Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
In occasione della pubblicazione, all’interno di questa rubrica, della prima sentenza della Corte di Cassazione che reca la firma della Consigliera estensora (nonché Relatrice) Paola Di Nicola Travaglini, aprendo così una strada già intrapresa, all’interno della Corte costituzionale, dalle giudici Emanuela Navarretta e Daria De Pretis, abbiamo chiesto alla sociolinguista Vera Gheno di illustrare il contributo che anche il linguaggio può dare alla emancipazione femminile.
L’importanza di un uso non sessista della lingua italiana era stata del resto già sottolineata in un documento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, curato da Alma Sabatini e pubblicato nel 1987.
Considerazioni linguistiche sui femminili di Vera Gheno
L’essere umano è contemporaneamente diverso da tutti gli altri e parte di un’unità più grande, che è la società. Per quanto possa essere singolarità irripetibile, la sua umanità si estrinseca e si manifesta pienamente nell’interazione con le persone che ha attorno, nella creazione di reti di relazioni. Non è un caso se John Donne, nel Seicento, scriveva “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso”. Parole simili possono essere spese per la lingua: essa è allo stesso tempo bene individuale (ogni persona al mondo possiede un idioletto irripetibile, una sorta di impronta digitale linguistica) e bene collettivo; grazie alla parte dei nostri idiomi che abbiamo in comune con gli altri possiamo capirci a vicenda, comunicare, senza per questo perdere la nostra assoluta originalità. Forse proprio tramite l’osservazione della tensione elastica tra il sé e gli altri, tra la propria lingua e la koiné, si può comprendere la rilevanza delle proprie scelte linguistiche personali e delle loro possibili conseguenze sulla società, sul modo in cui questa pensa, vive e si evolve.
La decisione o il rifiuto di usare i nomina agentis declinati al femminile sembrano poco collegati a quanto detto sopra; tuttavia, ciò che spesso è vissuto come il mero esercizio di una (sacrosanta) scelta individuale ha delle ricadute potenzialmente non indifferenti sulla progressione dell’emancipazione femminile nelle nostre società, che rimangono di stampo – sociale e linguistico – androcentrico: ciò che viene nominato, infatti, acquisisce maggiore consistenza, oltre che visibilità, mentre tutto quello che non viene appellato con precisione rimane, in qualche modo, meno visibile, se non altro perché non se ne può parlare. Essendo l’essere umano un animale narrante e narrato, il fatto di essere o meno nominate non è un dato collaterale.
Nell’ultimo decennio, sia nell’ambito della psicolinguistica (cfr. ad es. i lavori di Pascal Gygax) sia in quello della psicologia (mi riferisco, tra l’altro, alle osservazioni di Lera Boroditsky) è stato mostrato come, nelle lingue dalla struttura simile alla nostra, cioè con genere grammaticale, l’uso del maschile sovraesteso abbia conseguenze sulla decodifica del pensiero: osservazioni empiriche mostrano come, ad esempio, se si chiede di citare i propri scrittori o eroi preferiti la maggior parte delle persone citerà nomi maschili; il numero delle donne menzionate aumenta quando si chiedono di citare scrittori e scrittrici ed eroi ed eroine, ma anche quando si parla di personaggi di spicco nell’ambito della letteratura o figure eroiche, ossia si impiegano delle circonlocuzioni percepite come semanticamente neutre. Il maschile, dunque, non è neutro e non andrebbe definito come tale: semplicemente, in mancanza di altre possibilità – e tenendo conto dell’impronta patriarcale della storia delle nostre società – è diventato una soluzione di comodo.
I nomina agentis al femminile (per fare qualche esempio pertinente a questo settore, avvocata difensora, [la] giudice relatrice, consigliera estensora, ecc.) destano discussione. Chi vi ricorre, può motivare la propria scelta ricordando che i femminili sono previsti dal sistema morfologico della nostra lingua, che tende a creare un isomorfismo tra identità di genere della persona e sua appellazione (come dimostrano esempi anche storici: la giudicessa Eleonora D’Arborea nel Medioevo, l’architettrice Plautilla Bricci nel Seicento); spesso sono le persone semicolte a dimostrare la naturalezza di questa scelta (la nonna che non ha alcuna remora a definire ingegnera la nipote neolaureata; le sindache che occasionalmente venivano elette nei comuni della cintura vesuviana sin dagli anni Settanta del Novecento, e che la popolazione chiamava in questo modo); il meccanismo però spesso si inceppa quando si vanno a toccare professioni e posizioni apicali che per lungo tempo sono state di dominio esclusivamente maschile. In questi settori, persone di elevata cultura mostrano spesso insospettabili resistenze a “cedere al femminile”, dando le motivazioni più varie. Per esempio, si afferma che “i titoli sono neutri” (e allora regina? O professoressa?); che il femminile lede la norma dell’italiano (no: a livello meramente linguistico, tra maestra e ministra o infermiera e ingegnera non ci sono differenze morfologiche; l’unica differenza è che le prime sono usate, in atto, e le seconde sono usabili, in potenza, e non lo sono sinora state perché non c’era chi designare con quel nome); che il femminile rappresenta uno svilimento del titolo al maschile (ma qui il problema non è interno al sistema lingua, bensì legato alla percezione sociale del femminile… e su questo, proprio l’uso dei femminili può influire positivamente, innescando dei circoli virtuosi); che usare i femminili è una cosa superflua (gli studi appena citati dimostrano che non è così).
Una vicenda assai nota è quella di Lidia Poët: prima donna a finire gli studi di giurisprudenza nel 1881, si vide prima accogliere, poi annullare l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati (nel 1883) con una motivazione quanto mai strampalata: avvocata non era usato, se non in riferimento alla Madonna, pertanto non poteva esistere nemmeno la donna-avvocato; secondo questo ragionamento, dunque, si rovesciava il classico modo di dire nomina sunt consequentia rerum (!). Poët lottò pubblicamente per decenni per ottenere l’iscrizione all’Ordine, che finalmente le arrivò nel 1920, all’età di sessant’anni.
La fermezza e la dedizione dell’avvocata Poët dovrebbero aiutarci a comprendere la rilevanza della questione linguistica, e di come questa abbia in passato aperto la strada all’emancipazione professionale della donna specificamente nel settore giuridico, senza ombra di dubbio uno dei più tradizionalisti della nostra società. E anche se oggi molte conquiste femminili possono quasi essere date per scontate, occorre ricordare il tempo e la fatica spesi per ottenerle, ma anche la loro oggettiva fragilità: per molte persone, è ancora preferibile avere un avvocato, un giudice, ma anche un medico, un chirurgo, un professore di genere maschile perché percepiti come più affidabili, più autorevoli. Questa distorta percezione sociale del femminino, insieme alla convinzione perdurante delle donne più adatte ai lavori di cura, può davvero – e sostanzialmente – venire corretta anche grazie all’uso delle parole giuste: le donne dovrebbero – e la pongo volutamente come una possibilità, non come un obbligo, se non morale – abituarsi a definirsi e farsi definire al femminile, perché la nominazione precisa e icastica di coloro che fino a oggi non sono esistite o non hanno avuto sufficiente visibilità può compiere dei piccoli miracoli cognitivi nel renderne naturale la presenza.