In ricordo del Prof Piermaria Corso
Il tema della “separazione delle carriere” dei magistrati è stato oggetto dell’ultima iniziativa scientifica del prof. Piermaria Corso, già ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Milano, prematuramente scomparso l’11 agosto 2025. Egli aveva coinvolto un gruppo di studiosi di varia provenienza, nell’accademia, nella magistratura e nell’avvocatura, come era tipico di molti suoi progetti editoriali, per redigere contributi in argomento da pubblicare sul fascicolo n. 3 del 2025 dell’Archivio della nuova procedura penale, interamente visibile qui. Fra questi, il breve articolo di chi scrive questa nota, ripubblicato su gentile concessione dell’editore della rivista, alla quale può accedersi tramite il presente link.
Il gesto vuole essere un affettuoso ricordo di uno degli aspetti caratteristici del maestro. Docente amatissimo dai suoi studenti dapprima a Siena, a Macerata e a Parma, poi a Milano, il prof. Corso è stato un giurista particolarmente sensibile alla questione della didattica universitaria, intimamente connessa a quella della formazione professionale degli avvocati e dei magistrati. Egli trasfondeva nell’insegnamento la sua visione dei problemi della giustizia maturata nello svolgimento della professione forense, con uno sguardo empatico che aiutava a comprendere le coordinate di base del processo penale, attinenti all’uomo e alla vita, ancora prima che alle norme. Proprio per questo non concepiva lo studio soltanto teorico della procedura penale e, su un altro piano, improntava la difesa dell’imputato al rigore etico.
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1. Il dibattito sulla progettata riforma costituzionale della separazione delle carriere (d.d.l.c. n. 1917) risulta sempre più orientato a discutere il “come” realizzarla, invece che il “se” farlo, almeno fra i processualpenalisti. Prevale, infatti, fra gli interpreti, la tesi per cui la separazione serva per rendere più compiuto il modello processuale accusatorio o di parti[1]. Resta dibattuto se si tratti di una modifica ordinamentale costituzionalmente doverosa[2] o, comunque, resa necessaria dall’opzione processuale per il rito accusatorio[3]. Sembra, però, difficile negare la coerenza intrinseca della separazione della magistratura in due organizzazioni (giudicante e requirente) «con la logica triadica del processo penale: premessa essenziale per assicurare al meglio l’imparzialità del giudice»[4]. Lo scopo è quello di garantire, secondo standards più elevati, l’esercizio imparziale della funzione giurisdizionale, il che è strumentale alla decisione giusta. In quanto è correlata al fine cognitivo del processo penale, la separazione delle carriere può, pertanto, essere considerata una riforma volta a rafforzare in termini qualitativi l’efficienza giudiziaria.
Ciò premesso, emergono notevoli diversità di vedute sulle modalità realizzative della separazione delle carriere, anche al di là del ricorso a una legge di rango costituzionale o ordinario[5]. Si pensi, in particolare, alla discussione sull’opportunità o meno di prevedere un doppio organo di governo autonomo della magistratura (doppio CSM)[6], come nel disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera, o al profilo meno esplorato della formazione dei magistrati, non oggetto del citato disegno di legge e rispetto al quale non è unanime la tesi della separazione. Invero, alla posizione di quanti includono la distinzione dei concorsi fra le «condizioni normative e procedurali per una separazione effettiva» delle carriere[7], si giustappongono posizioni più articolate, aperte alla possibilità dell’accesso alle carriere tramite un concorso selettivo unico[8] e, comunque, volte a sottolineare il problema di fondo di un’eventuale separazione dei percorsi formativi nelle due magistrature. Si afferma, in termini ineccepibili, che, «indubbiamente, i due distinti percorsi di accesso accentuerebbero la percezione di appartenere a ruoli diversi, ma non sortirebbero l’effetto di agevolare una base comune di valori giuridici»[9].
2. Non è detto, peraltro, che il perseguimento del suddetto fine culturale vanificherebbe l’obiettivo fondamentale della riforma della separazione delle carriere, costituito dal rafforzamento dell’imparzialità del giudice e della decisione. Vi sono, anzi, buoni argomenti per sostenere che quest’obiettivo sarebbe più efficacemente conseguito conservando e, semmai, migliorando il percorso unitario di accesso alla magistratura, al fine di radicare i comuni valori giuridici, anche in un contesto mutato rispetto a quello attuale, caratterizzato dalla separazione a livello ordinamentale delle organizzazioni giudiziarie. È vero, infatti, che il problema formativo principale è quello di garantire a tutti i magistrati, sia requirenti che giudicanti, l’acquisizione di un comune patrimonio culturale. Questo ha per oggetto, come si osserva in dottrina, «non tanto quella che viene definita cultura della giurisdizione, ma la comune cultura della legalità e delle garanzie, che dovrebbe essere patrimonio inalienabile, non solo di tutti i magistrati, ma di tutti gli operatori della giustizia»[10].
Inoltre, è corretto sostenere che la cultura della giurisdizione debba caratterizzare anche il pubblico ministero. Ma non nel senso che il pubblico ministero debba essere ricondotto alla giurisdizione, rispetto alla quale l’organo di accusa e investigazione è estraneo, in quanto la legge attribuisce la funzione di decisione ai soli giudici (art. 1 c.p.p.). Significa, invece, che il comportamento processuale ed extraprocessuale del pubblico ministero debba informarsi alla cultura della giurisdizione e rispettare la netta distinzione di funzioni di accusa e di decisione. La cultura della giurisdizione è, pertanto, parte integrante del patrimonio culturale di tutti i magistrati.
La costituzione di tale patrimonio dovrebbe pure contraddistinguere la formazione degli avvocati ed è tutt’altro che assicurata dall’attuale assetto della formazione nelle professioni legali, in ordine al quale è utile richiamare una duplice linea di tendenza accentuatasi con le ultime riforme. Da un lato, il sistema è sempre più orientato a separare i percorsi formativi dei magistrati e degli avvocati. Dall’altro, la formazione dei magistrati è sempre più organizzata in autonomia dalla magistratura stessa e sempre meno in ambito accademico, pur restando aperta al contributo universitario attraverso il coinvolgimento dei professori nell’attività didattica della Scuola superiore della magistratura.
Il dibattito politico dovrebbe pertanto porsi il problema dei rimedi a una situazione formativa che appare quantomeno deficitaria, anche al di là delle intersezioni con il dibattito sulla separazione delle carriere. Nel far ciò, bisogna assumere una visione ampia della questione della formazione professionale, dei magistrati e degli avvocati, porsi il problema del coordinamento del percorso formativo giuridico anteriore e successivo alla laurea e distinguere, ulteriormente, il tema della formazione necessaria per svolgere le professioni legali dal tema della preparazione necessaria per accedere alle professioni stesse. Il tentativo di trovare una sintesi fra i due profili ha da sempre rappresentato, e rappresenta ancora, una sfida al centro dell’esperienza delle scuole di specializzazione per le professioni legali, previste dall’art. 16 d.lgs. 17 novembre 1997, n. 398, e regolate dal d.m. 21 dicembre 1999, n. 537[11]. Inoltre, la formazione comune dei laureati in giurisprudenza, fine istituzionale delle scuole di specializzazione, rinsalda il patrimonio culturale comune agli avvocati e ai magistrati.
3. È utile richiamare i caratteri principali del percorso di accesso alla magistratura, distinguendoli da quelli relativi alla professione forense. Innanzitutto, la preparazione al concorso per uditore giudiziario è di tipo teorico, in forza del contenuto delle prove d’esame, e si può svolgere privatamente, poichè si tratta di un concorso di primo livello[12]. Manca, pertanto, una sinergia con la formazione professionale, a differenza di quanto accade per l’accesso all’avvocatura, dove la preparazione all’esame di abilitazione, avendo un contenuto teorico-pratico, è compenetrata alla formazione professionale del tirocinante e viceversa.
Inoltre, la formazione professionale ha inizio solo a seguito del concorso nell’ambito del tirocinio destinato ai magistrati ordinari (art. 18 comma 1 d.lgs. 30 gennaio 2006, n. 26) ed è affidata in via esclusiva alla Scuola superiore della magistratura e agli uffici giudiziari giudicanti e requirenti (artt. 1 comma 2 e 18 comma 1 d.lgs. n. 26/2006). Pertanto, non solo non è previsto un percorso obbligatorio dedicato alla preparazione del concorso per i laureati in giurisprudenza[13]. Non si può neanche parlare di un percorso di accesso alla magistratura professionalizzante, in quanto la formazione teorico-pratica è riservata alla citata fase del tirocinio (art. 18 comma 1 cit.) e non è raccordata alla formazione accademica, essendo autonomamente organizzata dalla magistratura. La fase degli studi universitari deve, peraltro, farsi carico della formazione teorica necessaria per il superamento delle prove di concorso.
Al contrario, l’iter di accesso alla professione forense è incentrato sul progressivo affinamento della preparazione teorico-pratica in vista dell’esame di Stato. Questa è primariamente affidata al corso di laurea e deve coordinarsi e integrarsi con la formazione dei corsi per l’accesso alla professione legale di cui all’art. 43 l. 31 dicembre 2012, n. 247, che possono essere organizzati dalle università, anche attraverso le scuole di specializzazione per le professioni legali, in forza dell’art. 2 comma 1 d.m. 9 febbraio 2018, n. 17. Tale formazione è di contenuto sia teorico che pratico, in linea con la didattica erogata dalle scuole di specializzazione[14], ed ha un fine professionalizzante, come si ricava dall’art. 3 comma 1 d.m. n. 17/2018, in quanto il corso punta a far conseguire al tirocinante la preparazione necessaria, non solo all’espletamento delle prove previste dall’esame di Stato per l’abilitazione alla professione forense, ma anche allo svolgimento dell’attività professionale[15]. Il corso formativo è parte integrante del tirocinio forense, per definizione professionalizzante (v. art. 41 comma 1 l. n. 247/2012)[16].
Infine, il tirocinio dei magistrati ordinari è costruito in modo da radicare specifiche conoscenze teorico-pratiche, che si sovrappongono a quelle apprese nei corsi di laurea e condizionano il patrimonio culturale della magistratura. Va ricordato che, nella sessione del tirocinio effettuata presso le sedi della Scuola superiore della magistratura, i magistrati ordinari frequentano corsi di approfondimento teorico-pratico su materie individuate dal Consiglio superiore della magistratura, nonché su ulteriori materie individuate dal comitato direttivo della Scuola nel programma annuale (art. 20 comma 1 d.lgs. n. 26/2006)[17]. È, pertanto, chiaro che la formazione professionale impartita con il tirocinio, comune a tutti i magistrati ordinari (art. 18 comma 1 d.lgs. n. 26/2006), è in grado di favorire una comunanza di valori giuridico-culturali fra i magistrati requirenti e giudicanti. Altra questione è se tale processo formativo possa dirsi altrettanto idoneo a radicare quella cultura della legalità e delle garanzie che dovrebbe accomunare tutti i magistrati e gli avvocati ai magistrati.
4. Le particolari caratteristiche del percorso di accesso alla magistratura inducono a ritenere che la separazione delle carriere non richiederebbe un’analoga separazione dei concorsi, che, al più, avrebbe senso se il concorso fosse collocato al termine del percorso professionalizzante, come avviene per l’accesso all’avvocatura, e non prima che esso abbia inizio. Non sarebbe neanche opportuno separare il percorso di formazione teorico-pratica dei magistrati affidato alla Scuola superiore della magistratura, in quanto ciò indebolirebbe il comune radicamento valoriale nelle due componenti della magistratura.
Andrebbe, tuttavia, ripensato il contributo dell’università al suddetto percorso formativo, nell’ottica di superare sia l’attuale assetto di “chiusura” basato sulla competenza esclusiva della Scuola superiore della magistratura, che la sottorappresentazione culturale dell’accademia stessa nella formazione professionale[18]. Si potrebbe ipotizzare, per esempio, che alla sessione del tirocinio dei magistrati svolta presso la Scuola si affianchi una sessione organizzata in ambito accademico. Oppure si potrebbero riformare la composizione e il funzionamento della stessa Scuola, prevedendo una più marcata “apertura” alla componente universitaria e un più evidente accostamento alle scuole per la formazione dei laureati di matrice accademica. In ogni caso, l’obiettivo sarebbe quello di improntare la formazione teorico-pratica di tutti i magistrati ai valori di legalità e garanzia fondanti l’ordinamento, a partire dal valore dell’imparzialità della decisione, attraverso l’organizzazione di corsi di taglio sia teorico-pratico, sia strettamente pratico, in cui affinare le tecniche di redazione degli atti giudiziari propri delle professioni legali. Un più forte coinvolgimento della cultura accademica servirebbe insomma a rilanciare la prospettiva della condivisione dei saperi nella magistratura, e fra la magistratura e l’avvocatura, seppure in un contesto di separazione dei poteri[19].
Dovrebbe invece essere introdotta una più netta distinzione fra le professioni di magistrato requirente e giudicante, nonché di avvocato, a livello di tirocinio pratico, da svolgere presso gli uffici giudiziari requirenti e giudicanti per i magistrati e presso gli studi legali per gli avvocati. Il tirocinio pratico è la sede in cui affinare la preparazione tecnica, che si affianca alla preparazione di carattere teorico-pratico, e non può trovare spazio in ambito accademico.
[1] Sostanzialmente in questo senso, nel recente dibattito, ad es., O. Mazza, La separazione delle carriere e il processo accusatorio in una conversazione con Giuliano Vassalli, in Dir. dif., 8 luglio 2024; S. Lorusso, Separazione delle magistrature giudicante e requirente e modello accusatorio, in Sist. pen., 23 gennaio 2025, p. 5; G. Spangher, Separazione delle carriere nella logica di “sistema”, in disCrimen, 7 aprile 2025. Per una posizione critica, da ritenersi minoritaria nell’attuale dottrina processualpenalistica, v., invece, M. Gialuz, Otto proposizioni critiche sulle proposte di separazione delle magistrature requirente e giudicante, in Sist. pen., 2024, n. 9, pp. 75 e ss.
[2] Lo esclude, per es., N. Zanon, Separare e sorteggiare?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1161.
[3] In senso contrario, da ultimo, P. Ferrua, La magistratura tra processo accusatorio e separazione delle carriere, in disCrimen, 21 marzo 2025, p. 2. In senso positivo, ad es., O. Mazza, op. cit.
[4] R. Orlandi, Brevi note su una recente proposta di revisione costituzionale dell’ordine giudiziario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1155.
[5] Esclude la necessità di ricorrere a una riforma di carattere costituzionale, ad es., N. Zanon, op. cit., pp. 1161-1162 e nt. 1.
[6] In senso favorevole, per es., S. Lorusso, op. cit., p. 14; G. Spangher, op. cit. , p. 3. In senso critico, fra gli altri, R. Orlandi, op. cit., pp. 1151 e ss.; N. Zanon, op. cit., pp. 1164-1166.
[7] N. Zanon, op. cit., p. 1165.
[8] B. Galgani, Prove di “carriere separate”: tra risalenti ambiguità normative, forzature ideologiche e … wishful thinking?, in Proc. pen. giust., 2024, n. 3, p. 523.
[9] R. Orlandi, op. cit., p. 1153. V., invece, S. Lorusso, op. cit., p. 6, secondo cui il reclutamento condiviso sarebbe incompatibile con la “parità delle armi” fra accusa e difesa.
[10] M. Gialuz, Otto proposizioni critiche sulle proposte di separazione delle magistrature requirente e giudicante, cit., p. 86.
[11] Sulle vicende “interne” ed “esterne” che hanno impattato sul funzionamento delle scuole, v. M. Pelissero, La crisi delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. Una riflessione sulla formazione post lauream nel tempo della separazione, in Dir. pen. proc., 2024, pp. 843 ss.
[12] Al riguardo, v. M. Pelissero, op. cit., p. 845.
[13] Ciò non esclude lo sviluppo di corsi privati per la preparazione al concorso, per lo più gestiti da magistrati amministrativi o da magistrati in pensione.
[14] V. art. 7 comma 6 d.m. n. 537/1999, che prescrive alle scuole di dedicare l’attività didattica “all’approfondimento teorico e giurisprudenziale e ad attività pratiche quali esercitazioni, discussione e simulazione di casi, stages e tirocini, discussione pubblica di temi, atti giudiziari, atti notarili, sentenze e pareri redatti dagli allievi”. Nel senso, invece, che il percorso formativo dei corsi forensi non sarebbe del tutto congruente con quello previsto dal d.m. n. 537/1999, v. M. Pelissero, op. cit., p. 847.
[15] Secondo lo stesso art. 3 comma 1, “i corsi devono altresì assicurare nei tirocinanti la consapevolezza dei principi deontologici ai quali il concreto esercizio della professione deve essere improntato”.
[16] Il tirocinio professionale ha lo scopo di far conseguire al praticante avvocato le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di uno studio legale, nonché di fare apprendere e rispettare al praticante i principi etici e le regole deontologiche (art. 41 comma 1 l. n. 247/2012).
[17] La disposizione stabilisce, inoltre, che “la sessione presso la Scuola deve in ogni caso tendere al perfezionamento delle capacità operative e professionali, nonché della deontologia del magistrato ordinario in tirocinio”.
[18] Sostiene che l’accademia sia culturalmente sottorappresentata in tale ambito, M. Donini, Cultura dei penalisti e condivisione dei saperi. La formazione comune e non separata di magistrati e avvocati è una premessa al tema delle carriere, in Sist. pen., 11 gennaio 2023. Nel senso della progressiva marginalizzazione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, M. Pelissero, op. cit., p. 847.
[19] V. M. Donini, op. cit. V. anche M. Pelissero, op. cit., p. 849.