Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia
I primi effetti del Codice rosso sulla repressione penale della violenza domestica: uno sguardo alla giurisprudenza in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.)
1. A distanza di più di 5 anni dalla sua entrata in vigore, è bene domandarsi quale sia stato l’impatto delle novità apportate dalla legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso) sulla repressione della violenza domestica, andando a ricostruire, in particolare, gli esiti dei procedimenti per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), nei quali esse hanno avuto applicazione. A questo proposito, è stato possibile svolgere un’indagine sulle sentenze del Tribunale di Milano, pronunciate nell’anno 2022 in risposta a situazioni di violenza domestica che, a seconda del tempo dell’ultima condotta vessatoria realizzata - e quindi del momento di consumazione del reato, trattandosi di un reato abituale -, hanno visto l’applicazione della disciplina previgente o di quella successiva, introdotta dal Codice rosso[1]. Si tratta, in particolare, di 277 sentenze relative al delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, di cui oggetto di interesse sono quelle riguardanti violenze realizzate nell’ambito familiare, ai danni del partner e/o dei figli (220, pari all’80%) e quelle relative a violenze nei confronti di genitori (55)[2]. In 134 procedimenti su 275 è stata applicata la disciplina introdotta dal Codice rosso, consentendo così di realizzare un confronto immediato con le sentenze pronunciate nei restanti 141 procedimenti, alla luce della normativa previgente e quindi anche di valutare che effetti ha prodotto, in questo ambito, l’intervento a tutela delle donne vittima di violenza operato dal legislatore del 2019. Come, del resto, si può immaginare, i fatti oggetto di giudizio nei procedimenti considerati sono stati realizzati pressoché interamente da uomini (le donne sono autrici del reato solo in 10 casi)[3] e, per contro, sono soprattutto donne (313 su 400) le persone offese dal reato (quando la vittima è un uomo si tratta di figli, fratelli o padri, mai di partner).
2. Prima di soffermarci sui risultati dell’indagine è opportuno ricordare brevemente quali novità sono state introdotte dalla legge n. 69 del 2019, che aveva l’obiettivo di rendere più efficace la tutela delle vittime, dando più compiuta attuazione alla normativa sovranazionale in tema di violenza contro le donne[4]. In particolare, limitando la nostra attenzione alle novità che hanno riguardato il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), attraverso il quale la violenza domestica viene perlopiù affrontata in sede penale, si tratta soprattutto di modifiche volte all’inasprimento del trattamento sanzionatorio del reato. La cornice edittale, già molto elevata (da 2 a 6 anni di reclusione) e frutto di un intervento di pochi anni prima (la l. 119 del 2013), è stata sostituita con quella della reclusione da 3 a 7 anni; contestualmente, l’aggravante dell’aver commesso il fatto «in presenza o in danno di persona minore di anni diciotto o di persona in stato di gravidanza», che con la stessa legge del 2013 era stata introdotta nell’art. 61 n. 11-quinquies c.p. e che poteva determinare un aumento della pena fino a un terzo, conformemente alla disciplina delle circostanze aggravanti comuni, è stata riprodotta nel secondo comma dell’art. 572 c.p., configurandola come circostanza a effetto speciale, potendo aggravare la pena fino alla metà[5]. Su altro fronte, la condanna per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi è stata considerata (insieme a quella per violenza sessuale e atti persecutori) come sintomatica del bisogno di un intervento rieducativo ad hoc, per prevenire la recidiva, che è altissima in questi casi: come è stato giustamente sottolineato, «i reati di violenza di genere sono fondati su una precisa e strutturata identità culturale del loro autore che ha introiettato ‘modelli di comportamento violenti’ (così la Convenzione di Istanbul) ritenuti naturali, la cui rinuncia genera, ai suoi occhi, una perdita di ruolo e di dominio e non permette di creare rapporti paritari con il genere femminile a cui non riconosce dignità, libertà e autonomia»[6]. A questo proposito, il legislatore del 2019 ha voluto incentivare la partecipazione «a specifici percorsi di recupero presso enti o associazione che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati», rendendola innanzitutto obbligatoria ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.). Allo stesso modo, si è perseguita la medesima finalità di affrontare con strumenti adeguati il problema culturale alla base della violenza contro le donne anche all’interno degli istituti di pena: si è infatti ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 13-bis dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), prevedendo che agli autori di quei reati sia data l’opportunità di sottoporsi, nel corso della esecuzione della pena, «a un trattamento psicologico con finalità di recupero e sostegno» che sarà valorizzato al momento di una eventuale richiesta di benefici o misure alternative.
3. Tornando a questo punto ai risultati dell’indagine svolta sulle sentenze del Tribunale di Milano, va detto innanzitutto che laddove si è applicata la disciplina antecedente al 2019 la percentuale di condanne è stata del 62%, a fronte del 73% che si registra tra le sentenze emesse sulla base della nuova normativa. È difficile dare una spiegazione a questa tendenza, che potrebbe essere anche del tutto casuale: si può forse pensare che l’innalzamento delle pene dovuto al Codice rosso - unita alla maggiore difficoltà, appena richiamata, di ottenere la sospensione condizionale della pena - abbia determinato un minor ricorso al patteggiamento ‘classico’ (sotto i due anni) in sede di udienza preliminare con un conseguente aumento dei casi nei quali si è pervenuti a una condanna in sede dibattimentale. Del resto, proprio dal confronto tra l’entità delle pene inflitte prima e dopo l’entrata in vigore del Codice rosso emerge con chiarezza l’impatto della nuova disciplina: in base a quest’ultima, le pene sotto i due anni di reclusione subiscono una forte diminuzione – essendo stato il minimo editale innalzato a 3 anni di reclusione – e si registrano condanne a pene ben più elevate (Grafico n. 1)[7].
Se prima dell’entrata in vigore del Codice rosso le pene maggiormente irrogate non superavano i due anni di reclusione, arrivando a tre anni (e raramente oltre) nei soli casi più gravi, dopo l’introduzione della nuova disciplina le pene si sono alzate notevolmente: nella maggior parte dei procedimenti (50 su 68) esse superano i due anni di reclusione, aumentando sensibilmente nelle situazioni più complesse, nelle quali si arriva a 4 anni di reclusione e anche oltre. Sono queste situazioni in cui la violenza fisica è frequente ed efferata (strangolamenti, pugni, calci) e l’autore fa abitualmente uso di alcol o sostanze stupefacenti. L’aumento della pena inflitta ha avuto dei riflessi anche sull’applicazione della sospensione condizionale della pena: nei procedimenti non interessati dal Codice rosso la sospensione condizionale della pena è stata applicata in 34 casi su 50 (pari al 68%), mentre nelle decisioni assunte applicando le novità apportate dalla legge 69/2019, il beneficio è stato concesso in misura più limitata (in 10 casi su 18, pari al 55%). Ciò è dipeso, verosimilmente, sia dall’innalzamento del minimo edittale della pena prevista per il reato, sia dalla circostanza che, come si è anticipato, a seguito del Codice rosso la sospensione della pena deve essere subordinata alla partecipazione, da parte del condannato, a specifici corsi di recupero (art. 165, co. 5, c.p.). Va tuttavia segnalato che questa condizione non sembra essere stata oggetto di particolare considerazione da parte dei giudici: in 4 casi la sospensione condizionale è stata concessa richiamandosi, in maniera generica, il dettato normativo, senza indicare il tipo di percorso da seguire; in 2 casi l’imputato è stato obbligato a intraprendere un percorso di recupero, rispettivamente, dall’alcoldipendenza e dalla tossicodipendenza[8]; in un solo caso, infine, si è richiesto l’impegno in un percorso specifico per autori di violenza di genere. In quest’ultimo procedimento, la concessione della sospensione della pena è stata, in particolare, subordinata «alla partecipazione a specifici corsi di recupero per soggetti maltrattanti presso il Presidio Criminologico Territoriale di Settore Sicurezza del Comune di Milano»[9]. L’innalzamento dell’entità delle pene e il minor ricorso alla sospensione condizionale hanno inevitabilmente determinato un maggiore ingresso in carcere degli autori di violenza domestica. Benché, infatti, una pena sotto i 4 anni di reclusione possa essere eseguita in misura alternativa, in questi casi può essere più difficile per il condannato avere i requisiti per accedervi: basti pensare alla necessità di avere un domicilio ‘idoneo’, necessariamente non coincidente con quello della persona offesa. A ciò si aggiunga che se il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi è aggravato dall’essere stato commesso in presenza di figli minori - come nella maggior parte dei casi analizzati (circa l’80% del totale) -, il condannato non può contare sulla sospensione dell’ordine di esecuzione, anche laddove vi siano i presupposti per l’accesso a una misura alternativa alla detenzione (art. 656, co. 9, c.p.p.). Dovrà quindi fare ingresso in un istituto penitenziario e potrà chiedere la misura alternativa solo dopo un periodo - più o meno lungo - di osservazione da parte dell’equipe trattamentale, che potrà arrivare a conclusioni più rapide e positive se il condannato avrà seguito (rectius: avrà avuto l’opportunità di seguire) un percorso di recupero all’interno del carcere.
5. L’obiettivo delle modifiche legislative del 2019 sembra dunque essere quello di incoraggiare l’autore di violenza domestica a intraprendere programmi di recupero specificamente volti a modificare attitudini violente di cui può non avere consapevolezza, incidendo così sul problema culturale e sociale che contraddistingue la violenza contro le donne. Tale intento, tuttavia, risulta in gran parte depotenziato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia) che nell’introdurre le pene sostitutive non ha tenuto conto della peculiarità dei reati a connotazione di genere e, di fatto, ha permesso l’applicazione di tali sanzioni anche in procedimenti per maltrattamenti in famiglia, indipendentemente dalla partecipazione del condannato a specifici percorsi di recupero[10]. Non resta che augurarsi che i giudici - qualora ritengano possibile applicare una pena sostitutiva al condannato per reati connessi alla violenza di genere - prescrivano comunque la partecipazione a specifici percorsi di recupero per non vanificare le scelte legislative del Codice rosso, volte a interrompere la trasmissione, di generazione in generazione, di comportamenti violenti e irrispettosi nei confronti delle donne.
[1] Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità in caso di successione di leggi penali nel tempo, la disposizione applicabile, se il reato è abituale, è quella vigente al momento della «cessazione dell’abitualità» (cfr., tra le tante, Cass. n. 2979 del 25 gennaio 2021). Si segnala, tuttavia, una recente sentenza della Cassazione che, discostandosi da tale orientamento, esclude l’applicabilità della norma sfavorevole sopravvenuta quando «nel vigore della nuova legge si realizzi un segmento insignificante di abitualità, un singolo episodio, magari penalmente neutro, che non aggiunge alcunché» e che, tuttavia, avrebbe altrimenti «l’effetto di trascinare con sé e verso un trattamento punitivo più severo l’intera condotta abituale compiuta in precedenza, rispetto alla quale, essendosi il reato già perfezionato, era già sorto il diritto ad essere giudicato applicando la pregressa norma più favorevole» (cfr. Cass. n. 28218 del 28 giugno 2023). In proposito: G. Ponteprino, Maltrattamenti contro familiari e conviventi: la rilevanza penale della “violenza economica”, in questa Rivista, 22 gennaio 2025.
[2] Sono state escluse due pronunce che, pur avendo ad oggetto il reato di cui all’art. 572 c.p., riguardano situazioni diverse, trattandosi di maltrattamenti commessi, in un caso, all’interno di una scuola dell’infanzia e, nell’altro, in una residenza per anziani.
[3] In 7 di questi 10 casi il reato è stato commesso ai danni dei genitori in situazioni di disagio legate a una dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti; negli altri tre casi – aventi come vittima una partner donna oppure i figli – il procedimento si è concluso con un’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’. Ciò che colpisce è che nei due casi in cui i maltrattamenti sono stati realizzati nei confronti dei figli il contesto è simile: si tratta di donne rimaste sole e senza mezzi economici, dopo una separazione difficile a seguito, in un caso, di un rapporto «molto conflittuale» e, nell’altro, «di una penosa vicenda familiare» costellata dai tanti tradimenti del marito.
[4] Il riferimento è alla Convenzione della Nazioni Unite del 1979 per l’Eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul) e alla Direttiva dell’Unione europea n. 29 del 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
[5] Per completezza si segnala che lo stesso aumento di pena è stato previsto per il caso in cui il reato sia commesso in presenza o in danno di «persona con disabilità” e che è stata introdotta una nuova previsione secondo la quale «Il minore di anni 18 che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato» (ultimo comma all’art. 572 c.p.); per la diversa rilevanza che assume la presenza del minore ai maltrattamenti subiti dalla madre cfr. per tutti P. Di Nicola Travaglini, F. Menditto, Il nuovo codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere e ai danni delle donne nel diritto sovranazionale e interno, Giuffrè, 2024, p. 205.
[6] Cfr. P. Di Nicola Travaglini, F. Menditto, Il nuovo codice rosso, cit., p. 105.
[7] Ai fini della rappresentazione grafica sono stati esclusi i casi in cui il reato di maltrattamenti in famiglia concorreva con uno più grave, come il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), che avrebbe influenzato la commisurazione della pena, modificando la cornice edittale di partenza.
[8] È peraltro frequente l’esclusione dai programmi per maltrattanti di soggetti con problemi di dipendenze: cfr. sul punto P. Demurtas, A. Taddei, Centri per uomini autori di violenza. I dati della seconda indagine nazionale, novembre 2023, in www.istat.it, p. 3.
[9] Si tratta di un programma rivolto ad autori di reati sessuali e di maltrattamenti gestito nell’ambito del CIPM, Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, fondato a Milano nel 1995, di cui è presidente Paolo Giulini, criminologo responsabile anche dell’Unità trattamento intensificato (UTI) per autori di reati sessuali all’interno della II Casa d Reclusione di Milano Bollate.
[10] Cfr. S. Cazzola, Le nuove pene sostitutive e il contrasto alla violenza di genere, in questa Rivista, 28 novembre 2023.