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25 Novembre 2020


Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 1/2020

Violenza sessuale: (I) Accertamento giudiziale e ipotesi di riforma



Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.

Proseguendo idealmente il lavoro iniziato con la rubrica Questioni di genere all’interno della rivista online “Diritto penale contemporaneo”, l’Osservatorio sulla violenza contro le donne vuole offrire uno spazio di riflessione e di confronto sui temi della violenza di genere. L’iniziativa è frutto della collaborazione di più persone, convinte che il sistema della giustizia penale possa e debba dare il suo contributo, anche sul piano culturale, per il contrasto della violenza contro le donne. Un contributo che potrà essere tanto più efficace e tempestivo, quanto maggiore sarà la capacità di ciascuno/a di mettere in discussione stereotipi e pregiudizi di genere e la disponibilità a farsi guidare nel proprio lavoro dalle indicazioni, oramai numerose ma sistematicamente trascurate, degli organismi internazionali (in primis, quelle della Convenzione di Istanbul del 2011, ma anche quelle della CEDAW e della Direttiva 2012/29/UE), oltre che dalle buone prassi che già oggi esistono nel nostro Paese e delle quali è opportuno dar conto, nell’interesse di tutti/e.

 

In questo numero affrontiamo il tema della violenza sessuale e in particolare della rilevanza che viene attribuita dalla giurisprudenza al dissenso della vittima; il primo contributo è dedicato ai risultati di una ricerca empirica sulla giurisprudenza del Tribunale di Milano; a seguire vi sono due riflessioni su una recente proposta di riforma della violenza sessuale.

Nel prossimo numero si tornerà sul tema della violenza sessuale, rivolgendo l’attenzione alle ipotesi di minore gravità e alla rilevanza della condizione di ebbrezza.

Siete tutti invitati a contribuire, inviando osservazioni o materiale giurisprudenziale attraverso la mail della redazione (redazione@sistemapenale.it) e indicando nell’oggetto Osservatorio VG.

 

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Uno sguardo sulla prassi. Considerazioni a margine di una ricerca empirica sulla giurisprudenza del Tribunale di Milano (di Andrea Niccolò Pinna)

1. Il campione analizzato. – Una ricerca condotta sulle pronunce emesse dal Tribunale di Milano in procedimenti avviati per i reati di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.) e conclusisi in primo grado con una pronuncia in udienza preliminare o all’esito del dibattimento[1], ha portato ad individuare 152 provvedimenti definitori: di questi, uno solo riguardava una donna, assolta dall’accusa di aver agito violenza nei confronti della figlia, in ragione della marcata incoerenza riscontrata nelle dichiarazioni della persona offesa e dei presenti al momento della violenza denunciata.

Per contro, le persone offese da quei reati risultano essere nella stragrande maggioranza dei casi di sesso femminile: solo 10 su 152 sono infatti le vittime di sesso maschile, che in 7 casi su 10 erano minorenni. Quanto ai maggiorenni, si è trattato in un caso del palpeggiamento da parte di un transessuale all’interno di un supermercato e, negli altri due - conclusisi con l’assoluzione, difettando la prova della natura non consensuale dei rapporti sessuali contestati agli imputati (in un caso anche all’interno di un gruppo) – di rapporti sessuali intercorsi, rispettivamente, tra persone detenute e compagne di cella ovvero tra uomini che già avevano avuto una relazione sessuale occasionale.

Quanto alle 142 persone offese di sesso femminile, 101 erano maggiorenni al momento del fatto e 41 ancora minorenni: una proporzione invertita rispetto a quella presente tra le (poche) vittime di sesso maschile e che consente di confermare la natura tendenzialmente unidirezionale del delitto di violenza sessuale, pressoché sempre agito da uomini nei confronti di donne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elaborazione grafica di Arianna Zini

 

Solo in un terzo dei casi (54 casi su 152) l’imputato era un estraneo per la persona offesa (anche se in alcuni casi avevano avuto sporadici ed isolati contatti); nei restanti casi vi era tra l’imputato e la vittima un preesistente rapporto di conoscenza, familiare, amicale, lavorativo etc. (60 casi) o sentimentale (34 casi), trattandosi di partner o ex-partner. Nei 4 casi restanti non è stato possibile ricostruire la natura del rapporto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elaborazione grafica di Arianna Zini

 

La responsabilità penale in ordine all’imputazione per violenza sessuale è stata ravvisata in 109 sentenze su 152; in poco meno della metà dei casi (51 su 109) i fatti sono stati considerati di minore gravità e quindi ricondotti all’ipotesi attenuata dell’art. 609-bis comma 3 c.p. Da un controllo incrociato è emerso che l’applicazione di quest’ultima disposizione è avvenuta con maggiore frequenza nei casi realizzati da persone sconosciute alla vittima: ricorre infatti in 30 delle sentenze di condanna per questi casi, e solo in 18 di quelle riguardanti imputati conosciuti dalla vittima (nei restanti 3 casi non è stato possibile ricostruire i rapporti tra agente e persona offesa). Questo aspetto appare particolarmente significativo, perché mette in luce la maggiore gravità delle violenze realizzate da conoscenti, che sono anche numericamente in netta prevalenza; le violenze da parte di estranei sono invece in larga parte costituite da toccamenti fugaci di zone erogene della vittima, agiti repentinamente in contesti urbani.

Le sentenze di assoluzione, in tutto 43, sono intervenute per lo più in seguito a dibattimento (36 casi); solo in 7 casi sono state pronunciate in udienza preliminare, avendo l’imputato chiesto giudizio abbreviato. Si tratta per lo più di assoluzioni nel merito (36 su 43), in quanto si è ritenuto che “il fatto non sussiste” (33 casi su 36).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elaborazione grafica di Arianna Zini

 

Laddove non sia stata ritenuta operante l’ipotesi attenuata, la pena media è risultata essere la reclusione per 6 anni e mezzo, per le 40 sentenze di condanna emesse in esito a dibattimento, e per 4 anni e 4 mesi per le 18 emesse in esito a giudizio abbreviato o a patteggiamento. Viceversa, i casi di minore gravità sono stati sanzionati con una pena media di 25 mesi, in esito al dibattimento (32 casi) e di 19 mesi circa laddove vi sia stato patteggiamento o rito abbreviato (19 casi).

 

2. Violenza sessuale e violenza domestica. – La ricerca ha fatto emergere una stretta correlazione fra violenza sessuale e violenza domestica: 20 su 34 degli imputati per violenza sessuale, che erano legati alla persona offesa da una relazione sentimentale attuale o pregressa, erano accusati anche di maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.); altri 7 partner o ex-partner erano invece imputati anche per atti persecutori (art. 612-bis c.p.), oltreché per violenza sessuale.

La violenza sessuale, in questi casi, è inquadrata in un perdurante clima di violenze ed umiliazioni fisiche e psicologiche rivolte alla donna, che finisce per vivere in uno stato di angoscia e prostrazione costante. La vittima partecipa all’atto sessuale per il timore di subire violenze ancor più gravi; dal canto suo l’agente, è per lo più consapevole del dissenso della compagna o ex-compagna.

In alcune delle sentenze, pur ritenendosi provata la responsabilità penale dell’imputato per i reati di maltrattamenti e lesioni, si esclude tuttavia la sussistenza della violenza sessuale poiché la parte lesa

ha riferito di non aver espresso in modo manifesto il suo dissenso, avendo preferito subire anche di controvoglia gli approcci del marito pur di non esacerbare la situazione” [Trib. Milano, n. 10610/2016], ovvero

ha spiegato di non essere stata consenziente, senza però riuscire ad esprimere con chiarezza se e come avesse fatto percepire al compagno il proprio dissenso alla congiunzione con lui. Invero la donna, in entrambi i casi descrive un rapporto non violento, ancorché da lei non desiderato perché avvenuto dopo una lite e un’aggressione. Così la […] aveva ceduto al rapporto sessuale perché frastornata e per timore di suscitare reazioni violente nel compagno che, però, in tali occasioni, non utilizzò modalità violente per ottenere il rapporto voluto” [Trib. Milano, n. 7049/2016], o ancora

ha riferito che, pur essendole sgradite le attenzioni sessuali dell’imputato, non glielo aveva chiaramente espresso nelle specifiche occasioni in cui lo stesso le si era avvicinato per compiere l’atto sessuale” [Trib. Milano, n. 13100/2016].

In queste pronunce si riflette un’interpretazione della disposizione sulla violenza sessuale nella quale la violenza viene identificata con il costringimento fisico, consistente nella esplicazione di una energia fisica tale da porre il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta. Con la conseguenza che l’atto sessuale realizzato senza che sia stato necessario ricorrere a quella violenza – nel timore di subire ritorsioni e violenze ulteriori – venga considerato non punibile.

Più numerose sono però le sentenze che accolgono un diverso orientamento interpretativo, venuto affermandosi – come si dirà - nella giurisprudenza della Cassazione, volto ad assicurare una tutela effettiva alla libertà di autodeterminazione dell’individuo nelle proprie scelte in ambito sessuale.

Troviamo così, ad esempio, una sentenza con la quale un uomo è stato condannato per i maltrattamenti inflitti alla moglie e ai figli minori per oltre dieci anni, e per la violenza sessuale realizzata in più occasioni, non rilevando, in senso contrario,

né l’esistenza di un rapporto di coppia o para-coniugale tra le parti, e né la circostanza che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, laddove risulti la prova che l’agente, per le violenze e minacce poste in essere nei riguardi della vittima in un contesto di sopraffazione ed umiliazione, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito da parte di quest’ultima al compimento di atti sessuali” [Trib. Milano n. 11203/2016];

in un caso molto simile, nel quale peraltro era presente l’esplicito rifiuto della vittima all’atto sessuale, si è sottolineato che

in un contesto familiare intimidatorio e maltrattante, come quello in cui si è trovata a vivere la persona offesa per anni, non pare necessario, per la sussistenza del reato, che la donna espliciti manifestamente il suo dissenso, trovandosi già in una situazione di ‘costrizione ambientale agli atti sessuali’, in uno stato di soggezione psicologica tale per cui, nel timore di subire ulteriori maltrattamenti, non ci si oppone al compimento di atti sessuali” [Trib. Milano n. 6766/2016].

In un altro caso, invece, si precisa che

nel delitto di violenza sessuale non ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito ai congiungimenti carnali” [Trib. Milano n. 1036/2016].

 

3. Un confronto con gli orientamenti della Cassazione. All’esito di questa, sia pure sommaria, analisi dei diversi orientamenti che convivono nella giurisprudenza milanese in caso di aggressioni sessuali commesse nell’ambito della violenza domestica, pare opportuno richiamare le considerazioni espresse dalla Corte di cassazione sulle medesime questioni problematiche. Nella prospettiva di garantire una tutela effettiva della libertà sessuale, la Suprema Corte negli anni ha sviluppato un orientamento che approfondisce altre tipologie di violenza, superando il limitato dogma che la intende solo come costringimento fisico. È stata così riconosciuta dapprima la violenza “implicita” e “potenziale” – ravvisabile nei cd. atti sessuali ‘repentini’, che non permettono alla vittima di opporre resistenza (come i toccamenti furtivi) e in quelli compiuti insidiosamente (il medico che adduce ragioni professionali) – e da ultimo la “costrizione ambientale”, riscontrabile proprio nei casi di violenza domestica, nei quali la vittima non si oppone in alcun modo all’atto sessuale per lo stato di soggezione psicologica ingenerato dalle continue vessazioni cui è sottoposta da parte del partner. Benché la giurisprudenza sul tema sia abbondante, può essere qui richiamata una recente pronuncia [Cass. III, n. 17676/19] nella quale la Corte afferma che

“integra il reato di cui all'art. 609-bis c.p. nella forma cd. "per costrizione" disciplinata dal comma 1 qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull'altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l'intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali”;

in presenza di un “clima caratterizzato da costante sopraffazione da parte del marito sulla moglie”, come quello che connotava il caso oggetto di giudizio, non osterebbe al perfezionamento del reato neppure

“l'espressione manifesta del consenso della vittima allorquando la sua volontà venga coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi scaturirebbero dal rifiuto esplicito all'atto sessuale impostole, quale forma di violenza indiretta, dall’agente”.

D’altra parte, con riguardo a casi diversi da quelli caratterizzati da costrizione ambientale violenza (e quindi da un clima violento protrattosi nel tempo), la Cassazione ha assunto una chiara posizione sul ruolo che il dissenso della vittima assume nell’ambito della fattispecie di violenza sessuale: nell’ambito di una sentenza di condanna, nei confronti di un uomo accusato di aver baciato e toccato il seno della vittima contro la sua volontà [Cass. III n. 49597/16], si è infatti affermato come

non sia ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito della entrata in vigore della legge n. 66 del 1996 […], un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenere perfezionati gli elementi costitutivi del reato stesso, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale; si deve, piuttosto, ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”.

Attraverso questo provvidenziale cambiamento di prospettiva, a venire in rilievo, ai fini del perfezionamento del reato, è la mancanza di manifestazione del consenso da parte della persona offesa, e non l’espressione del suo dissenso:

è chiaramente espressa da questa Corte, nell'esercizio della sua funzione di garanzia della corretta ed uniforme interpretazione della legge, la esigenza che nei reati sessuali, preventivamente o almeno contestualmente alla condotta dell'agente, non sussista, trattandosi di elemento negativo della fattispecie la cui esistenza si pone come impeditiva ai fini della completa integrazione del reato, il consenso del soggetto titolare dell'interesse, da questi validamente espresso, alla disposizione del bene interesse a questo facente capo, non essendo, invece necessaria anche la manifesta espressione di un dissenso a tale disposizione”.

Nella medesima pronuncia la Corte si è altresì occupata dell’elemento soggettivo che deve caratterizzare il soggetto agente: coerentemente con la premessa, della esistenza di una sorta di presunzione di dissenso da parte della vittima, superabile con la prova contraria, si è ritenuto sufficiente che l’agente

abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo del reato al compimento degli atti sessuali a suo carico, essendo irrilevante, pertanto, l’errore sull'esistenza o meno della espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato”.

La centralità che la pronuncia attribuisce al consenso è in linea con le previsioni della Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne, il cui art. 36, relativo alla violenza sessuale, prescrive che gli Stati aderenti adottino le misure necessarie per perseguire penalmente chi si renda responsabile di un atto sessuale compiuto su una persona senza il suo consenso. Tale consenso, precisa poi l’articolo, deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto.

 

[1] L’indagine si è concentrata sulle sentenze dell’anno 2016, in quanto già acquisite per una ricerca sulla criminalità femminile, oramai conclusa e che aveva ad oggetto il periodo ricompreso tra gli anni 2015 e 2017.

 

 

Osservazioni de lege ferenda

Pubblichiamo due riflessioni sulla Proposta di riforma dei reati sessuali elaborata in seno alla Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale: la prima, di Elena Biaggioni, muove dall’esperienza pluriennale nell’affiancamento delle vittime nell’accesso alla giustizia; la seconda, di María Acale Sànchez, offre il punto di vista di una protagonista dell’analogo processo di riforma, attualmente in corso in Spagna.

Consenso e tipizzazione delle condotte nei reati contro la libertà e l'autodeterminazione sessuale tra esigenze reali e stereotipi (di Elena Biaggioni).

La riforma dei reati sessuali in Italia vista da occhi stranieri (di María Acale Sánchez)