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  Editoriale  
27 Febbraio 2025


Separazione delle carriere e riforma costituzionale della magistratura: 20 domande per un confronto e un dibattito aperto

Testo predisposto in vista dell'intervento all'Assemblea pubblica dell'ANM a Milano in occasione dello sciopero dei magistrati del 27.2.2025 contro il disegno di legge governativo di riforma costituzionale della magistratura



*Contributo pubblicato nel fascicolo 2/2025. 

 

La riforma costituzionale della magistratura ordinaria è tema tanto importante da richiedere, con senso di responsabilità da parte di tutti, un dibattito serio e approfondito, capace di ascoltare le ragioni dell’altro e le rispettive obiezioni e proposte. Una simile riforma, per quanto possibile, dovrebbe essere in qualche misura condivisa o trovare, quanto meno, punti di compromesso; non essere imposta sulla base del dato della maggioranza parlamentare.

La Costituzione è la nostra legge fondamentale e non si può fare a disfare, ad ogni cambio di maggioranza. Se il suo impianto originario è ancora vigente, è perché è storicamente il frutto di una dialettica e di compromessi politici improntati ad ampia condivisione. Ecco perché, a mio avviso, il dibattito in corso sulla riforma del Titolo IV andrebbe ricondotto su altri binari, evitando contrapposizioni e toni eccessivi.

Come farlo? Provando ad ascoltare le ragioni di tutti – della politica, della magistratura, dell’avvocatura, dell’accademia, della società civile –, a non delegittimare l’altro e a discutere, per quanto riguarda noi giuristi, sulla base delle norme e dei principi, non degli schieramenti (politici o professionali).

Tenterò allora, quale docente universitario a tempo pieno, di dare a titolo personale un contributo al dibattito attraverso alcune domande, che non hanno la pretesa di fornire delle risposte ma solo quella di stimolare una riflessione, con l’auspicio che le criticità presenti, a mio parere, in diverse disposizioni del disegno di legge di riforma costituzionale, possano essere affrontate, discusse e (se ritenute sussistenti) risolte con opportuni emendamenti.

 

  1. E’ una riforma della magistratura o contro la magistratura?

Inizio con una domanda che può sembrare provocatoria, ma non lo è. La riforma costituzionale è stata infatti presentata in più occasioni dai suoi fautori, anche in sedi istituzionali, come una reazione nei confronti di presunte invasioni di campo della magistratura rispetto alla politica e all’azione del Governo. Una magistratura che, quando adotta decisioni ‘non gradite’, viene con una certa nonchalance tacciata di essere politicizzata. Di conseguenza, nel dibattito pubblico la riforma è oggi rappresentata dai media ed è per lo più percepita dai cittadini esattamente in questi termini: uno scontro, che invita faziosamente a porsi da una parte o dall’altra, finendo per perdere di vista il merito delle modifiche ordinamentali che si propongono. E’ un vizio del nostro Paese, alimentato da buona parte dei media, a partire dagli house organ (basta leggere con continuità le rassegne stampa per rendersene conto).

Come giuristi, prima ancora che come cittadini, non possiamo cadere in questo tranello. Fissiamo allora un primo punto fermo indiscutibile, sul piano dei valori.

Chi è convinto che la magistratura sia un’istituzione fondamentale, per dare risposta di giustizia (ius-dicere), per tutelare e affermare i diritti e contribuire all’ordinato vivere civile, al progresso sociale ed economico del Paese, non può non avvertire, in questo clima di tensione, l’esigenza di difendere la magistratura come res publica, come patrimonio valoriale della Repubblica. Un bene di tutti amministrato in nome del popolo italiano, un servizio pubblico fondamentale: la giustizia. Il che non significa prendere posizione pro o contro la riforma: significa assumere come presupposto indiscutibile che qualsiasi eventuale riforma non deve essere ed andare contro la magistratura, la sua autonomia, la sua indipendenza, la qualità della giurisdizione. Su queste basi, prendere posizione sulla riforma, anche per i cittadini che saranno chiamati a esprimersi in un referendum, è più agevole: non si tratta di prendere le parti dei magistrati, degli avvocati, della maggioranza o dell’opposizione, di questo o quel professore od opinionista. Si tratta di comprendere se, nel merito, le modifiche ordinamentali proposte migliorano, peggiorano o lasciano inalterato lo stato delle cose.

Attenzione: per quanto possa sembrare un invito scontato o retorico, prendere le parti della difesa della magistratura, come istituzione repubblicana, non lo è. Viviamo infatti tempi in cui è sempre maggiore l’insofferenza per il controllo di legalità da parte dell’autorità giudiziaria. Espressione massima di questa insofferenza è forse oggi il trumpismo. Indebolire la magistratura è, da sempre, una strategia politica antidemocratica, che mira a ‘non disturbare il manovratore’. Difendere la democrazia significa perciò anche difendere la magistratura, il cui assetto ordinamentale è certamente modificabile da scelte politiche del Parlamento, nel rispetto però di fondamentali principi.   

Un invito che mi permetto allora di rivolgere a quanti intendano difendere la magistratura come componente fondamentale della Repubblica, su queste basi valoriali, è di abbassare i toni e, con senso di responsabilità, di cercare il dialogo e di ricondurre il dibattito sui binari di una critica serrata ma mai eccessiva, che si confronti con il merito delle proposte di intervento normativo.

Condizione necessaria, a tal fine, è che tutte la parti in gioco evitino di ricorrere alla delegittimazione dell’altro. Essa sì impedisce il dialogo e il confronto.

Tra le affermazioni che ci è toccato di ascoltare, di questi tempi, vi è addirittura quella di un rischio di ‘eversione’, attribuito vicendevolmente dall’una all’altra parte: magistratura politicizzata ed eversiva, politica eversiva.

Solo una degenerazione del discorso pubblico può associare l’idea dell’eversione sia all’attività della magistratura italiana, sia al disegno di legge di riforma costituzionale.

L’eversione è una cosa seria, che il nostro Paese ha purtroppo conosciuto in non poche pagine buie della sua storia, nella quale proprio e anche la magistratura ha avuto un ruolo decisivo per la tenuta dell’ordinamento democratico.

La magistratura italiana ha le spalle molto larghe: nell’era repubblicana ha attraversato momenti ben più difficili di quello attuale, anche drammatici: chi oggi, esasperando inopportunamente i toni del dibattito pubblico, evoca atteggiamenti eversivi, ha la memoria corta e dimentica che l’Italia è il Paese del sequestro e dell’uccisione del Presidente del Consiglio Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse; è il Paese della Loggia P2, delle mafie e della strage di Capaci avvenuta il 23 maggio 1992 proprio mentre il Parlamento, dopo il crollo della Prima Repubblica, in piena Tangentopoli, stava eleggendo il Presidente della Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro fu eletto cinque giorni dopo la strage di Capaci, che ruppe lo stallo della politica parlamentare in un momento tra i più complessi della nostra storia.

In questi e in altri passaggi epocali della vita repubblicana, la magistratura ha avuto un ruolo da protagonista nella salvaguardia dell’ordine democratico e delle istituzioni repubblicane. Lo ha fatto con responsabilità e senso del dovere, sia di quanti hanno lavorato e lavorano lontano dai riflettori, sia di quanti, eroi involontari, hanno pagato con la vita. Non posso in quest’aula non ricordare Emilio Alessandrini e Guido Galli. Associare l’eversione alla magistratura è offensivo, oltre che falso. E’ intollerabile.

Beninteso: la magistratura ha le sue responsabilità e le sue colpe, delle quali ha pagato e sta pagando il prezzo, anche in termini di fiducia da parte dell’opinione pubblica. La fiducia era massima negli anni di Mani Pulite, quando davanti al Palazzo di Giustizia di Milano sfilavano cortei a sostegno del Pool.

Poi le porte girevoli con la politica, lo scandalo dell’Hotel Champagne, le tensioni con alcune forze politiche e leader nell’ultimo trentennio, hanno danneggiato l’immagine della magistratura. Alcuni sondaggi recenti riferiscono di una fiducia nella magistratura di solo circa il 30% degli intervistati. E’ un fenomeno che non riguarda solo l’Italia ma anche altri paesi, tra cui gli Stati Uniti del Presidente Trump. Secondo un sondaggio Gallup dello scorso mese di dicembre, la fiducia nel potere giudiziario ha toccato negli USA il minimo storico del 35%, con una perdita di ben 24 punti percentuali negli ultimi venti anni. La magistratura, almeno nel nostro Paese, non si regge certo sul consenso e non deve rispondere al consenso. E’ però certo che la fiducia e il sostegno collettivo nel suo operato è importante per le sue ‘difese immunitarie’, che oggi sono più che mai basse. E ciò può essere decisivo, anche rispetto alla prospettiva di un referendum sulla riforma. Ecco il perché della strategia della delegittimazione da parte di una politica che si mostra poco responsabile, nella misura in cui mette a rischio la fiducia che ogni cittadino - ciascuno di noi - può e deve nutrire nel corretto e imparziale operato dei magistrati e della giustizia.

Di qui la preoccupazione per una riforma ordinamentale proposta con toni di rivalsa o di ‘punizione’ verso la magistratura, in un momento storico in cui essa può contare su pochi difensori al suo esterno. E di qui anche la scelta, indubbiamente forte, discussa, criticata da taluni e criticabile, al suo interno e al suo esterno, di manifestare contro la riforma, abbandonando le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario nelle corti d’appello. Chi critica quella forma di manifestazione del dissenso verso l’iniziativa riformista della politica, giusta o sbagliata che la si ritenga, non dimentichi però la manifestazione dei parlamentari sulla scalinata di questo Palazzo di Giustizia, alcuni anni fa, per protestare contro i magistrati in uno dei procedimenti che interessavano l’allora Presidente del Consiglio. Un’altra manifestazione che si collocava in un momento di tensione tra politica e magistratura, come quello che alcuni prima aveva portato il Procuratore Francesco Saverio Borrelli a pronunciare proprio in quest’aula il suo resistere, resistere, resistere. Verrebbe da dire, insomma, ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’. Ci sono momenti in cui, anche da parte di rappresentanti di poteri dello Stato, le idee possono essere espresse pacificamente (senza alcuna eversione) in modo estremamente visibile, come richiede la società della comunicazione mediatica in cui viviamo. Vale in via di principio anche per la magistratura, non solo per la politica. A meno di non volerla considerare un potere silente e recessivo, cioè non indipendente, nei limiti della dialettica democratica e dei confini costituzionali.

 

  1. E’ la riforma di un potere dello Stato o è una riforma che indebolisce la magistratura, minandone l’autonomia e l’indipendenza?

Mettiamo ora qualche altro punto fermo. Nessuno dubita, neanche all’interno della magistratura – per quanto sia in larga parte conservatrice – che il Parlamento sia legittimato ad approvare a maggioranza una riforma costituzionale della magistratura. Abbiamo imparato tutti al primo anno del corso di studi in Giurisprudenza che la Costituzione, compreso pertanto il Titolo IV, può essere modificata attraverso il procedimento di revisione di cui all’art. 138. E’ un procedimento volutamente complesso, che richiede più votazioni con maggioranze qualificate e che può richiedere un referendum popolare confermativo. Come ho premesso, modificare la Costituzione di un Paese, tanto più l’assetto di uno dei poteri dello Stato, è scelta tanto delicata e importante da richiedere più passaggi parlamentari e un’ampia discussione, una dialettica tra la maggioranza e l’opposizione.

La norma sulla revisione della Costituzione è stata scritta dagli interpreti autentici dello spirito costituente – appartenenti notoriamente ad aree politiche molto distanti tra loro – che tutto avrebbero immaginato tranne un disegno di legge di revisione costituzionale che, nel caso di specie, è stato approvato dalla Camera nella sua prima lettura in una sola settimana, nello scorso mese di gennaio, senza alcun emendamento pur a fronte di plurime criticità espresse finanche dal CSM, cioè dall’organo costituzionale di autogoverno della riformanda magistratura. Che la sterilizzazione del dibattito e della dialettica parlamentare interessi anche i disegni di legge costituzionale, tanto più di iniziativa governativa, è a mio avviso criticabile perché lontano dall’ordinario esercizio della democrazia parlamentare e perché, in ultima analisi, svilisce il ruolo e la funzione del Parlamento: un’altra istituzione che dobbiamo difendere, assieme alla funzione di ciascun parlamentare.

Resta il fatto che la politica è indubbiamente legittimata a riformare l’assetto costituzionale della magistratura. Un potere dello Stato – quello legislativo – ne può riformare un altro, quello giudiziario. Perché, si badi bene, la magistratura è sul piano costituzionale un “potere” dello Stato, al pari (con pari dignità e legittimazione) dell’esecutivo e del legislativo. Lo riconosce l’art. 104, co. 1 Cost., nell’affermare che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. La circostanza che la magistratura non sia elettiva, a garanzia della sua indipendenza, non toglie che la giustizia sia amministrata in nome del popolo e non incide sulla legittimazione della magistratura come potere indipendente dello Stato.

Mettiamo ora un altro punto fermo, che richiede di rispondere a questa domanda: possono i magistrati manifestare le proprie critiche nei confronti del disegno di riforma costituzionale? Può un potere oggetto di riforma criticare un altro potere, legittimato a realizzare quella riforma?

La risposta è affermativa: i magistrati, quali cittadini, anche riunti in associazioni, sono liberi di manifestare liberamente il proprio pensiero e non possono essere tacciati di fare politica se criticano questa o quella proposta di legge. D’altra parte, leggi di rango costituzionale prevedono che perfino in una sede istituzionale come il CSM la magistratura possa esprimere pareri sulle proposte di legge, come quella di cui si tratta.

Perché allora in occasione dell’abbandono delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario i magistrati brandivano la Costituzione e indossano anche oggi la coccarda tricolore? Almeno nella mia lettura, non perché, con una plateale invasione di campo, pensano di avere la pretesa di essere depositari di una Costituzione immodificabile da parte della politica, ma perché intendono affermare con forza il valore di principi fondamentali essi sì immodificabili.

Forse non tutti sanno che le leggi di revisione costituzionale possono essere incostituzionali in quanto contrarie ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Mostrare la Costituzione ai rappresentanti del Governo, da parte dei magistrati, è un gesto simbolico che ricorda i limiti che il principio di maggioranza incontra nella Costituzione quale  criterio di legittimazione delle scelte politiche sovraordinato rispetto al principio di maggioranza. La Corte costituzionale lo ha riconosciuto in una sentenza del 1988 (n. 1146, rel. Baldassarre): “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Non è dubitabile a mio parere che tra questi valori si annoverino l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, tanto giudicante quanto requirente.

Ecco perché la magistratura, con una forma di protesta che sta alla sensibilità di ciascuno condividere o meno, e che ben può essere criticata sul piano dell’opportunità – ricorda simbolicamente al legislatore e ai cittadini l’esistenza di limiti costituzionali alla possibilità di modificare la Costituzione stessa. Limiti che ritiene, quanto meno, a rischio, a ciò indotta anche da un discorso pubblico sempre più orientato alla delegittimazione del suo operato e dall’accusa di essere politicizzata. Come può una magistratura quotidianamente sotto attacco da parte della politica confidare senza alcuna esitazione nella tenuta della sua indipendenza da quella stessa politica che la sta attaccando e riformando assieme?    

Eccoci allora arrivati a un punto fondamentale, attorno al quale a mio parere deve ruotare il dibattito sulla riforma, incanalato sui binari del merito. E’ una riforma di riassetto migliorativo di un potere dello Stato o è una riforma che lo indebolisce rispetto agli altri, in termini di minore autonomia e indipendenza?

 

  1. La separazione delle carriere migliora l’autonomia e l’indipendenza della magistratura?

Diciamo subito che, sia nel disegno di legge costituzionale, sia nelle dichiarazioni dei proponenti, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato non sono messe espressamente in discussione. Il relativo principio viene ribadito nell’art. 104, co. 1 Cost.: la magistratura, ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato, è composta da magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente.

Nell’incipit della relazione governativa di accompagnamento al ddl si legge: “questo disegno di legge costituzionale conferma la compiuta assimilazione tra i magistrati del pubblico ministero e i giudici rispetto alle garanzie offerte dai princìpi di autonomia e indipendenza: si tratta di un assetto che qualunque ipotesi di riforma ordinamentale deve rispettare”. E ancora: “ferma restando, dunque, l’esigenza di non limitare in alcun modo l’indipendenza dei magistrati requirenti e giudicanti, si dà attuazione alla separazione delle loro carriere in modo conforme alla struttura più coerente con le regole fondamentali del processo penale, mantenendo altresì il presidio costituito dal Consiglio superiore della magistratura in una sua nuova duplice conformazione”.  

Si propone sì di separare le carriere dei magistrati, ma non di portare il p.m. fuori dalla magistratura (come ‘super-poliziotto’) e nemmeno di rinunciare all’autonomia e all’indipendenza di giudici e p.m.

Se è così, hanno ragion d’essere, allora, le preoccupazioni di quanti temono che la riforma possa nel medio lungo termine tradire le intenzioni dichiarate dai proponenti? A mio avviso sono preoccupazioni che meritano di essere considerate con attenzione.

La lettura dei lavori preparatori  della Costituzione– in particolare di quelli relativi all’art. 107, ult. co. (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) – mostra come l’assetto costituzionale rimasto immodificato dal 1948 ad oggi sia il risultato di un’articolata discussione e di una precisa scelta volta a separare il pubblico ministero non dal giudice, ma dal potere esecutivo. E’ questo un naturale polo di attrazione del p.m., la cui forza centripeta, oltre che a essere confermata da quanto accade nella gran parte degli ordinamenti stranieri, dipende da almeno due fattori di sistema:

a) il fatto che il p.m., coordinandola, lavori con la polizia giudiziaria, cioè apparati che dipendono dal Governo;

b) la circostanza che il p.m. svolga non solo attività giurisdizionale ma anche attività quale organo dell’esecuzione in materia penale.

I costituenti vollero cambiare lo stato delle cose rispetto all’assetto pre-repubblicano: l’art. 69 della legge sull’ordinamento giudiziario del 1941, ribadendo quanto era previsto in un testo unico dal 1923, prevedeva che il pubblico ministero esercitasse le funzioni attribuitegli dalla legge “sotto la direzione del Ministro di grazia e giustizia”; formula che nel 1946, caduto il regime, sarà stemperata in “sotto la vigilanza” del Ministro stesso, per poi essere abbandonata – questo è il punto – nella Costituzione del 1948.

Cito di seguito due interessanti pagine tratte da un volume che illustra i lavori preparatori della Costituzione (V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Mondadori, 1976, p. 346 s.). Durante la Costituente, l’On. Giovanni Leone presentò un emendamento sostitutivo dell’ultimo comma dell’art. 107 Cost. del seguente tenore: “Il pubblico ministero è organo del potere esecutivo. Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza”. Successivamente l’On. Leone rinunciò al suo emendamento e aderì alla soluzione che sarà adottata dalla Costituzione (su proposta dell’On. Grassi) di rinviare la soluzione del problema delle garanzie del p.m., ivi comprese quelle di indipendenza dal potere esecutivo, alla legge ordinaria. Non senza avere sottolineato che, sul piano delle garanzie costituzionali, l’indipendenza del pubblico ministero era ed è ancora oggi assicurata da un rafforzamento del CSM.

A me pare, allora, che l’attenzione meriti di essere spostata sull’ultimo comma dell’art. 107 Cost., sul quale la riforma non incide: “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. La riforma costituzionale in gestazione incide però sul CSM, privandolo del potere disciplinare, spacchettandolo in due e, soprattutto, prevedendo che sia composto da magistrati, rispettivamente, giudicanti e requirenti, non eletti ma sorteggiati.

Ecco quello che a me pare debba essere un punto centrale della discussione: un CSM requirente così configurato, separato dal CSM giudicante, con rappresentanti laici che, a differenza di quelli togati (estratti a sorte in una platea indefinita), saranno sorteggiati in una lista di prescelti dal Parlamento, può garantire l’indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico? Può rappresentare, sul piatto della bilancia, un contraltare effettivo rispetto al rischio che, con una legge ordinaria, possano essere ridotte in futuro le garanzie di indipendenza e autonomia dei p.m.? Fino a che punto può essere rassicurante il mancato intervento sul principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) quando sappiamo che, in un sistema sovraccarico di procedimenti, di fatto sono decisivi i criteri di priorità nella trattazione, sui quali incideranno le scelte politiche del Parlamento e i Progetti organizzativi delle Procure, che devono passare dal CSM requirente con consiglieri togati sorteggiati?

 

  1. La separazione delle carriere assicura parità delle armi col difensore ed equidistanza dal giudice o rafforza invece la figura del pubblico ministero?

Come uscirebbe il pubblico ministero dalla riforma costituzionale? La separazione delle carriere e la scissione del CSM, nella volontà dei proponenti e di fatto, allontana giudici e pubblici ministeri, rendendoli due corpi distinti all’interno della magistratura. La ratio è di valorizzare la terzietà del giudice e di porre il pubblico ministero, quale rappresentante della pubblica accusa, su un piano di equidistanza dal giudice condiviso con il difensore.

In astratto, va riconosciuto, è un disegno ragionevole e coerente con i principi del processo accusatorio.

In astratto, però. Perché in concreto vi è da domandarsi se la riforma di cui parliamo, fondata sulla separazione dei CSM, sia in grado di raggiungere quegli obiettivi. Fino a che punto un p.m. magistrato come il giudice, che già oggi svolge funzioni diverse e dopo le leggi Castelli e Cartabia ha ridottissime possibilità di cambiare funzioni (i dati sono impietosi, meno dell’1% dei cambi di casacca), potrà essere considerato dal giudice alla stregua dell’avvocato, solo perché la sua carriera dipende da decisioni di un altro CSM?

Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori?

Come può la separazione dei CSM assicurare la parità delle armi tra accusa e difesa nel processo accusatorio?

Ammesso che esista in qualche parte del mondo, siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi? In fondo tutti, avvocati, giudici e pubblici ministeri, partono insieme nel loro percorso, come matricole di un corso di laurea in giurisprudenza, studiano assieme, si frequentano, si danno del tu, si laureano e preparano concorsi ed esami.  

 

  1. La riforma migliora la qualità della giustizia?

La Relazione illustrativa del disegno di legge governativo ne motiva la presentazione in ragione del perseguimento di “obiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione”, da raggiungere alla luce dei principi del giusto processo e di una ulteriore evoluzione del sistema verso il modello accusatorio.

Quale miglioramento, in termini di qualità della giurisdizione, può assicurare la separazione delle carriere dei magistrati e, in particolare, la separazione dei CSM e la costituzione dell’Alta Corte disciplinare?

Nei desiderata dei proponenti, e in linea con il modello del processo accusatorio, la separazione delle carriere dovrebbe assicurare:

  1. l’autonomia del giudice dal pubblico ministero, rendendolo davvero terzo;
  2. la parità delle armi con il difensore.

 Le domande da farsi sono allora almeno tre:

1) se l’attuale assetto ordinamentale non assicuri già la terzietà del giudice;

2) se, ammesso che si risponda negativamente alla prima domanda, la separazione delle carriere e dei CSM assicuri il risultato atteso;

3) se la riforma promette effettivamente una parità delle armi tra accusa e difesa.

Quanto alla prima domanda, chi propone la riforma muove da una premessa che, se vera, sarebbe preoccupante (al punto da richiamare l’attenzione di organismi internazionali che vigilano sui livelli di tenuta dello stato liberale, ciò che non risulta sia mai avvenuto): la mancanza di sufficiente terzietà dei giudici italiani, influenzati nelle loro decisioni dall’appartenenza del pubblico ministero alla stessa carriera.

Sulla carriera del giudice influiscono oggi le decisioni del CSM, che per due terzi (20 membri) è composto da magistrati eletti (dai magistrati). I pubblici ministeri – che numericamente sono assai meno dei giudici (penali e civili): 8.000 giudici e 2.600 p.m. – sono oggi solo un quarto dei componenti togati del CSM: 5 su 20. Indubbiamente su questa o su quella decisione (es. la valutazione di professionalità al fine dell’avanzamento di carriera e del relativo scatto stipendiale, la nomina alla presidenza di una sezione di tribunale o di corte d’appello) pesa il voto di tutti i componenti del CSM: ogni singolo voto può fare la differenza, dei togati, ivi compresa la componente minoritaria dei pm, come dei laici (l’altro terzo, eletto dal Parlamento).

Eccoci allora alla seconda domanda: è verosimile che l’attuale assetto – un solo CSM con una componente minoritaria di p.m. – pregiudichi in via generale la terzietà del giudice, cioè di qualsiasi giudice? E’ davvero necessario separare le carriere e i CSM oppure la terzietà del giudice dipende piuttosto dall’imparzialità essenziale per la funzione, dall’etica professionale di ciascuno e dal dovere di adempiere alla funzione con disciplina e onore (art. 54 Cost.), in linea con il giuramento prestato?

E’ difficile a mio avviso che la qualità della giustizia, in termini di livelli di terzietà dei giudici, possa migliorare separando le carriere. Vi sono dati empirici che mostrano già oggi, d’altra parte, l’autonomia del giudice dal p.m. Nella logica del sistema, il pubblico ministero avanza istanze (come il difensore) sulle quali decide il giudice. Orbene, in molti casi il giudice non accoglie le richieste dei pubblici ministeri, durante le indagini (es., la richiesta di applicare una misura cautelare o di archiviare un procedimento) o durante il processo (es., la richiesta di condanna a una certa pena o la richiesta di condanna tout court). Ciò è, semplicemente, fisiologico. Se i giudici non fossero autonomi dai pubblici ministeri nei loro giudizi come si spiegherebbe la percentuale, certo non bassa, di assoluzioni in primo grado? (almeno il 20%). Non solo, se l’autonomia di valutazione del giudice dipendesse dal percorso unitario delle carriere dei magistrati e dall’unitarietà del CSM, bisognerebbe allora porsi il problema della separazione delle carriere dei giudici di primo grado da quelli di appello e di cassazione, che fisiologicamente annullano o confermano le sentenze pronunciate nei precedenti gradi di giudizio. Ciò anche nel giudizio civile, nel quale il p.m. ha funzioni e compiti marginali e del quale non si parla mai, come se la giustizia penale fosse l’unica giustizia interessata dalla riforma costituzionale.

Quanto, infine, alla terza domanda, già si è detto delle perplessità relative alla possibilità che la riforma in discussione possa realizzare una parità delle armi tra p.m. e avvocato. La qualità della giurisdizione, indubbiamente, migliora in corrispondenza di una valorizzazione del ruolo del difensore (lo dico anche da avvocato, iscritto da oltre vent’anni nell’elenco speciale riservato ai professori a tempo pieno, dopo avere iniziato la mia carriera, dopo la laurea, in uno studio legale sotto la guida di maestri del foro milanese). La riforma, tuttavia, non si occupa in alcun modo dei difensori ma si limita a separare i p.m. dai giudici limitatamente al profilo della carriera (non della comune appartenenza alla magistratura). In che modo ciò può meglio assicurare la parità delle armi, ammesso che non sia una chimera, come probabilmente è?

 

  1. Quali miglioramenti della giustizia sono attesi per i cittadini?

La riforma costituzionale della magistratura è spesso presentata nel dibattito pubblico come una riforma della giustizia. E’ fin troppo facile però obiettare che un miglioramento della qualità della giustizia dipende, realisticamente, non dalla separazione delle carriere (per quanto si è detto nel paragrafo precedente), ma da investimenti essenziali per un servizio pubblico così importante per il Paese. Non ci si possono attendere effetti taumaturgici da una riforma che, peraltro, non è a costo zero (passare da un CSM a due, oltre che istituire una nuova Alta Corte disciplinare non lo è, come è stato osservato da Liana Milella nei giorni scorsi).

Mi limito a due dati, tralasciando quelli, noti, della lentezza dei processi civili e penali, rispetto ai quali molto deve essere ancora fatto ma molto la magistratura ha già fatto, assieme al legislatore e all’esecutivo (compreso l’attuale Governo), in vista del raggiungimento degli obiettivi del PNRR. I dati cui mi riferisco riguardano la scopertura degli organici: secondo dati del CSM, nonostante gli sforzi del Ministero della Giustizia, che, va riconosciuto, sta pubblicando un bando dietro l’altro, mancano ancora 1832 magistrati, pari al 17% di scopertura: 1397 giudici e 435 pubblici ministeri. Ancora, secondo dati del Ministero della Giustizia (DOG), la percentuale di scopertura dell’organico del personale amministrativo della giustizia, senza il quale all’evidenza la macchina non funziona, è del 27%: mancano 11.605 dipendenti. Una settimana fa, durante una seduta di laurea alla Statale di Milano, ho chiesto a una studentessa, tirocinante presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, di quanti anni fosse l’istanza di misura alternativa più risalente che avesse visto. La risposta è stata: “di dieci anni”. Il dato dei liberi sospesi – oltre 90.000, secondo dati resi noti dal Ministro Nordio due anni fa – è allarmante ed è una delle tante cartine di tornasole di una giustizia che dovrebbe essere migliorata sotto aspetti forse prioritari rispetto a quelli perseguiti dalla riforma. Ciò anche e proprio per realizzare i principi del giusto processo e quelli costituzionali in genere. Una giustizia migliore richiede organici adeguati, strumenti tecnologici adeguati (penso alla App per il processo penale telematico), ruoli di udienza non affollati e rinvii ragionevoli, non di mesi o di anni. Richiede, insomma, altro rispetto alla separazione delle carriere. Almeno prioritariamente, nell’interesse degli utenti del servizio pubblico giustizia.

 

  1. Il concorso per l’accesso alla magistratura resterebbe unico?

La riforma non incide sulla previsione dell’art. 106, co. 1 Cost., secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. Il concorso è disciplinato con legge ordinaria e coinvolge oggi, a diverso titolo, il Ministero della Giustizia e il CSM. Oggi il concorso è unico e chi lo vince sceglie la funzione (giudice, civile o penale, oppure pubblico ministero), nonché la sede, solo una volta ultimato un tirocinio che prevede periodi di affiancamento nelle diverse funzioni. La scelta avviene sulla base di un’unica graduatoria e di valutazioni che tengono conto anche delle esperienze diverse fatte durante il tirocinio, oltre che della sede del servizio.

Una volta che le carriere dei magistrati dovessero essere separate, il concorso sarebbe unico o vi sarebbero due diversi concorsi? La domanda è di indubbio interesse non solo, ma in particolare, per gli studenti di giurisprudenza che aspirano a diventare magistrati. Chi non avesse una vocazione particolare per fare il pubblico ministero, piuttosto che il giudice, potrebbe sostenere un unico concorso, come oggi, o invece dovrebbe investire le sue forze e le sue risorse sull’uno o sull’altro concorso o, potendoselo permettere, affrontarli entrambi? Le prove d’esame sarebbero diverse?

 

  1. La formazione dei magistrati resterebbe unica o, dopo il CSM, sarebbe sdoppiata anche la Scuola Superiore della Magistratura?

Un’altra domanda. La separazione delle carriere comporterà anche una separazione della formazione dei magistrati, iniziale e permanente? E’ compatibile una formazione comune con carriere separate? Dovrà essere sdoppiata anche la Scuola Superiore della Magistratura, oggi guidata da un direttivo che, per legge (d.lgs. n. 26/2006), è composto da 12 membri, 7 di nomina del CSM (6 dei quali magistrati) e 5 di nomina del Ministro della Giustizia? Dal punto di vista culturale e formativo, che riflessi potrebbe avere l’istituzione di una Scuola Superiore della Magistratura Giudicante (SSMG) e di una Scuola Superiore della Magistratura Requirente (SSMR)? Sarebbe un passo indietro verso l’attuale direzione volta ad allargare i corsi comuni, di giudici e p.m., anche ad avvocati individuati dal CNF? Ci sarebbe il rischio di autoreferenzialità nella formazione in rapporto alle diverse funzioni dei magistrati, con ricadute sulla giurisdizione, nel medio-lungo periodo?

 

  1. Lo sdoppiamento dei CSM indebolirebbe di per sé l’autogoverno della magistratura? Sarebbe preferibile, come soluzione di compromesso, prevedere due sezioni nell’attuale CSM?

Si sostiene, nel dibattito, che la duplicazione dei CSM può rappresentare, sul piano politico-istituzionale, un indebolimento dell’attuale organo di autogoverno della magistratura e della magistratura stessa rispetto agli altri poteri dello Stato. La forza politica di un organo unitario, presieduto dal Presidente della Repubblica, può essere inferiore rispetto a quella di due organi, portatori di istanze di rappresentanza diverse, presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica, costretto a un duplice ruolo, forse inopportuno? Non sarebbe più ragionevole e funzionale, come personalmente a me pare, una soluzione di compromesso tra politica e magistratura, cioè quella di conservare un unico CSM, presieduto dal Presidente della Repubblica, e di articolarlo in due sezioni, una giudicante e una requirente? Quali ragioni potrebbero vincere la saggezza del detto ‘entia non sunt multiplicanda sine necessitate?’  

 

  1. Lo sdoppiamento dei CSM è funzionale sul piano del governo della magistratura e, per quanto di competenza, della giustizia

Il CSM ha plurime attribuzioni: non si occupa solo di carriere, ma ha compiti gestionali/organizzativi, esclusivi o concorrenti con quelli del Ministero della Giustizia. Duplicare i CSM per separare le carriere porta con sé il rischio di complicare la gestione della giustizia rispetto ai profili che richiedono un coordinamento tra uffici giudicanti e uffici requirenti.

L’esempio forse più evidente è quello dei progetti organizzativi degli uffici giudiziari, dai quali dipende l’efficienza e la qualità dei servizi offerti ai cittadini. La previsione di un unico CSM, ovvero di due sezioni all’interno di un unico CSM, può ragionevolmente essere più funzionale ed efficiente, favorendo un opportuno coordinamento. Due CSM diversi potrebbero approvare progetti non coordinati o confliggenti, a discapito del servizio pubblico. Come si risolverebbero eventuali conflitti o difetti di coordinamento?

 

  1. Lo sdoppiamento dovrebbe riguardare anche i consigli giudiziari?

La struttura dell’amministrazione della giustizia prevede 26 distretti di corte d’appello (e tre sezioni distaccate). In ciascuno di essi è costituito un Consiglio giudiziario. Si tratti di organi ausiliari del CSM, che ne riflettono la composizione mista tra membri togati – giudici e p.m. – e membri laici – avvocati e professori. Lo sdoppiamento dei CSM richiederà anche di passare da 26 a 52 consigli giudiziari? Tra le principali attribuzioni di tali organi vi sono: le tabelle di composizione degli uffici (cioè i criteri di assegnazione dei magistrati alle sezioni e dei procedimenti ai singoli magistrati); le valutazioni di professionalità dei magistrati il trattenimento in servizio o la cessazione dall’impiego dei magistrati; l’incompatibilità dei magistrati; gli incarichi extragiudiziari dei magistrati; il passaggio di funzioni dei magistrati; le attitudini al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi. Se per l’individuazione dei componenti dei CSM vale la regola del sorteggio, deve essere prevista/sarà prevista la stessa regola anche per i Consigli giudiziari?

 

  1. Prevedere il sorteggio secco come metodo di composizione della rappresentanza della magistratura nei due CSM e nell’Alta Corte disciplinare è ragionevole?

Eccoci arrivati a uno degli aspetti più critici, a nostro avviso, della progettata riforma costituzionale, rappresentato dalla disciplina relativa alla composizione dei nuovi organi costituzionali: i due CSM, giudicante e requirente, e l’Alta Corte disciplinare.

La riforma di uno dei poteri dello Stato – la magistratura – viene proposta prevedendo meccanismi differenti di composizione dei componenti togati e laici, con uno squilibrio nei rapporti di forza a vantaggio di questi ultimi e, in particolare, del Parlamento che li nomina. Sul piatto della bilancia, nella composizione dei nuovi organi costituzionali il potere legislativo prevale su quello giudiziario. Non sotto il profilo del numero dei componenti, bensì attraverso la previsione di un sorteggio secco per la rappresentanza dei magistrati e di un sorteggio da una lista di pre-scelti dalla politica, per la rappresentanza laica.

Quanti ai due CSM, la riforma prevede che i componenti laici (un terzo) siano estratti a sorte da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione. I membri togati (due terzi) sono invece estratti a sorte, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, “nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge”.

Un primo motivo di perplessità riguarda l’abbandono dell’elezione (da parte del Parlamento, per i laici, e da parte dei magistrati, per i togati) a favore del sorteggio, che per la prima volta entrerebbe nella Costituzione come metodo di individuazione di persone cui affidare incarichi in organi costituzionali. L’elezione è un metodo di rappresentanza ‘intuitu personae’, nel quale sono rilevanti il merito (il curriculum vitae), le capacità, le idee, la visione, la rappresentatività, ecc. Il sorteggio è un metodo cieco, ispirato alla logica secondo cui ‘uno vale l’altro’.

Come si può ragionevolmente pensare che l’autogoverno di uno dei poteri dello Stato sia affidato alla sorte?  

Come si può giustificare ed accettare, anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, che una categoria professionale – quella dei magistrati, giudici o p.m. – non possa scegliere i propri rappresentanti, a differenza di quanto accade per gli avvocati, e debba essere governata da colleghi o colleghe estratte a sorte?

Si potrebbe forse rispondere che, nelle intenzioni dei proponenti, il sorteggio serve a sterilizzare il potere delle correnti dei magistrati, che nel recente passato non hanno certo dato il meglio di sé nella gestione del CSM. Ammesso che questa sia una giustificazione, perché allora non prevedere il sorteggio secco anche per i laici? E’ ragionevole e compatibile con i principi costituzionali, quello di indipendenza e autonomia della magistratura, in primis, la pretesa della politica (del Parlamento) di determinare la rosa dei sorteggiabili e l’orientamento dei laici?

E se paradossalmente il sorteggio, che è cieco, determinasse una composizione di magistrati tutti appartenenti a una medesima corrente?

D’altra parte, vi è da chiedersi quali sarebbero le procedure per il sorteggio dei magistrati nei due CSM, rimandate in modo vago alla legge. Sono proprio sicuri, i proponenti della riforma, che per legge ordinaria non possa rientrare dalla finestra quel che si vorrebbe far uscire dalla porta, cioè l’influenza delle correnti? Tutto dipende da come si compone il bussolotto del sorteggio. Se contiene i nomi di 8.000 giudici o, rispettivamente, 2.500 pubblici ministeri, con la possibilità di estrarre anche il neo-magistrato, oppure se contiene solo i nomi di chi avanza una candidatura, che ben potrebbe essere sollecitata dalle correnti: associazioni libere di magistrati che appartengono alla storia e alla cultura della magistratura e che non sparirebbero con la separazione delle carriere, come è evidente.

Il sorteggio dovrebbe riguardare anche i giudici dell’Alta Corte disciplinare; anche in questo caso sarebbe un sorteggio secco per i rappresentanti della magistratura giudicante (sei) e requirente (tre) e un sorteggio nell’ambito di un elenco predisposto dal Parlamento, per tre giudici laici (gli altri tre sono nominati dal Presidente della Repubblica, almeno in questo caso senza sorteggio). Si ripropongono qui perplessità analoghe a quelle avanzate rispetto al sorteggio dei componenti togati del CSM. La funzione di giudici disciplinari è di tutta evidenza assai delicata. L’istituzione di un’Alta Corte disciplinare può essere di per sé ragionevole. Perché però non consentire ai magistrati di eleggere i propri rappresentanti, cui affidare il potere e la funzione disciplinare su sé stessi?

A conti fatti, l’unica elezione in organi costituzionali che resterebbe prevista da parte dei magistrati ordinari (a differenza di quanto avviene per quelli amministrativi, tributari e militari, nei rispettivi consigli) è quella dei giudici costituzionali (art. 135 Cost.), con una evidente disparità di trattamento e asimmetria rispetto ai meccanismi di composizione dei due CSM e dell’Alta Corte disciplinare. E, per riprendere un interrogativo del Presidente emerito Canzio, “in quale proporzione sarebbe distribuita fra giudici e pubblici ministeri la quota di un terzo dei giudici della Corte costituzionale nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa, ai sensi dell’art. 135, commi 1 e 2, Cost.?”.

 

  1. Il sorteggio dei magistrati non pregiudica l’equilibrio con la rappresentanza laica, politicamente più organica e forte?

Per quanto abbiamo detto, la risposta ci sembra debba essere affermativa. Una componente di estratti a sorte ben difficilmente sarà coesa e organizzata, al suo interno e nelle dinamiche collegiali, come una componente di sorteggiati in un listino del Parlamento, che riflette le dinamiche e il peso rispettivo delle forze politiche.

Ecco il punto, allora: l’indipendenza della magistratura dalla politica, pur affermata a parole dalla Costituzione, rischia di essere vanificata dal peso che il meccanismo del sorteggio temperato assegna alla politica.

Per questo a mio avviso sarebbe ragionevole e auspicabile un emendamento al disegno di legge costituzionale volto a sopprimere il meccanismo del sorteggio per i togati o, quanto meno, a parificarlo a quello previsto per i componenti laici. Se proprio non si volesse rinunciare al sorteggio, si potrebbe prevedere un’elezione da parte dei magistrati dei colleghi o delle colleghe sorteggiabili.

 

  1. E’ ragionevole prevedere che la rappresentanza dei magistrati nell’Alta Corte disciplinare sia limitata ai soli magistrati che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità?

A me pare che questa previsione sia di dubbia ragionevolezza. Perché mai un giudice di merito o un pubblico ministero che non svolga o abbia svolto funzioni di legittimità non può essere adatto a ricoprire il ruolo di giudice dell’Alta Corte disciplinare? Il giudizio disciplinare coinvolge, evidentemente, non solo questioni di diritto, ma anche, ordinariamente, questioni di fatto e di prova che appartengono alla fisiologia delle funzioni del magistrato di merito, che potrebbe senz’altro dare un importante contributo al nuovo organo costituzionale. Ecco un altro tema sul quale riflettere, in vista di possibili emendamenti migliorativi della proposta di legge.

 

  1. Istituire l’Alta Corte disciplinare solo per la magistratura ordinaria e non anche per le altre magistrature (amministrativa, tributaria, contabile) è ragionevole?

E’ un altro punto critico della riforma, che sembra avvalorare il sospetto del suo carattere ‘punitivo’/revanchista nei confronti della sola magistratura ordinaria. Personalmente condivido l’opinione di quanti ritengo che sarebbe ragionevole, nel momento in cui si istituisce un’Alta Corte disciplinare (sia per i pm sia per i giudici), estenderne la competenza in rapporto non solo alla magistratura ordinaria bensì a tutte le magistrature, eventualmente prevedendo diverse sezioni al suo interno. Diversamente, si creano nel sistema disarmonie e disparità tra magistrati e magistrature, anche sotto il profilo dei criteri di composizione dei rispettivi organi disciplinari.

 

  1. Perché prevedere la competenza dell’Alta Corte Disciplinare, e non di altro organo, per le impugnazioni avverso i propri provvedimenti?

Si tratta di un altro punto critico della riforma. Si prevede che contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata. E’ di dubbia ragionevolezza aver previsto la competenza dello stesso organo, seppure in diversa composizione, quale giudice dell’impugnazione dei propri provvedimenti. A tacer d’altro, proprio la ratio sottesa alla separazione delle carriere – la volontà di sterilizzare possibili influenze sulle decisioni derivanti dai rapporti di colleganza – dovrebbe per coerenza riguardare anche i giudici dell’Alta corte. La disciplina in materia di impugnazioni dei provvedimenti del nuovo organo disciplinare andrebbe rivista.

 

  1. In un contesto di carriere e di CSM separati può dare luogo a disequilibri, a favore dei pubblici ministeri e a detrimento dei giudici, la competenza del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione (cioè del vertice dei p.m.) a promuovere l’azione disciplinare verso i giudici?

La domanda impone, in effetti, una riflessione. Si separano le carriere di giudici e p.m. ma si prevede poi un’unica giurisdizione disciplinare (l’Alta Corte), composta da togati (sorteggiati tra giudici e p.m.), con possibile promozione dell’azione disciplinare nei confronti dei giudici da parte del vertice dei p.m. (il Procuratore generale presso la Corte di cassazione). In altre parole, una volta che il corpo dei p.m. è separato da quello dei giudici, fa specie pensare che i p.m. (la cui influenza sui giudici si vorrebbe sterilizzare) possono perseguire disciplinarmente anche e proprio i giudici. E’ un aspetto sul quale una riflessione sembra opportuna.

 

  1. Prevedere che i pubblici ministeri con una certa anzianità di servizio possano diventare giudici di Cassazione per meriti insigni non contraddice la separazione delle carriere, consentendo un passaggio da pm a giudice?

La riforma interviene sull’art. 106, co. 3 Cost. estendendo il novero delle persone che possono essere nominate dal CSM (giudicante) quali consiglieri di Cassazione per meriti insigni. Accanto ai professori ordinari in materie giuridiche e agli avvocati con 15 anni di esercizio, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, si inseriscono i magistrati appartenenti alla magistratura requirente con la stessa anzianità di servizio.

E’ vero che, sul piano della parità delle opportunità, si prevede per i pubblici ministeri un trattamento analogo a quello riservato agli avvocati, ma è anche vero che viene da domandarsi se, una volta che si separano le carriere, sia ragionevole consentire che un avanzamento di carriera di un p.m., quale la nomina nella Suprema Corte di Cassazione, possa essere deciso dal CSM giudicante, cioè dai giudici che dovrebbero conservare una effettiva e apparente terzietà dai p.m., secondo la ratio separatista.

 

  1. Sarebbe ragionevole prevedere che la nomina di Consiglieri di Cassazione per meriti insigni sia a tempo determinato (per es., per un mandato quadriennale), consentendo così ai professori universitari di non perdere per sempre il loro status e di poter rientrare in università?  

La riforma dell’art. 106 Cost. rappresenta a mio avviso un’occasione per un intervento che, secondo una proposta avanzata senza seguito nei mesi scorsi, consentirebbe un considerevole ampliamento del novero dei professori ordinari che rispondono ai bandi per la nomina quali consiglieri di Cassazione per meriti insigni. Oggi, un professore che viene nominato consigliere di Cassazione perde lo status di professore, uscendo dal relativo ruolo, nel quale non può tornare. Ciò rappresenta un evidente disincentivo, che potrebbe essere evitato prevedendo una durata del mandato (analogamente a quanto avviene per professori che assumono le funzioni di consigliere del CSM o di giudice costituzionale). La Corte di Cassazione – il giudizio di legittimità – si potrebbe giovare, qualitativamente, dell’apporto di accademici che si sono contraddistinti nei diversi ambiti del diritto. E’ una piccola ma rilevante modifica, che sarebbe salutata con favore dal mondo universitario e che potrebbe costituire oggetto di un emendamento al disegno di legge costituzionale. Come mostra questo esempio, emendamenti migliorativi sono ipotizzabili anche al di fuori del terreno del compromesso tra politica e magistratura. Possono essere considerati, però, solo se si accetta di aprire il confronto e il disegno di legge a possibili apporti migliorativi.

 

  1. Un problema di separazione dei poteri non dovrebbe ancor prima essere affrontato con riferimento al ruolo di magistrati nella politica e nel Governo?  

Chiudo la mia serie di domande così come l’ho aperta, con una piccola provocazione. L’attenzione si concentra tutta sulla separazione dei percorsi di carriera all’interno della magistratura. Esiste però una realtà, sottolineata da molti e, tra questi, da Sabino Cassese nel suo Il governo dei giudici (2022), oltre che da rappresentanti delle Camere Penali, che riguarda i magistrati fuori ruolo, che prestano servizio presso i ministeri o presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: non solo in uffici tecnico-giuridici (come gli uffici legislativi), nei quali il loro apporto (seppur non esclusivo) è in una certa misura utile e raccomandabile, ma anche in uffici con compiti di natura politica. La contiguità dei magistrati con il potere esecutivo e con la politica è un tema che meriterebbe di essere affrontato con maggiore attenzione; così come quello delle porte girevoli tra politica attiva (nominati o eletti) e magistratura. Se si vuole avviare una riflessione pacata a 360 gradi sull’indipendenza della magistratura l’impressione è che bisogna guardare ben oltre il tema della separazione delle carriere. La politica e la magistratura dovrebbero riflettere anche su questo. E uno spunto può essere dato dalla notizia, di queste ore, dell’approvazione di un emendamento al decreto milleproroghe che evita l’entrata in vigore di una norma, introdotta dalla riforma Cartabia, che impedisce (impediva) il passaggio diretto (il rientro in servizio) dei magistrati fuori ruolo dai ministeri agli uffici direttivi.

Chiudo con un’ultima provocazione rivolta ai magistrati: in non pochi casi hanno manifestato contro la riforma, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, lasciando la sala quando ha preso la parola non un politico ma un magistrato fuori ruolo in veste di rappresentante del Ministro della giustizia, pure lui ex magistrato. E’ avvenuto ad esempio proprio in quest’aula a Milano. E fa riflettere.