ISSN 2704-8098
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  Opinioni  
09 Dicembre 2022


Tanto tuonò che piovve: a proposito di alcune riforme annunciate


Tanto tuonò che piovve (o, quantomeno, minaccia di piovere). Sono ormai anni che molti di coloro che, per formazione culturale e fedeltà costituzionale, nutrono un profondo senso della giurisdizione e una convinta consapevolezza del ruolo svolto dalla magistratura nella tutela dei diritti, nella difesa delle istituzioni, nell’attuazione della Costituzione, sono anni – dicevo – che costoro segnalano le crescenti esorbitanze della giustizia penale sulla scena politico-sociale italiana. Un’esorbitanza imputabile specie alla magistratura inquirente, spesso animata da intenti forse indotti dall’inerzia e dalle malefatte della politica ma oggettivamente a rischio di destabilizzazione del quadro delle garanzie e di civiltà giuridica.

Così come non sono certo mancate, anche in sede scientifica ed accademica, le segnalazioni di certe forzature consumate talvolta dalla magistratura giudicante sul piano interpretativo allentando oltre misura il vincolo alla legge. A tutto ciò si aggiungeva una crescente sensazione diffusa, e che l’avvocatura non perdeva occasione di veicolare, di una certa qual riluttanza anche dei giudici – e dello stesso CSM – ad impegnarsi in modo radicale e concreto sul piano dell’efficienza e dell’organizzazione, pur dovendosi dare atto degli ostacoli frapposti su questa strada da un intrico normativo più complicatorio e farraginoso che effettivamente garantista.

Per anni queste voci, tutt’altro che acrimoniose ma al contrario ispirate ad un convinto rispetto per la giurisdizione, non sono state ascoltate adeguatamente da quelle parti più mediaticamente “sensibili” della magistratura specie inquirente (che ha invece perseverato nella ricerca di una legittimazione extraistituzionale, spesso anche sugli schermi televisivi dei vari talk show o nelle pagine di libri di indubbio successo commerciale). Ma le nuvole continuavano ad addensarsi, il prestigio e la fiducia popolare continuavano a calare, le voci “amiche” che invitavano a recuperare un self restraint costituzionalmente doveroso continuavano a rimanere inascoltate. Diventava sempre più facile prevedere che il vento sarebbe prima o poi mutato e avrebbe potuto portare tempesta. E così puntualmente è stato. Non si può certo estremizzare con il classico imputet sibi, ma certo un difetto di lungimiranza c’è stato. Così come è mancata una reazione diffusa, uno scatto rigeneratore dopo scandali clamorosi.

E ora? Ora le nuvole minacciano pioggia battente e forse qualche tsunami, anche costituzionale. Lo sforzo riformatore annunciato dal Ministro Carlo Nordio si proietta su vari fronti, ma un paio di questi, nel loro congiungersi pericolosamente, suscitano un allarme di cui devono farsi avvertiti anche i cittadini e non solo i “chierici”. La separazione delle carriere è tema in sé tutt’altro che scandaloso poiché in un processo realmente “di parti” la separazione si palesa addirittura come un logico corollario del principio della parità di quelle “parti” (salva poi la necessità di lavorare opportunamente su un terreno che unisca tutti gli attori processuali in un comune linguaggio e in un comune patrimonio di valori, ferma restando la salutare differenza di ruoli nel concreto esercizio delle rispettive funzioni nel processo). Ma se, accanto alla separazione delle carriere, si ipotizza anche di demolire l’obbligatorietà dell’azione penale si rischia di creare così un corto circuito costituzionale. Anche l’obbligatorietà dell’azione penale non può essere un tabù e certo occorre uscire dall’attuale ipocrisia di un’azione penale formalmente obbligatoria ma in realtà discrezionale. Andare oltre quanto ha oggi previsto la riforma Cartabia con i criteri di priorità “misti”, in parte elaborati dalla politica e in parte dalle procure, è possibile specie in chiave deflativa calibrando bene istituti a cavallo tra diritto sostanziale e processuale. Ma congiungere in un unitario progetto la dilatazione ulteriore della discrezionalità e la separazione delle carriere, lascia fatalmente intravedere all’orizzonte un pubblico ministero che, dovendo ineludibilmente rispondere della accresciuta discrezionalità, può diventare braccio esecutivo delle forze politiche di volta in volta (non si dimentichi che le maggioranze cambiano!) dominanti. Allora sì che la tenuta del quadro costituzionale sarebbe a rischio. Davvero non esistono altre strade per ricondurre il protagonismo della giurisdizione in più ragionevoli e costituzionalmente corretti limiti?