprattutto, non si può trascurare che gli emendamenti apportati nel 2004 alle Convenzioni SAR e SOLAS, così come le coeve Linee Guida IMO, sono stati negoziati all’indomani di una vicenda – il caso Tampa – che presentava molti degli elementi che oggi ritroviamo nel Mediterraneo. Nell’estate del 2001 la nave cargo Tampa, battente bandiera norvegese, soccorreva oltre 400 persone trovate in distress in acque internazionali dell’Oceano Indiano. Si trattava, come spesso accadeva in quegli anni, di richiedenti asilo, principalmente Hazara afghani in fuga dai talebani, che tentavano di raggiungere clandestinamente l’Australia. Per otto giorni il Governo di Canberra aveva negato la concessione di un PoS, minacciando il comandante della Tampa che in caso di trasgressione del divieto di ingresso nelle acque australiane sarebbe incorso in sanzioni ai sensi della disciplina sul contrasto al traffico di migranti. La situazione si era sbloccata solo a seguito della disponibilità ad accogliere i migranti da parte di Nuova Zelanda e Nauru.
Scopo degli elementi del 2004 e delle Linee Guida IMO era proprio evitare il ripetersi di situazioni di stallo motivate da ragioni politiche, per lo più riconducibili allo status di migranti irregolari o di richiedenti asilo dei naufraghi. In quest’ottica, tenuto anche conto dell’impossibilità di determinare a priori lo Stato sul quale di volta in volta grava l’obbligo di accogliere i naufraghi, è stato introdotto un preciso obbligo di coordinamento e cooperazione tra tutti gli Stati contraenti, funzionale a garantire la conclusione dell’operazione di soccorso, ossia lo sbarco in un PoS, in tempi ragionevolmente praticabili[9]. Contestualmente, allo scopo di sbarrare la strada a qualunque tentativo di interpretazione restrittiva rationae personae delle fonti in esame, è stata estesa alla Convenzione SOLAS la precisazione, già presente nella Convenzione SAR, secondo l’obbligo di soccorso trova applicazione a prescindere dalla nazionalità, dallo status o comunque dalle circostanze in cui le persone sono state rintracciate[10].
8. Le perplessità sulla sentenza in commento riguardano, in particolare, i passaggi che negano che l’obbligo di concedere il PoS potesse derivare dall’obbligo di cooperazione interstatale (v. supra, par. 4.4.)
Errata, anzitutto, è l’affermazione secondo cui tale cooperazione sarebbe oggetto di mere raccomandazioni. Sebbene infatti le Linee Guida IMO riportate dalla sentenza siano configurate con il modale should, le poc’anzi richiamate disposizioni delle convenzioni SAR e SOLAS emendate sono inequivocabilmente formulate in termini di shall clauses, concorrendo perciò a delineare un veri e propri obblighi[11].
Trattandosi, come detto, di obblighi di cooperazione, e dunque essenzialmente di mezzi, essi non possono avere ad oggetto, in termini generali e astratti, il risultato finale della conclusione dell’operazione di soccorso. Nondimeno, è ben possibile che il loro adempimento secondo le regole della buona fede occasionalmente richieda, anche a Stati diversi da quello responsabile della zona SAR o da quello di “primo contatto”, di concedere un PoS sul proprio territorio, in particolare allorché tale soluzione sia l’unica in grado di garantire la realizzazione dell’obiettivo al quale tutti sono chiamati a contribuire, vale a dire, come visto, lo sbarco dei naufraghi in tempi ragionevoli. Diversamente opinando, tale obiettivo potrebbe essere frustrato da fattori come, ad esempio, la distanza tra il luogo del salvataggio e la costa dello Stato responsabile per l’area di ricerca e soccorso (circostanza resa possibile dall’ampiezza delle zone SAR, dell’effettuazione di plurimi salvataggi ecc.), ovvero le condizioni metereologiche (delle quali il Comandante deve necessariamente tenere conto nel decidere la rotta, a salvaguardia dell’incolumità di tutte le persone a bordo, incluso l’equipaggio). Che la determinazione del PoS non risponda a un “copione prestabilito”, ma dipenda in larga parte dalle circostanze concrete, è espressamente sancito dalle Linee Guida IMO, che così chiariscono il carattere flessibile la regola che assegna la responsabilità primaria allo Stato titolare della zona SAR[12]. Ancora, si tratta di una conclusione che la giurisprudenza italiana ha già mostrato di condividere, allorché nel caso Rackete ha riconosciuto al Comandante della nave ampi margini di discrezionalità tecnica, a fronte delle infruttuose trattative tra gli Stati, nella determinazione in via autonoma del luogo di sbarco[13].
All’interno di questa cornice normativa avrebbero verosimilmente acquisito maggiore peso alcune circostanze di fatto che, invece, sono rimaste sullo sfondo della motivazione: la vicinanza della Open Arms alle acque territoriali italiane, già dopo il secondo salvataggio; l’ingresso nelle stesse acque, autorizzato dalla Guardia costiera, per trovare riparo dalle intemperie; la significativa distanza, viceversa, delle coste spagnole, ossia dell’unico Paese che aveva concesso un PoS, concessione peraltro sopraggiunta in un momento in cui le drammatiche condizioni psico-fisiche delle persone a bordo della Open Arms lasciavano quanto meno dubitare che tale opzione fosse percorribile senza l’assunzione di rischi irragionevoli. Il convergere di tutti questi elementi delineava una situazione di fatto alla luce della quale, quanto meno a far data dal 14 agosto 2019, l’Italia appariva come il soggetto best placed per risolvere l’impasse, e in quest’ottica si potrebbe a nostro avviso affermare che, almeno nelle fasi più avanzate della vicenda, quando le condizioni a bordo erano divenute davvero insostenibili, l’obbligo di cooperazione fosse declinabile, in concreto, in termini di obbligo di concedere lo sbarco[14].
9. Laddove si riconoscesse che il Ministro dell’Interno aveva nel caso di specie l’obbligo di concedere un PoS, resterebbe da verificare, rispetto alla fattispecie di sequestro di persona, che vi fosse stata un’effettiva privazione della libertà personale dei naufraghi, circostanza sulla quale la sentenza non si sofferma. A tale proposito non si può sottacere che la situazione da cui è scaturito il caso in esame fosse sensibilmente diversa da quella oggetto dei casi Diciotti e Gregoretti, nei quali, come si ricorderà, i migranti furono trattenuti per numerosi giorni a bordo di navi militari italiane, prima di essere sbarcati sulla terraferma[15]. Almeno sulla carta, infatti, al Comandante della Open Arms non era precluso allontanarsi da Lampedusa e far rotta verso altri porti. Ci si deve allora chiedere se, stante questa possibilità, davvero si fosse verificata una privazione della libertà personale dei naufraghi – come in effetti sostenuto, oltre che evidentemente dal P.M., anche dal Tribunale dei Ministri[16] e dal Garante delle persone private della libertà personale[17] –, e non invece una mera limitazione della loro libertà di movimento, sub specie di libertà di raggiungere il suolo italiano.
Come è noto, la distinzione tra le due restrizioni in parola – privazione della libertà personale, limitazione della libertà di movimento – riveste carattere quantitativo, non qualitativo, attenendo al grado ed all’intensità della vincolo, non invece alla sua natura o alla sua essenza. Il relativo accertamento, pertanto, deve essere effettuato caso per caso, tenendo conto di una serie di elementi da valutare cumulativamente, attinenti al tipo di misura adottata, alla sua durata, ai suoi effetti ed alle modalità dell’esecuzione[18].
Accanto a situazioni che ricadono univocamente nell’una o nell’altra categoria, esistono anche ipotesi che si collocano in una zona grigia, intermedia. Il settore dell’immigrazione ne offre alcuni esempi: si pensi alle zone d’attesa negli aeroporti, quando alla persona trattenuta non viene formalmente vietato di prendere un volo per allontanarsi dal territorio[19]; o alle zone di transito presso le frontiere terrestri, che impediscono di proseguire il viaggio ma non di tornare sui propri passi[20]. Ebbene, in questi casi la giurisprudenza riconosce la sussistenza di vere e proprie privazioni di libertà personale ogniqualvolta la possibilità di allontanarsi sia astratta e teorica e non invece reale e concreta[21]. L’esistenza di un’effettiva possibilità di allontanarsi costituisce, a sua volta, un accertamento da effettuare alla luce delle circostanze di fatto di ciascuna singola vicenda. Rispetto al contesto marittimo, che qui ci occupa, non possono non venire in rilievo la distanza rispetto ad altri porti qualificabili come PoS, la disponibilità di altri Stati a concedere un PoS sul proprio territorio, le condizioni metereologiche, le condizioni psico-fisiche dei naufraghi. È questo lo schema di ragionamento al cui interno avrebbe dovuto, a nostro avviso, collocarsi il giudizio del collegio palermitano in ordine alla sussistenza di una privazione della libertà personale dei naufraghi tratti in salvo dalla Open Arms. Un giudizio il cui esito, se vediamo correttamente, avrebbe dovuto essere nel senso dell’effettiva privazione della libertà personale quanto meno a partire dal momento in cui era risultato evidente che le condizioni concrete rendevano impraticabile qualunque soluzione diversa dallo sbarco in Italia; con la conseguenza che impedire tale esito equivaleva, in quel frangente, a mantenere le persone segregate a bordo della Open Arms.
[1] Sulle menzionate vicende, cfr., ex multis, L. Masera, Immunità della politica e diritti fondamentali. I limiti all’irresponsabilità penale dei ministri, Torino, 2020; F. Cancellaro, Dagli hotspot ai “porti chiusi”: quali rimedi per la libertà “sequestrata” alla frontiera?, in Diritto penale contemporaneo – Rivista Trimestrale, 2020, n. 3, p. 428 ss.; M. Savino, M. Trimarchi, La pronuncia delle Sezioni unite sul caso Diciotti: una decisione equilibrata, in ADiM Blog, 25.3.2025; F. De Vittor, S. Zirulia, Il caso della nave Alan Kurdi: profili di diritto penale e internazionale in punto di omessa assegnazione di un porto sicuro, in Sistema penale, 5.12.2019.
[2] Si fa riferimento al d.l. 2 gennaio 2023, n. 1 (conv. con modif. dalla legge 24 febbraio 2023, n. 15), sulla cui legittimità si è di recente pronunciata C. Cost., 21 maggio 2025, n. 101.
[3] La disposizione è stata successivamente abrogata dal d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 (conv. con modif. in legge 18 dicembre 2020, n. 173), noto anche come decreto Lamorgese, che ha contestualmente introdotto un nuovo (e per molti aspetti analogo) meccanismo di presidio delle frontiere marittime, da ultimo profondamente modificato dal già richiamato decreto Piantedosi (v. nota precedente).
[4] Come riporta la sentenza (v. p. 172-175), l’avocazione al Ministro dell’Interno del potere di concedere il PoS in materia SAR, originariamente spettante al Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’Interno, è il risultato di una modifica della direttiva SOP (“procedure operative standard”) 009/15, disposta attraverso un tavolo tecnico per il contrasto dell’immigrazione irregolare via mare tenutosi il 12 febbraio 2019.
[5] Cfr. il par. 3.1.9. della Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, stipulata ad Amburgo il 27 aprile 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 3 aprile 1989, n. 147.
[6] Sul punto l’accusa richiamava, in particolare, il punto n. 6.7. delle Linee guida.
[7] Cfr. le pp. 234-239 della motivazione.
[8] F. De Vittor, S. Zirulia, Il caso della nave Alan Kurdi, cit.
[9] Conv. SOLAS (come emendata dalla risoluzione MSC 153(78) del 2004), allegato V, regola 33, par. 1-1; Convenzione SAR (come emendata dalla risoluzione MSC 155(78) del 2004), allegato, par. 3.1.9; Linee Guida IMO, punti nn. 2.5 e 6.5.
[10] È infatti previsto che l’obbligo di soccorre persone in pericolo trovi applicazione “regardless of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”. La precisazione, già presente nella Convenzione SAR (allegato, par. 2.1.10), è stata aggiunta per effetto dei citati emendamenti anche alla Conv. SOLAS (allegato V, regola 33, par. 1-1).
[11] Per un’ampia analisi sulla natura, i presupposti e i contenuti di tali obblighi di cooperazione, si rinvia a F. De Vittor, La migrazione via mare nel diritto internazionale, Editoriale Scientifica, 2023, p. 90 ss.
[12] Dopo il punto 2.5., che assegna responsabilità primaria allo Stato titolare della zona SAR, il punto 2.6. stabilisce: “Each case, however, can involve different circumstances. These amendments give the responsible Government the flexibility to address each situation on a case-by-case basis, while assuring that the masters of ships providing assistance are relieved of their responsibility within a reasonable time and with as little impact on the ship as possible”.
[13] Cfr. Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020, n. 6626, in Sistema penale, 24.2.2020.
[14] Alla stessa conclusione previene L. Masera, L’assoluzione del Ministro Salvini nel caso Open Arms: davvero non sussisteva in capo al Ministro alcun obbligo di fare sbarcare i naufraghi-migranti?, in Questione giustizia, 15.7.2025.
[15] Per un’articolata analisi delle diverse modalità di trattenimento de facto alle frontiere marittime, v. F. Cancellaro, Dagli hotspot ai “porti chiusi”, cit., 430 ss.
[16] Trib. Palermo, Collegio per i reati ministeriali, Relazione per il rilascio dell’autorizzazione a procedere, 30 gennaio 2020, p. 93 ss.
[17] In data 16 agosto 2019 il Garante delle persone private della libertà personale inviava al Ministro dell’Interno una lettera nella quale esprimeva preoccupazione “per la perdurante situazione di privazione de facto della libertà” a bordo della Open Arms (v. il Comunicato stampa).
[18] Cfr., con riguardo alla giurisprudenza di Strasburgo, che si è soffermata sulla distinzione in esame allo scopo di tracciare la linea di confine tra le garanzie previste dall’art. 2 del Protocollo n. 4 e quelle, più pregnanti, previste dall’art. 5 Cedu, F. Viganò, Art. 2 Prot. n. 4. Libertà di circolazione, in G. Ubertis, F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, 2022, p. 456 ss.
[19] C. eur. dir. uomo, 25.6.1996, Amuur c. Francia.
[20] C. eur. dir. uomo, 2.3.2021, R.R. e altri c. Ungheria.
[21] C. eur. dir. uomo, Amuur c. Francia, cit., § 38 ss.; R.R. e altri c. Ungheria, cit., § 74 ss.; nonché, sul versante UE, CGUE, Grande Camera, 14.5.2020, FMS e FNZ, cause riunite C 924/19 e C 925/19 PPU.