Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
La nuova disciplina della sospensione condizionale della pena ex art. 165 co. 5 c.p.: prime indicazioni operative (di Elena Biaggioni)
1. La Procura della Repubblica e il Tribunale di Bologna, unitamente alla Sezione GIP-GUP, hanno elaborato e reso pubbliche delle indicazioni operative per l’attuazione nell’ambito territoriale di propria competenza del disposto dell’art. 165 co. 5 c.p. – introdotto con la l. 69/2019, c.d. Codice Rosso – che subordina la sospensione condizionale della pena alla partecipazione a percorsi di recupero per gli autori di determinati reati[1]. A una prima versione del marzo 2021 è seguito un aggiornamento datato 30 luglio 2021 che ha apportato ulteriori importanti specificazioni. Queste indicazioni operative, una sorta di “linee guida” per l’attuazione della novella normativa, sono particolarmente interessanti vista l’autorità e autorevolezza dei redattori, la novità dell’istituto, l’incertezza anche normativa sui “percorsi di recupero” indicati, la probabile alta frequenza applicativa e le possibili criticità.
2. È la stessa Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (Convenzione di Istanbul) ratificata nel 2013 a prevedere l’istituzione di “programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali” (art. 16). La Convenzione si limita tuttavia a promuoverne il ricorso, senza entrare nel dettaglio circa modalità organizzative e/o di invio di maltrattanti da parte dell’autorità giudiziaria[2].
3. Va anzitutto chiarito che nella legge non vi è alcuna definizione di questi percorsi, nella realtà solitamente denominati percorsi di recupero per maltrattanti (perpetrator)[3]; essi seguono modelli e orientamenti diversi, spesso dipendenti dalla tipologia di approccio psicologico, filosofico-religioso o socioculturale al quale si ispirano gli enti pubblici o del privato sociale che in un determinato contesto geografico ne hanno promosso la creazione. In Italia l’offerta di programmi di recupero è molteplice ed eterogenea. L’ISTAT nel 2017 ha dedicato loro un’indagine specifica.
4. L’art. 165 co. 5 c.p. parla espressamente di “enti o associazioni” presso i quali il programma dovrebbe essere frequentato ed invero tali programmi sono proposti sia da soggetti istituzionali che da rappresentanti del terzo settore. Molti afferiscono alla rete RELIVE, altri – come l’Associazione Senzaviolenza di Bologna – operano autonomamente, altri ancora sono offerti dai Comuni o dai consultori. La rete RELIVE ha adottato proprie linee guida sugli standard minimi di operatività dei percorsi, a partire dalle indicazioni del Consiglio d’Europa, e dagli standard promossi dalla Rete europea WWP cui afferisce. In ogni caso, associazioni ed enti solitamente esplicitano chiaramente il proprio modello operativo e le linee guida alle quali si ispirano. Ad oggi non esistono tuttavia linee guida nazionali o normative regolamentari specifiche relative a questi percorsi. È noto che la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio sta lavorando con l’obiettivo di una loro rapida adozione. Nell’attesa è indispensabile fare riferimento a fonti di soft law su base locale, come le modalità operative bolognesi qui in commento, quantomeno per raggiungere il prima possibile un certo livello di diffusione di buone prassi.
5. Entrando nel dettaglio delle “modalità operative” bolognesi, esse si compongono di nove disposizioni. Per quanto riguarda la richiesta, l’iniziativa viene posta in capo all’imputato/indagato, poiché essa è inquadrata alla stregua di un facere infungibile, quale atto personalissimo, non delegabile al difensore. L’istanza potrà essere presentata in corso di indagine, in occasione di richiesta di applicazione pena – e in questo caso trasmessa in copia anche al pubblico ministero per l’eventuale consenso – e in generale in udienza non essendo sottoposta a termini specifici. Tale disposizione sarebbe già di per sé sufficiente a escludere qualsivoglia automatismo, ma per fugare anche il minimo dubbio la disposizione nr. 2 chiarisce che, in assenza di specifica richiesta dell’imputato il beneficio non potrà essere concesso.
6. Quanto ai contenuti dell’atto, le “modalità operative” dispongono che la richiesta debba essere corredata da due specifici allegati: la copia della richiesta scritta di partecipazione ad uno specifico programma e la relativa accettazione da parte dell’ente/associazione, non essendo quest’ultima automatica. La prima versione delle linee guida richiedeva che l’interessato predisponesse un terzo allegato con la “documentazione del centro prescelto che illustri durata, contenuti e linee guida di tale percorso”. Tale indicazione, certamente non prevista dall’art. 165 co. 5 c.p., è stata eliminata e, in riferimento ai primi due allegati, è stato aggiunto l’inciso “ove possibile”. A differenza dell’ipotesi in cui l’interessato non possa allegare l’accettazione per una ragione oggettiva, indipendente dalla sua volontà (sulla quale v. infra), la circostanza che la ragione del rifiuto sia soggettiva – perché ad esempio conseguente a colloqui individuali preliminari predisposti per l’ammissione al lavoro in gruppo[4] – l’impossibilità di produrre il documento richiesto non potrebbe esser fatta valere per beneficiare comunque della sospensione.
7. Le disposizioni nr. 5 e 6 sono dedicate alla decisione del giudice. Nella sentenza deve essere indicato il percorso da realizzare con durata e contenuti precisi e dettagliati e la data entro la quale esso deve terminare: i percorsi mediamente durano circa un anno (le linee guida RELIVE esigono almeno 6 mesi) e sono organizzati con uno o due incontri alla settimana[5].
8. Il ruolo degli enti/associazioni nell’individuazione del percorso adatto al caso concreto è importantissimo, ma il baricentro della decisione non può che restare in capo al giudice. Si legge, non a caso, al punto 9 che “autorità giudiziaria giudicante e requirente si riservano ogni valutazione in ordine alla serietà e consistenza del programma di trattamento e all’affidabilità dell’ente responsabile, alla luce delle linee guida formulate in ambito europeo”. Da un lato, infatti, solo operatori e operatrici specializzati possono valutare le esigenze specifiche di ogni richiedente con appropriata valutazione del rischio, ma dall’altro lato, in assenza di indicazioni normative, si rischia di delegare una parte significativa del contenuto della sentenza a soggetti extra giudiziari. Non è possibile ignorare, d’altra parte, il rischio di un “ente/associazione shopping”, alla ricerca della proposta meno onerosa per il condannato. Le principali associazioni che lavorano oggi sul campo, qui già citate, sono pioniere, lavorano in rete e sono particolarmente attente, ma il nuovo comma 5 dell’art. 165 c.p. sta già facendo aumentare le richieste senza che vi sia stato il tempo di ampliare l’offerta. D’altra parte, nell’affine ipotesi di cui all’art. 165 co. 1 c.p., per lo svolgimento dell’attività non retribuita a favore della collettività opera la disciplina contenuta nel d.m. 26 marzo 2001 in cui sono previste e regolamentate anche le convenzioni con gli enti abilitati. È auspicabile, dunque, che si predisponga un analogo intervento per i programmi per uomini autori di violenza ai quali l’autorità giudiziaria invia i condannati.
9. Con riguardo, infine, alla verifica del corretto svolgimento del percorso, le “modalità operative”, con le disposizioni nr. 7 e 8, sopperiscono alla già più volte citata carenza di regolamentazione. Se tutto si svolgerà come c’è da auspicarsi, il giudice, una volta ricevuta e letta la relazione positiva, trasmetterà alla Procura l’estratto esecutivo di sentenza e l’organo dell’esecuzione iscriverà la sentenza a pena sospesa. Nella prima versione adottata a marzo, si prevedeva che l’ente/associazione comunicasse tempestivamente all’autorità giudiziaria l’eventuale interruzione del percorso per ragioni riferibili al soggetto condannato. Questa parte è stata integralmente modificata nella seconda versione, ponendo l’onere di documentare l’esito positivo del percorso in capo al condannato o al suo difensore. Le correzioni colgono nel segno. Il termine entro il quale adempiere è indicato in sentenza e l’eventuale interruzione del percorso non ha rilevanza prima della decorrenza dell’intero periodo. Quel che il giudice deve conoscere è se – allo scadere del termine – il percorso è stato frequentato o meno. Altrettanto comprensibile l’allocazione dell’onere di documentare l’esito positivo del percorso a chi ha interesse alla definitività complessiva della statuizione e quindi alla tempestiva iscrizione della sentenza con positivo adempimento. Vale la pena ricordare che i termini di cui all’art. 167 c.p. decorrono dall’adempimento delle condizioni imposte dal Giudice.
È inoltre espressamente prevista l’ipotesi in cui la partecipazione al percorso sia avvenuta in epoca antecedente alla sentenza: l’imputato provvederà a depositare la relativa documentazione all’autorità giudiziaria per le valutazioni conseguenti in punto di sospensione condizionale della pena.
10. Come già accaduto, le “modalità operative” sono destinate a essere modificate e corrette; altri Tribunali potrebbero disporre indicazioni ancora più dettagliate o parzialmente differenti. Certamente, nell’esperienza professionale di diversi legali nell’ultimo anno vi sono diversi casi che si discostano da queste indicazioni[6]. Altro emergerà nel tempo e porrà nuovi quesiti.
Pensiamo ad esempio al caso in cui il condannato inizi il percorso cui è subordinata la sospensione condizionale della pena e non lo porti a termine: la parte di frequenza potrà essere considerata in sede di determinazione della pena residua da scontare? Nel caso, del tutto analogo, di interruzione/revoca del beneficio subordinato alla prestazione di attività non retribuita a favore dalla collettività, la giurisprudenza ritiene che l’adempimento parziale debba essere considerato ai fini della determinazione della pena residua. Ancora: che succede se nel raggio di una trasferta in auto di due ore non vi sia un corso disponibile o comporti oneri finanziari che il condannato non può sostenere[7]? Oppure, dal punto di vista più strettamente processuale: si pensi all’ipotesi in cui nei casi previsti dall’art. 165 co. 5 c.p. il giudice conceda il beneficio senza subordinarlo alla frequentazione del percorso. Saremmo di fronte a una ipotesi di non concedibilità del beneficio per cause ostative? In caso di applicazione pena soccorre l’art. 444 co. 3 c.p.p., che impone al giudice la verifica dell’assenza di ragioni ostative e l’eventuale rigetto della richiesta, determinandosi, in caso contrario, la nullità della sentenza “nel suo insieme”[8].
11. Doverosa conclusione spetta al ruolo della persona offesa e al suo diritto di essere informata della conclusione del percorso o della sua interruzione, cui non fanno peraltro cenno né la legge né le indicazioni operative bolognesi. Il perché è chiaro: se la pena nella sua dimensione retributivo-rieducativa riguarda il rapporto tra Stato e condannato e terzi soggetti non sono ammessi, lo stesso deve valere per le vicende che riguardano la sospensione condizionale. La vittima ha comunque un ruolo importante all’interno dei percorsi, perché la loro finalità è, come ricordato dalla Convenzione di Istanbul, la prevenzione della recidiva. Tutte le linee guida dei percorsi per maltrattanti prevedono il c.d. contatto-partner, ovvero la necessità per l’ente/associazione di stabilire una linea di comunicazione con la partner attuale e/o ex del partecipante, alla quale comunicare l’inizio del percorso e qualsiasi altra informazione di cui i/le professionisti/e dell’ente siano venuti/e in possesso e che riguardi rischi immediati per la donna, oltre a valutazioni sulla recidiva. In caso di interruzione/modifica del percorso l’ente/associazione si impegna solitamente ad informare la vittima, poiché ciò è ritenuto fattore di rischio per la donna. Analogo dovere informativo per il momento non è stato posto in capo all’autorità giudiziaria, a discapito delle oggettive necessità di sicurezza della/e vittima/e. Le ipotesi previste dall’art. 90 ter c.p.p., e in generale dalla Direttiva 2012/29/UE, si riferiscono sempre e solo ai casi di evasione o scarcerazione.
[1] Il testo novellato dell’art. 165 co. 5 c.p. dispone che: “nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis, nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”.
[2] La prima menzione di questi percorsi da parte del legislatore italiano in materia penale risale al 2013, con l’introduzione dell’art. 282 quater c.p.p., che prevede che la sottoposizione volontaria ad un “programma di prevenzione della violenza” venga considerata ai fini della valutazione sulla decisione circa la sostituzione o la revoca di una misura cautelare ai sensi dell’art. 299 c.p.p. Mancano dati empirici, ma l’esperienza pratica (anche personale) non offre riscontri significativi sull’applicazione di quella disposizione, forse perché, afferendo la norma alla fase cautelare, quando l’indagato ancora – legittimamente – si dichiara estraneo alle accuse o sta impostando la linea difensiva, l’eventuale l’adesione a un percorso di recupero potrebbe essere vista dall’interessato come ammissione di responsabilità.
[3] Vale la pena chiarire un aspetto importante: nella seconda versione delle modalità operative, al punto 3, si legge “corso di recupero presso uno dei centri antiviolenza esistenti”, un evidente fraintendimento o errore. I Centri Antiviolenza non svolgono corsi di recupero per i maltrattanti, bensì “solo” assistenza alle vittime di violenza maschile. Per la più recente indagine e mappatura dei Centri Antiviolenza si veda la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere.
[4] Anche se il punto non è davvero esplicitato nelle linee guida RELIVE, emerge dalla lettura della parte riguardante “Approcci e atteggiamenti nel lavoro diretto con uomini autori di violenza”.
[5] Nel senso che il giudice deve indicare in sentenza anche l’inizio del percorso, oltre alla durata e all’ente e chiedere la revoca del beneficio in caso di mancato inizio entro il termine indicato, P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto, Codice Rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi, Giuffrè, 2020 pp. 85-86. Tuttavia, tale pretesa è forse eccessiva, posto che l’attivazione del percorso non dipende solo dal condannato, ma anche dalla disponibilità dell’ente, ed è tanto più imprevedibile nei casi in cui la sentenza che lo dispone sia soggetta ad impugnazione.
[6] Per esempio, nel foro di Trento ho riscontrato un caso in cui il giudice ha applicato la pena e disposto la sospensione condizionale della stessa subordinandola alla “frequentazione di un percorso” entro un anno dal giorno della lettura del dispositivo.
[7] Interessante la proposta di P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto su come affrontare l’eventuale impossibilità economica del condannato di sostenere i costi del percorso: “Nel caso in cui, a fronte dell’impossidenza comprovata dell’imputato, il giudice non individui strutture pubbliche adeguate sul territorio dovrà mettere le stesse in mora per inadempimento di obblighi nazionali e sovranazionali derivanti per legge, in quanto il citato art. 16 della Convenzione di Istanbul impone alle autorità italiane, tutte, di sostenere o istituire programmi di trattamento rivolti agli autori di reati di violenza di genere per prevenire la recidiva”: così in Codice Rosso, cit., 84-85.
[8] In questo senso, Cass. pen. Sez. II, 27 gennaio 2020, n. 11611 (rv. 278632-01), che ha “La sentenza di applicazione della pena con la quale sia stata concessa, all'imputato che ne abbia già usufruito, la sospensione condizionale della pena senza subordinare il beneficio all'adempimento degli obblighi di cui all'art. 165, comma primo, cod. pen., come previsto dal secondo comma della medesima norma, è affetta da nullità nel suo insieme e non solo nella parte relativa alla sospensione, per avere il giudice omesso di verificare la concedibilità del beneficio, rigettando, in presenza di condizioni ostative, la richiesta di patteggiamento a norma dell'art. 444, comma 3, c.p.p.